venerdì 1 febbraio 2013

A proposito di Un volto che ci somiglia di Carlo Levi (1959-1960 )

 

[ vedi anche le 15 TESI ESTRATTE ]


OSSERVAZIONI PRELIMINARI


Il saggio di Carlo Levi Un volto che ci somiglia, di cui trovate riprodotto in allegato il primo paragrafo ( L’ umile Italia ), fu scritto, e tradotto in tedesco, nel 1959, come testo di accompagnamento di un volume di fotografie di János Reismann. Fotografie per lo più in bianco e nero, scattate da questi negli anni cinquanta. Il libro apparve lo stesso anno, dapprima in tedesco, per i tipi dell’ editore Belser di Stoccarda. Il titolo era appropriatamente: “ ITALIEN: Alles ist gewesen, alles ist Gegenwart “
[ “Italia: tutto vi è avvenuto, tutto è presenza” ]. Vi si vedono noti monumenti del nostro Paese, reliquie dell’ antichità, del medioevo, della prima età moderna, a volte immersi nel paesaggio, a volte attorniati e ‘vissuti’ dai nostri connazionali di allora. Ma vi si vedono anche marine, siluette di villaggi appollaiati su dei colli, oppure visti dal mare. E poi molti scorci dei quartieri popolari di Roma e Napoli. Scugnizzi in strada, gente in vespa, molti bambini, contadini, pescatori. Insomma tanta umanità che popola le vestigia del nostro passato, vestigia che sono la loro ‘casa’. 

 
L´anno seguente il saggio venne pubblicato in italiano da Einaudi (credo senza foto), così intitolato: Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’ Italia. Nel 2000 Goffredo Fofi ne curò la riedizione, assieme a due altri testi più brevi, presso le Edizioni e/o. Stavolta il titolo era: Un volto che ci somiglia. L’ Italia com’ era. La seconda parte del titolo suggerisce quantomeno che le riflessioni di Levi si riferiscano ad un nostro passato che non c’ è più. Una cosa abbastanza singolare per un lavoro che doveva descrivere la presenza perenne del passato in Italia. Forse l’ aggiunta L’ Italia com’ era non va tanto imputata a Fofi, quanto all’ editore stesso. Infatti, all’ interno, il titolo torna ad essere: Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’ Italia.
Facendovi notare questi dettagli non prendetemi per un pedante. Piuttosto vorrei segnalare un problema, porre fin dall’ inizio una domanda: secondo voi che leggerete o avete letto il testo, le osservazioni di Levi sono sorpassate o ci riguardano ancora ? Di certo, se avesse ragione l’ ultimo editore, il saggio di Levi verrebbe eo ipso confutato.
L ‘ autore avrebbe avuto la pretesa di fare la diagnosi di una civiltà di lunghissima durata e di trovarne i tratti perenni… ed eccolo smentito nel giro di 40 anni. Sia come sia, lasciatemi tratteggiarne, a mo’ d’ introduzione, alcune caratteristiche e di fare alcune sottolineature.
Il testo di Levi va ben oltre le immagini, è un vero e proprio saggio autonomo. In fondo, si tratta di immagini a noi familiari, viste in tanti altri volumi fotografici, belle, interessanti, ma un po’ scontate per un italiano. Diversamente stavano le cose per un lettore tedesco del 1959. Ci si può immaginare come sia andata la cosa. L’ editore di Stoccarda propone a Levi di scrivere un commento alle immagini. Con questo vuole dare peso e lustro al volume. Levi è infatti al colmo della sua popolarità. Cristo si è fermato a Eboli è stato tradotto in tutte le lingue principali del pianeta. Ha avuto enormi consensi di critica. Non solo. Dal neorealismo in poi il cinema italiano si è imposto all’ attenzione in tutte le culture. E Levi che fa ? Accetta, vede le immagini ed inizia in piena libertà a fare una riflessione complessa sul rapporto tra passato e presente nel nostro Paese, sulle radici della nostra cultura, sui suoi caratteri distintivi. Né più né meno. Non pensa nemmeno un minuto a scrivere delle didascalie alle foto. Vuole scrivere un testo al tempo stesso organico e impressionistico, solido ma anche poetico, articolato in una serie di aperçus. Il suo non è un trattato paludato, ma è a tutti gli effetti un testo impegnativo, che chiede molto al lettore. Non sappiamo se l’ editore di Stoccarda sia rimasto soddisfatto. Di certo, il normale lettore straniero, se si basa sulle immagini e non ha un vasto bagaglio culturale, viene letteralmente ‘strapazzato’.
Il paragrafo più lungo è il primo ( che trovate per intero in allegato ). ‘Apre’ la strada a tutti gli altri e ne fa da fondamento. È quello più articolato e argomentato, ha una struttura forte, ben ragionata, anche se il linguaggio tende al poetico e non ha nulla di deduttivo. Gli altri paragrafi sono più brevi e descrittivi, offrono a volte delle ‘vedute’ autonome, a volte degli approfondimenti, degli arricchimenti al primo.
Nell’ insieme, Un volto che ci somiglia è un testo ricco di pathos e di coinvolgimento. Ha momenti poetici, ma paga troppo spesso un certo eccesso di trasporto. Se vogliamo, il suo difetto maggiore sta in una certa tendenza al barocco, a volte addirittura indulge all’ apologia. In certi momenti avrebbe sicuramente giovato un po’ più di controllo, di spirito dialettico ( nel trovare l’ incaglio, il rovescio della medaglia ). Ciononostante è un lavoro di grande valore concettuale, offre degli scorci illuminanti, perfino geniali sulla natura della civiltà italiana. È il testo di un artista vero, di razza, che ‘lavora di prima mano’, che sa vedere ( non passi inosservata la distinzione leviana tra “vedere“ e “guardare“ ), che sa cogliere l’ umano nel profondo. Questo non fa meraviglia perché Levi fu anche un grande pittore, un osservatore acutissimo, dotato di una vasta e profonda cultura. Aveva dato già grandi prove di queste sue qualità in Fuga dalla libertà, Cristo si è fermato a Eboli e L´orologio.



