martedì 30 luglio 2013

APPUNTI SULLA BORGHESIA FRANCESE NEL ‘500 E ‘600


È utile occuparsi del caso francese usando lo schema dei sette stadi di sviluppo della borghesia. [ Vedi PRIMO ALLEGATO alla mia mail del 22 / 03 / 2013 “La borghesia in generale” ]. I due stadi di rilievo sono il 4° ed il 6°.
Ciò che vorremmo capire – nella variante francese – è
* ) la formazione della borghesia sia come fenomeno sociale e politico che come compagine interna all’ Ancien Règime e al terzo stato, come testa del terzo stato;
** ) la dialettica tra i ceti e tra questi ed il potere centrale regio;
*** ) l’ inizio della formazione di una borghesia nazionale [da collocare però a pieno titolo solo nel ‘700, ma già prima della Rivoluzione Francese]. [ Nota bene: scopriremo che in Francia sussistevano fin dai primordi della monarchia, in piena epoca feudale, i germi di un controllo periferico della regalità, così come meccanismi e istituzioni passibili di sviluppi verso lo stato burocratizzato e la formazione di una monarchia costituzionale].



Borghesia nazionale e Stato centralizzato sono in Francia due poli di un’ unica dinamica. Lo Stato centralizzato è la levatrice della borghesia nazionale, così come la borghesia nazionale fornirà la spina dorsale della burocrazia statale e della società civile. Del resto società civile e stato assoluto ma non tirannico, cioè politicamente e giuridicamente limitato, sono due fenomeni coevi e simbiotici.

In prima battuta la borghesia francese si farà ‘corrompere’, ovvero integrare nell’ Ancien Règime. Lo storico Fernand Braudel parlerà infatti di “tradimento della borghesia”. Ma il processo non si concluse affatto con questa prima battuta d’ arresto. La tesi di Braudel va per di più relativizzata. Anche dopo che la borghesia del sapere si fece cooptare nella nobiltà, il peso economico e sociale della borghesia francese non diminuì. Non solo. La nuova nobiltà, la noblesse de robe, non rinunciò a concepire la monarchia come una monarchia basata sul consenso. Non si può affatto affermare che in Francia si ebbe una ricaduta in un regime di tipo feudale. Al contrario la monarchia si avviò ad essere in maniera crescente uno stato burocratico-amministrativo. La via verso la modernità rimase aperta.


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La Francia, così come la conosciamo, venne a configurarsi in un lungo lasso di tempo. La zona iniziale andava da Parigi a Orleans ( Île de France). Con grandi difficoltà i sovrani Capetingi (regnanti dalla fine del ‘900 al primo trentennio del 1300 ) riuscirono ad imporsi ai grandi feudatari, da sempre gelosi del loro potere regionale o addirittura intenzionati a spodestare il regnante di turno.

Dal 1337 al 1453 il regno di Francia è alle prese con un conflitto estenuante con l’ Inghilterra ( Guerra dei cento anni ) innescato dalle pretese di dominio dei sovrani inglesi sull’ Aquitania, la Normandia e l’ Anjou, in seguito ad un’ oculata politica matrimoniale. Alla fine gli inglesi debbono lasciare il territorio francese. Buona parte del territorio francese è infine sotto il dominio di Parigi, sede del reame.

Mancano però ancora ‘all’ appello’ vasti territori che noi oggi attribuiremmo ovviamente alla Francia. Solo nel la seconda metà del ‘400 [ regnanti Carlo VII, Luigi XI e Carlo VIII ] vengono annesse Provenza, Borgogna, Anjou e Bretagna.

Nella seconda metà del ‘400 il regno si stabilizza anche dal punto di vista istituzionale, ma con questa particolarità: passati i maggiori pericoli ed euforizzati dalle annessioni, i re accentuano la centralizzazione e la componente autoritaria del governo. Poca o nulla è la ricerca del consenso. Non convocano più gli Stati generali. I parlamenti regionali [ 7 , fino alla fine del ‘400, compreso quello di Parigi ] sono interpellati dal re il meno possibile. Lo stato tende a rafforzarsi e burocratizzarsi. Nel 1467: viene decisa la perpetuità degli uffici regi.


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Due parole sulle due maggiori istituzioni nelle quali si concretava la funzione di controllo, di contrappeso, e che a volte divennero un vero e proprio contropotere alla supremazia del sovrano: i PARLAMENTI REGIONALI e gli STATI GENERALI.

I PARLAMENTI erano delle CAMERE DI GIUSTIZIA. In esse i giudici, inizialmente solo di origine nobiliare, giudicavano in prima istanza i sudditi appartenenti al loro stesso ceto, sia in cause civili che penali. Fungevano invece come corti d’ appello per chi apparteneva al terzo stato. A partire dal ‘500 i giudici furono sempre più dei borghesi che avevano compiuto studi giuridici universitari. Da allora la componente borghese divenne dominante e si creò una sorta di casta da quando le cariche divennero dapprima acquistabili e poi anche ereditarie.
Un’ altra FUNZIONE dei parlamenti era DI ORDINE LEGISLATIVO. Non si pensi che emanassero leggi. No, i parlamenti avevano la funzione di esaminare, ratificare o respingere le leggi avanzate dal sovrano. Infatti, per avere validità nella regione di competenza di un dato parlamento, gli editti e le ordinanze reali dovevano essere approvati dal parlamento stesso, che li registrava su un registro ufficiale. Il parlamento poteva però avanzare obiezioni argomentate ( sulla base del diritto anteriore o dei privilegi e dei costumi regionali ) e rinviare la legge al re, annullandone la validità. Il sovrano poteva cedere oppure insistere. Per insistere ed imporsi doveva recarsi in parlamento, revocandogli per quella particolare questione la delega giuridica. Così la sua legge passava.
Il clero fu escluso dai parlamenti a partire dal 1319.
Il ruolo dei parlamenti fu ridotto via via che il potere reale aumentò: con Luigi XIII e soprattutto con Luigi XIV, che costrinse i parlamenti all’ obbligo di ratifica. Fece ciò vista l’ esperienza della Fronda (1648-53), dopo che il parlamento di Parigi, seguendo l’ esempio inglese, aveva reclamato a sé il diritto di controllare in ultima istanza le finanze del regno.
I parlamenti riprenderanno però vigore dopo la morte del Re Sole. Luigi XV cercherà di imporsi come il suo predecessore. Luigi XVI dovrà invece scendere sempre di più a patti con i parlamenti, che negli anni ottanta del ‘700 avranno un ruolo importante nell’ agitazione prerivoluzionaria. La Rivoluzione li sciolse (1790) nel quadro del riordino dei poteri statali.


GLI STATI GENERALI altro non erano che la riunione dei rappresentanti dei tre ceti ( l’ ecclesiastico, il nobiliare e il terzo stato ). I rappresentanti, rispettivamente 300 per ogni ceto, venivano eletti in assemblee regionali, che si tenevano distintamente per ceto. Una volta formate le tre delegazioni, queste si riunivano, di nuovo separatamente nell’ambito del consesso. Ogni delegazione cetuale esprimeva infine il proprio parere con un unico pronunciamento per ceto.
In che materia i ceti venivano consultati ? Sostanzialmente: *) per gravi questioni militari o di politica estera, **) in occasione di gravi crisi politiche interne (ad esempio durante le guerre di religione) e ***) in merito a questioni fiscali (nuove tasse da imporre alla nazione).
A convocarli era il re, sempre per una contingenza eccezionale, e sempre quando era in difficoltà particolari (la più frequente, quella di ‘batter cassa’) e abbisognava di un vasto consenso nel Paese. Era in quei momenti che si ricordava che la sua autorità si basava in definitiva su un accordo con il suo popolo. Dapprincipio si trattò di coinvolgere il ceto feudale. Poi, soprattutto nel ‘500, si accrebbe di molto il peso del terzo stato.
Vale la pena ricordare l’ occasione in cui vennero istituiti gli stati generali. Fu nel 1302, quando Filippo IV, il Bello, quello dello ‘schiaffo di Anagni’, convocò la nazione per farsi legittimare nel rifiuto della bolla papale Ausculta fili, emessa da Bonifacio VIII. Bolla con cui il Papa invitava Filippo a non impedire che una buona parte delle entrate fiscali del clero finisse a Roma e a non interferire più nell’ investitura dei vescovi. Bonifacio lo invitava inoltre a Roma per un sinodo di riconciliazione. Filippo ottenne il consenso degli Stati Generali nel respingere e bruciare la bolla.
I due periodi in cui gli Stati Generali vennero riuniti più di frequente furono la Guerra dei Cent’anni e le guerre di religione. Non furono invece più convocati dal 1614 al 1789, nella fase ‘eroica’ dell’ assolutismo in Francia.