ALCUNE SOLLECITAZIONI ALLA LETTURA


A ) Levi pone a volte l’ accento sulla differenza tra popoli ‘giovani’ e popoli ‘vecchi’. Non sviluppa il tema, occupandosi solo dell’ Italia. Resta però implicito che l’ italiano è un popolo vecchio mentre i popoli dell’ Europa del Nord e del Nord Ovest sono popoli giovani.


B ) La trama su cui Levi intesse il saggio consiste nell’ idea che nessuna cultura, nessuna civiltà, nessuna società umana è pensabile senza il processo che rende oggettiva la soggettività. Senza antropizzare il suo ambiente, senza rendere oggettivi gli stili di vita, senza formare e trasformare le cose, senza produrre artefatti, mai l’ umano può sedimentarsi né trasmettersi. Hegel chiama questo processo la formazione dello ‘spirito oggettivo’. Popper, con una scelta terminologica meno felice parla di ‘ terzo mondo ‘.
Ben si capisce che quello dell’ oggettivazione, nel caso di una etnia, di una nazione, di una civiltà, è un processo, ed è parimenti evidente, se solo si riflette un poco, che ogni civiltà è un’ entità diacronica, che si forma per accumulo.
Mi preme pure sottolineare che il processo di formazione di questa entità, così come lo tratteggia Levi, è sì assai variegato, ma ruota su due cardini:
( i ) La trasmissione-trasposizione comunicativa diretta, orale e non orale. Si pensi al momento dell’ educazione, del ‘dare l’ esempio’, o al momento del trasmettere un know how, un atteggiamento. Ma si rifletta anche sui momenti imprescindibili del mostrare e della comunicazione non verbale che accompagnano la comunicazione verbale.
( ii ) La oggettivazione di dati umani, estetici, di vita, in cose, in oggetti, che poi ci staranno di fronte, o che saranno usati. Il lavoro cumulativo sulla e nella natura, la costruzione di agglomerati urbani, la trasformazione dell’ambiente in generale. La fabbricazione di strumenti, ma anche la creazione di opere d’ arte o di culto fanno parte di questo aspetto. Ma anche la ‘cosificazione’ del sapere in strumenti di studio, di informazione e di trasmissione sono componenti di questo lavoro. E si faccia mente locale su questo: solo le cose possono durare, sopravvivere al loro autore, trasmettere e dare stabilità ad una cultura, o civiltà che dir si voglia.

C ) Levi è ben conscio di questi dati e, senza però offrirci una teoria, li usa sapientemente per giungere alla conclusione che l’ Italia è un volto che ci somiglia. Questo vale, anzi può valere per ogni popolo o etnia o entità nazionale. Ma vale forse per tutti allo stesso modo, allo stesso grado, allo stesso livello ? Io credo di no. Un conto è se un popolo ha iniziato questo cammino (magari agglutinandosi a salti, per inglobamenti da stadi precedenti, da suoi prodromi) da migliaia di anni o da soli mille anni o addirittura da alcun centinaia di anni. E poi fa molta differenza da quando un popolo ha avuto un centro, da quando si è strutturato in città, da quando si è creata un’ amministrazione, da quando si è dotato di una lingua scritta, da quando ha iniziato a trasformare radicalmente e massicciamente l’ ambiente per insediarvisi e soddisfare i suoi crescenti bisogni. Conta molto sapere da quando pratica tecniche raffinate di agricoltura e allevamento, da quando ha smesso di essere un popolo ‘silvano’.
[ Ora, sappiamo che in Italia certi processi hanno raggiunto un buon stato di avanzamento da almeno 3.500 anni. Poi sappiamo che un processo di unificazione culturale, prima in entità regionali o pluriregionali o addirittura nazionale è iniziato almeno da 2.500 anni.
Penso poi valga la pena anche riflettere su un fatto che ci è ormai diventato estraneo. Questi processi sono avvenuti lentamente o lentissimamente. Noi siamo ormai abituati a pensare in svolte, o pseudo-svolte epocali, che avvengono nel corso di venti o cinquant’ anni. Ma è poi possibile un tale ritmo ? Forse ci facciamo abbagliare dalle apparenze. In ogni caso, la lentezza dello scorrere del tempo ha giovato ad una metabolizzazione sicura e profonda del nuovo, ha permesso di scremare l’ effimero dal decisivo, di dare al decisivo il tempo di diventare effettuale-razionale, ha permesso di esperimentare le contaminazioni, ha permesso di resistere alle sopraffazioni e di prendersi delle rivincite.
E poi non dimentichiamo che grandi religioni come l’ Ebraismo, il Buddismo, il Cristianesimo e l’ Islam si sono costituite tutte tra l’ 800 a.C. ed il 500 d.C.
Ma anche la forma-stato, come i concetti del diritto, dell’ etica e dell’ amministrazione, così come li conosciamo in Occidente, hanno le loro radici nell’ antichità. E che dire poi del ruolo da attribuire al sapere ? Ebbene, l’ Italia fu coinvolta quasi fin dall’ inizio in questi processi fondativi, poi ne fu addirittura al centro. E tutto questo non ha coinvolto solo delle élites, ha toccato anche le classi subalterne, sebbene queste ne fossero in gran parte escluse. ]

D ) Levi fa di tutto per aprirci gli occhi, per farci vedere nell’ Italia e nell’ italianità i tratti dell’ arcaico e dell’antico che sono ancora in noi. E per farceli apprezzare. E li trova in alto grado anche nella civiltà contadina, anche in quella che tanto spesso viene ritenuta tanto primitiva e superstiziosa. E non lesina ad apprezzarli e onorarli. Del resto ha mostrato quanta umanità alta e acculturata ci fosse nella Lucania contadina. Da noi le classi subalterne, da tempo immemorabile, non sono rozze o ottuse. L’ individuo è rispettato nella sua umanità integrale, è inserito in comunità ricche di scambi interumani come la famiglia, il vicinato, il villaggio, comunità che gli danno una forte stabilità esistenziale.

E ) Levi enuclea anche i due fattori che hanno favorito lo sviluppo complesso, ricco di accumulo e di punti di non ritorno, della civiltà italiana: il policentrismo ed i processi di omogeneizzazione con un salto di livello.
Il policentrismo ha permesso alle varie comunità etniche e regionali di distillare lentamente la loro cultura, di darle forma, sostanza e stabilità. Ha permesso che la popolazione vi si agglutinasse.
Ma d’ altro canto ha avuto luogo anche l’ omogeneizzazione, sempre coatta, in misura maggiore o minore, che ha costretto le tante comunità e etnie a fare dei salti culturali, di stile di vita, di modo di produzione e di organizzazione, anche di religiosità. E qui non possiamo non pensare ai due massimi momenti: l’ Impero Romano e il Cristianesimo-Cattolicesimo. Sotto l’ egida e l’ egemonia di queste istituzioni ha avuto luogo l’ omogeneizzazione, in entrambe i casi con una saggia dose di tolleranza e di assimilazione dell’ arcaico, del particolare, del primigenio.

F ) In Italia l’ arte ha avuto un ruolo decisivo, fondante ( non solo fondamentale ) nel fare civiltà, nel darle forma. Notare: la civiltà è stata per millenni molto più visuale di quanto lo sia da un paio di secoli. L’ arte ha inciso nel dare forma al paesaggio, alle città, ai palazzi, ai monumenti, nel trasmettere miti e riti sociali e religiosi, nel dare loro stabilità, pregnanza, nel dare loro efficacia comunicativa, e dunque efficacia tout court. Ma ha influenzato anche il modo di vestirsi, di comunicare. Ha offerto modelli di orientamento e di comportamento. Ha creato e diffuso dei gusti, ed in generale una forte sensibilità per il ‘buon gusto’. Le civiltà antica, medievale e della prima e media età moderna hanno impresso nell’ ambiente grandi stilemi. Poi l’ utilitarismo, giunto in tempi recenti al parossismo, il produttivismo, l’ homo oeconomicus hanno preso il sopravvento. I risultati sono spesso raccapriccianti. Basta guardarsi intorno. Sia come sia, fa una notevole differenza, da questo punto di vista, quanto antico o vecchio o giovane sia un popolo.