Entrambe le istituzioni testimoniano che la Francia possedeva due organi deputati al consenso ben radicati nella tradizione politica e giuridica del regno, che in alcune fasi funsero da contrappeso al potere centrale. La loro stessa esistenza era la prova che la monarchia doveva essere qualcosa di diverso dalla tirannide. A questa tradizione di consenso e di controllo, elargito dall’ alto, ma nel contempo spettante di diritto all’ insieme del popolo francese, si rifecero spesso i nobili, i giuristi, le “bonnes villes“. Spesso i nobili pensavano soprattutto ai loro privilegi o volevano indebolire il potere regio. Questo non oscura però il fatto che poco alla volta il terzo stato prese coscienza dei suoi diritti e del suo ruolo. Non da ultimo si spiega come poté sorgere in Francia una forte borghesia nazionale e furono poste le premesse per la Rivoluzione del 1789.


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Le guerre d’ Italia, volute da Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I°, segnarono l’ avvio della politica di espansione e di potenza del regno di Francia. Nel corso di circa un cinquantennio, dalla fine del ‘400 alla metà del ‘500, infersero gravissimi danni al nostro Paese e dimostrarono che l’ Italia era un territorio in balia delle forze straniere. Non portarono però vantaggi alla Francia, a causa della potenza spagnola. Anzi, a ben guardare, furono un vero e proprio boomerang per i loro iniziatori. Costarono al regno enormi risorse ed un enorme indebitamento. A pagare il conto furono soprattutto le campagne ed il terzo stato cittadino. Ma anche i regnanti si troveranno indeboliti e dovranno sempre di più ricorrere al consenso della nobiltà feudale e alla forza economica del terzo stato.
Una conseguenza di prima grandezza fu questa: con l’ EDITTO DI MOULINS (del 1566) re Carlo IX (un figlio di Caterina de Medici) decise che d’ ora in poi le terre del demanio della corona sarebbero state date non più in appannaggio feudale, ma date in affido solo per denaro, al miglior offerente. Allo stesso modo, le cariche pubbliche (quelle dei funzionari regi deputati alla giustizia, al governo delle regioni, all’ amministrazione del regno, alle finanze, alle infrastrutture ecc.) sarebbero state date in appannaggio al miglior offerente. Era l’ inizio della pratica della venalità delle cariche. Da notare: queste cariche erano già da un secolo divenute vitalizie.
La venalità delle cariche pubbliche giovò molto alle casse statali, ma cambiò anche la natura della burocrazia francese. Ora era la borghesia cittadina a fornire gran parte dei quadri dell’ apparato statale, un apparato del resto in grande espansione, che verso il 1580 contava già 80.000 funzionari pubblici (officiers). Si trattava per lo più di figli di commercianti, di banchieri, di artigiani benestanti, che avevano frequentato l’ università. La cui facoltà regina, giurisprudenza, offriva la competenza necessaria per le posizioni più ambite.
La borghesia del sapere, spesso di prima generazione, ancora attaccata al cordone ombelicale della borghesia cittadina del denaro, ampliava dunque i suoi ranghi ed allargava allo stato la sua sfera di influenza.
Ma la cosa non finisce qui. Sotto il regno di Enrico III si compì un ulteriore passo. Gli uffici acquistati divennero ereditari o alienabili, ma ad una condizione: potevano esserlo purché il passaggio avvenisse almeno 40 giorni prima che il titolare morisse. Altrimenti ritornavano in possesso del re. Questa limitazione costituiva un grosso elemento di insicurezza. Da un lato rendeva più difficile la discrezionalità nel disporre del diritto che si era acquisito. Dall’ altro rendeva meno stabile, e dunque meno forte, il legame tra il titolare – e la sua famiglia – e lo stato.
A questo si ovviò nel 1604 – per iniziativa di Enrico IV – con l’ EDITTO DI PAULET, con il quale si decretava l’ ereditarietà illimitata delle cariche pubbliche. Ma questo privilegio non era gratis. Si istituiva una tassa annuale, detta paulette, da onorare all’ erario statale.
Si ponevano così le premesse affinché si costituisse una forte casta di funzionari, legati a doppio filo al regno, di origine borghese, ma sempre più vogliosi di essere equiparati alla nobiltà. La borghesia del sapere era sì la parte più compatta e consapevole del Terzo Stato, lo guidava, ma tendeva a staccarvisi il più possibile.
L’ assimilazione alla nobiltà era possibile per il fatto che, dopo tre generazioni, il re poteva rendere nobili le famiglie di questi funzionari regi. Nasceva così la noblesse de robe (nobiltà di toga) che andava ad affiancare la nobiltà di spada. Non solo. La nobiltà di toga si rivolgeva sempre più alla proprietà terriera. Si compì appunto, poco alla volta, “ il tradimento della borghesia”.
Va comunque detto che questo processo cambiò notevolmente la natura stessa della nobiltà, che perse nel suo insieme poco alla volta i connotati feudali. Risultò svuotata del suo ruolo originario che consisteva nell’ amministrare autonomamente la giustizia sul proprio territorio, di elevare dazi, pedaggi e tasse, e di garantire l’ ordine. Restavano alla nobiltà molti privilegi, ma quelle funzioni erano ormai gestite dall’ apparato statale.


Nel ‘500 emerse un altro grave problema per la monarchia e per lo stato: la RIFORMA PROTESTANTE. In Francia vi aderirono dapprima parecchi nobili del Sud della Francia, ma presto fu la borghesia delle città ( sia la borghesia del sapere che del denaro ) a dimostrarsi particolarmente sensibile al calvinismo. Le campagne e i non-borghesi del terzo stato ( cioè i lavoratori manuali ) rimasero fedeli al Cattolicesimo.
Dall’ inizio degli anni venti a metà degli anni cinquanta l’ espansione della nuova fede non fu contrastata. Le cose cambiarono però rapidamente. Le guerre di religione cominciarono a divampare con i tratti di ferocia ed efferatezza tipici delle guerre civili. Nel corso di un secolo ( fino alla metà del ‘600 ) se ne contarono ben otto. I Protestanti erano una ristretta minoranza della popolazione (circa il 5%), ma una parte ‘di peso’: più qualificata, più istruita, più attiva della media, per di più già ben inserita nell’ apparato statale. Il problema era dunque gravissimo, sia per l’ intera società che per lo stato.
Occupiamoci ora soprattutto di questo secondo aspetto. Non solo si andavano sviluppando dissidi insanabili nell’ apparato statale, ma veniva meno l’ ovvio ruolo della religione cattolica come legittimazione dello stato stesso, e parimenti il ruolo di fiancheggiamento svolto dal clero gallicano ( il grosso del clero cattolico francese ). Si apriva dunque una crisi fondamentale dello stato in quanto tale, visto cioè nell’ adempimento delle sue due massime funzioni: garantire la pace interna e la giustizia. Su ciò esisteva già dal Medioevo un consenso unanime.
Ora, data la pluralità delle fedi religiose, il ruolo dello stato, affinché questo potesse continuare a svolgere i suoi compiti base, andava ridefinito … e rinegoziato. Ben presto si capì che lo stato doveva slegare le sue sorti sempre di più da quelle delle confessioni. Sarebbe sopravvissuto solo diventando neutrale, accentuando la sua terzietà. Da qui poi anche un grande impulso alla secolarizzazione della società e della cultura. Il processo fu lungo e contorto, con forti battute d’ arresto – basti pensare alla ri-cattolicizzazione forzata, promossa dal Luigi XIV e all’ abrogazione dell’ Editto di Nantes, statuita nel 1695 – ma si dimostrò irreversibile. E proprio la borghesia, quale testa del Terzo Stato si identificò sempre più nel processo di secolarizzazione.
Ovviamente fu nella teoria politica e giuridica che il nuovo fu compreso per primo. La teoria si libra infatti in una sfera che la affranca dai ceppi della realtà contingente e può compiere importanti anticipazioni. In Francia l’ opera più nota e più influente fu quella di Jean Bodin, che in Les six livres de la République (usciti nel 1576, quattro anni dopo il massacro della notte di san Bartolomeo) elaborò la teoria della monarchia assoluta, secondo la quale il re non è sottoposto a nessun’ altra istanza, è cioè l’ unico detentore della sovranità. Il re rappresenta lo stato nella sua interezza e deve mantenersi neutrale rispetto alle classi e alle parti politiche o religiose. Per rafforzare il potere regio Bodin era fautore della monarchia ereditaria.