G ) La civilizzazione passata ha avuto il tempo di occuparsi del cibo, della forma, della grazia, dell’ armonia, del modo di comportarsi e di comunicare. Ha prodotto riti e miti dotati di un alto valore estetico. Tutte cose che un tempo stavano in primo piano.
Anche coloro che erano esclusi dal processo di civilizzazione urbana o curtense, anche coloro che vivevano nella totale indigenza si erano dotati degli strumenti per resistere, per interpretare e ammansire il mondo, per esorcizzare il male, e vivere, in comunità, il bene loro concesso. Qui Levi fa valere la sua esperienza lucana, in cui ha scoperto il mondo arcaico, dei fuori-dalla-storia. Ha scoperto il lato fortemente umano e sano di una popolazione arcaica, creatrice di miti e di esperienze magiche che avevano contaminato il cristianesimo.

H ) Le sue osservazioni sulla profonda sicurezza esistenziale degli italiani meritano molta attenzione. Sono di grande rilievo sia perché enuncia questa tesi [ n° 10 nel mio tesario ] in modo netto, deciso, sia per come ci è arrivato. Le parti precedenti la preparano e la rendono plausibile. Questo tratto, che spesso ci sfugge nella sua ovvietà, perché sappiamo che niente è più difficile da capire e afferrare di chi ciò che ci è più vicino e quotidiano, acquista nel contesto leviano la giusta rilevanza che gli compete e trova la sua collocazione esatta. È un dato antropologico di primordine, un dato non biologico, bensì culturale. È un dato non casuale, ma che si è fatto. È un dato di lunga durata. È un dato di grande persistenza. È un dato che Levi pone nella giusta luce. L’ idea della compiutezza di sé, di così come si è, non ha nulla di atomistico, del pericoloso atomismo nichilistico che rischia di minacciare l’ integrità dell’ individuo in ogni momento, di privarlo del senso della presenza, di offrirlo all’alienazione. Questa idea nasce, si forgia, si stabilizza nella comunità familiare, del vicinato, del villaggio, della città. Tutti luoghi di un forte ‘agire comunicativo’ ( inteso alla Habermas ).

I ) Ebbene, questo senso per le comunità concrete, organiche, in un certo senso viventi è il portato di un grande lavoro di civiltà. Ne rimane traccia nel particolare senso delle radici, dell’attaccamento agli amici e ai parenti, che tanto caratterizzano gli italiani. Ma questi tratti fortemente positivi sono però stati e sono spesso un grave impaccio rispetto alla res publica in senso forte, verso istituzioni ben più astratte, come lo stato, il sistema giuridico, l’ etica pubblica. E spiegano anche tanta refrattarietà a regole universali, eque, condivise, ma giustamente rigide, valide al di fuori di troppa libertà interpretativa. Spiegano anche, in una parola, la forte refrattarietà italiana alla modernità.

L ) Levi ci offre ancora una volta una spiegazione convincente di questo habitus degli italiani. Non nega affatto l’ importanza che l’ Italia debba fare sforzi per adeguarsi alla tendenza immanente alla civiltà occidentale contemporanea. Nella chiusura del primo capitolo si lascia andare a toni ottimistici, esalta il valore fondante della Resistenza come occasione di riscatto del popolo italiano e confida soprattutto nel movimento operaio e contadino, nei Contadini in senso lato [come li aveva caratterizzati nel romanzo L’ orologio (Torino 1950)]. Qui pecca certamente di ottimismo di maniera e dimentica i toni ben più critici, negativi e complessi de L’ orologio, un romanzo ingiustamente dimenticato o non apprezzato nella sua grandezza, letteraria e di pensiero.

[[ Nella riflessione che faremo in VoltaLaCarta!! – come abbiamo precisato nella riunione del 19 settembre scorso – vorremmo procedere su questi assi:

a ) comprendere, interpretare il testo ‘interrogandolo’ nel suo valore-di-verità,

b ) porre il problema della sua attualità, o meno, riferendoci esplicitamente alla tesi pasoliniana della cosiddetta mutazione antropologica degli italiani,

c ) raccordare il saggio di Levi con quello di Leopardi (Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani) e con gli Scritti corsari e le Lettere luterane di P.P. Pasolini. ]]


Giuseppe Vandai Heidelberg, 25 / 09 / 2012





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