Non possiamo però ridurre tutto a Bodin. Il dibattito fu ben più variegato ed acceso. Per ragioni di praticità possiamo raggruppare le principali varianti delle teorie e dei programmi politici in queste quattro posizioni:

I ) Il sovrano deve sottomettersi al consenso degli stati generali o dei parlamenti. La sovranità è condizionata e limitata. I parlamenti devono avere l’ ultima parola. [ Teoria caldeggiata soprattutto dai protestanti, dai cosiddetti mécontants, ma, regnante Enrico IV, tatticamente anche da cattolici estremisti e da grandi famiglie feudali ].

II ) Il sovrano è il detentore di un potere illimitato e arbitrario ( rex e legibus solutus ). Può quindi anche essere un tiranno. Questa più che una teoria sostenuta esplicitamente era l’ obiettivo polemico degli antimachiavellici. [Teoria rinfacciata dai mécontents ai sovrani della casa dei Valois, ai cattolici più radicali e a Caterina de Medici].

III ) Il sovrano è fornito da Dio della funzione di un potere assoluto, quindi non può essere vincolato dagli Stati Generali o dai parlamenti. È però soggetto alle leggi divine e al diritto di natura. [ Teoria della Lega Cattolica e dei gesuiti ].

IV ) Il sovrano, investito da Dio della funzione di comando, non detiene però un potere arbitrario e illimitato. È infatti :
a ) soggetto alle leggi divine, al diritto di natura e alle leggi fondamentali del regno [ legge salica e inalienabilità del demanio della corona ] ma anche:
b ) limitato nel suo potere dal necessario consenso popolare. Il re è la massima e unica istanza a cui il popolo si affida e deve perciò rispettare i costumi fondamentali dei franchi, ma quel che gli viene delegato è niente meno che la sovranità assoluta. Le leggi del sovrano dovevano dunque essere ratificate dai parlamenti o dagli Stati generali secondo una procedura che però lasciava al sovrano l’ ultima parola. [ Posizione di Jean Bodin, Pasquier ecc. I giuristi di questa corrente di pensiero sottolineavano che la loro posizione conciliava in modo ottimale il diritto franco e quello romano e garantiva la neutralità confessionale dello stato ].


Non si può affatto dire che tutti i re seguissero un’ unica linea. Si mossero per lo più tra la terza e la quarta posizione, condizionati dagli eventi. Ad esempio Carlo IX (regnante: 1560–74) si fece influenzare dal partito cattolico-estremista e dalla madre Caterina de Medici e lasciò che si usasse la mano forte. Nella notte tra il 23 e 24 agosto 1572, a Parigi, i cattolici intransigenti massacrarono migliaia di calvinisti.
Il fratello e successore di Carlo, Enrico III (regnante: 1574–89) , temendo che la Lega cattolica, guidata da Enrico di Guisa, prendesse definitivamente il sopravvento e non volendo che la monarchia, facendosi partigiana, rinunciasse al consenso dell’ intero Paese, fece assassinare il Guisa nel dicembre del 1588. Questa decisione, pochi mesi dopo, gli costò la vita.
Con la sua morte, la dinastia dei Valois si esaurì e si aprì una grave crisi. Il legittimo successore avrebbe dovuto essere – secondo la legge salica (una delle leggi fondamentali del regno) – Enrico di Navarra. Ma questi era calvinista. La Francia e la sua classe dirigente si trovarono di fronte un dilemma: seguire il vincolo della religione di stato (cattolica) e far salire al trono un cattolico non imparentato con la dinastia dei Valois o seguire la legge salica, accettando Enrico di Navarra ? Optando per il primo corno del dilemma si sarebbe lesa la tradizionale legittimazione religiosa del regno, optando invece per il secondo si sarebbe data legittimità al calvinismo e lo stato avrebbe dovuto allentare i legami confessionali, avviarsi verso la secolarizzazione. I più erano per rispettare la legge salica. Enrico era di fatto re di Francia, ma non poteva fregiarsi che del titolo di Enrico III di Navarra. In questa fase si rafforzò di molto la posizione IV (quella dei politiques e degli zélateurs), ma i conflitti rimanevano profondi.
Enrico era certo che il paese non si sarebbe pacificato. Nel 1594 si convertì al cattolicesimo. E poté salire al trono come Enrico IV di Francia. La conversione fu guardata con sospetto dai cattolici estremisti, così come la sua politica di pacificazione. Un momento memorabile nella storia francese fu l’ emanazione dell’ editto di Nantes ( 1598 ) con cui si garantiva la libertà di religione. I cattolici intransigenti non digerirono la cosa. Nel 1610 Enrico IV fu assassinato da un fanatico cattolico.
I suoi successori, Luigi XIII (1610–1643) e Luigi XIV (1643–1715) perseguirono una politica radicalmente antiprotestante, togliendo ai calvinisti le zone franche in cui potevano autogovernarsi. Si ebbero numerose rivolte e assedi di città, il più noto a La Rochelle. I calvinisti dovettero in gran parte abbandonare il paese, fuggendo per lo più in Olanda, in Inghilterra e in Germania. Nel 1695 fu revocato l’ Editto di Nantes. Luigi XIV perseguì anche una radicale politica di normalizzazione anche nelle file cattoliche, appoggiandosi sui gesuiti. Si pose l’ obiettivo di sradicare il giansenismo. Nel 1709 fece evacuare il convento di Port Royal, il centro del giansenismo. L’ anno successivo Port Royal fu raso al suolo. Nel 1713 fece applicare in tutto il regno la bolla papale Unigenitus Dei Filius (condanna del giansenismo quale dottrina eretica). I due Luigi che dominarono la Francia per più di un secolo seguivano la posizione III del nostro schema. Non si deve però credere che avessero estirpato ogni forma di opposizione. Tra gli intellettuali e nelle file della borghesia del sapere il ricordo della repressione antiprotestante e antigiansenista non si spense e, sotto la cenere, covò il bisogno di uno stato laico, neutrale e secolarizzato. Le repressioni e l’ intolleranza furono l’ humus della tolleranza e spiegano anche la radicalità, e pure la particola carica antireligiosa, teista e atea, di gran parte dell’ illuminismo settecentesco in Francia.



Un ultimo aspetto della storia francese mi pare infine degno di nota: i momenti di rivolta prettamente politica contro il monarca che si susseguirono in fasi in cui quando questi imponeva la sola potenza dell’ assolutismo regio. I tre più rimarchevoli furono:

a ) La Guerra del Bene Pubblico (1465 ): rivolta vittoriosa dei parlamenti e dei ceti contro Luigi XI. Il re si comportava in un modo ritenuto sempre più tirannico. Sciolse la più alta corte di giustizia. Impose forti tasse senza il consenso dei Parlamenti o degli Stati Generali. Abolì numerosi appannaggi. I grandi feudatari si ribellarono alleandosi al terzo stato, particolarmente oberato dalla tassazione. Il re dovette recedere.

b ) La Fronda parlamentare e nobiliare ( 1648 – 1653 ). Il Parlamento di Parigi si ribellò al cardinale Mazzarino, primo ministro della reggente di Luigi XIV. Dapprima la ribellione fu di natura fiscale: l’ opposizione a forti tasse non sottoposte al consenso degli Stati Generali né del Parlamento. L’ obiettivo dei frondisti divenne però presto un altro: la rinegoziazione dei poteri dello stato. Il potere regale andava limitato. La monarchia avrebbe dovuto avviarsi a diventare di tipo parlamentare. Scoppiò un conflitto militare. Lo scontro si intrecciò a questioni di politica estera. Mazzarino, dopo una serie di sconfitte, ebbe però la meglio.

c ) Attorno al 1720: Reazione parlamentare. Il Parlamento di Parigi si attribuisce il ruolo di mediazione tra il re e la nazione (sua doppia responsabilità ). Non essendo più stati convocati gli stati generali, il Parlamento di Parigi si considerava la “voce del popolo“. Rivendicava il ruolo di libera consulenza, così come il diritto di registrazione ovvero di rifiuto delle leggi proposte dal re. Le leggi forzatamente registrate non sarebbero state più valide. Si voleva mantenere un riconoscimento formale del monopolio legislativo del re, ma crebbe il bisogno, l’ esigenza di una monarchia controllata e limitata nelle sue competenze. Re Luigi XV riuscì però a imporsi.


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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

Histoire de la bourgeosie en France des origines aux temps modernes, di Régine PERNOUD, Parigi 1960

Venalità e machiavellismo in Francia ( 1572 – 1610 ), all’ origine della mentalità politica borghese, di Salvo MASTELLONE, Firenze 1972

Politica, governo e istituzioni nell’ Europa moderna, di Angela DE BENEDICTIS,
Bologna 2001

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Heidelberg, 21 / 04 / 2013
Beppe Vandai

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