( Scheda elaborata da Beppe Vandai per
VOLTA LA CARTA!! e. V. –
Heidelberg )
( I )
Nell’
aprile di quest’ anno è uscito presso l’ editore Rizzoli il libro di Luigi
Zingales “Europa o no”: un saggio ad alto tasso di informazione e di
intelligenza. L’ autore è un brillante economista che insegna scienza della
finanza presso la Booth School of
Business della Università di Chicago. Attualmente è anche il presidente
della prestigiosissima American Finance
Association.
Chicago: la
mecca dei liberisti e dei monetaristi. Anche Zingales è un liberista. E anche a
lui stanno molto a cuore il controllo della massa monetaria e la lotta all’
inflazione, che, non appena raggiunta una certa soglia, altro non è che un
esproprio strisciante dei risparmiatori e di chi ha un reddito fisso, oltre che
un modo subdolo per uno stato di non onorare i suoi impegni o di fare un default
latente e a tappe. Ma Zingales non fa dell’ ideologia, né è alla ricerca di
conferme per principi di alcun tipo. Ad ogni passaggio del libro dimostra di
considerare l’economia come una scienza empiristica, che poco alla volta usa e fa
tesoro del procedimento di prova ed errore. Qui è là traspare, non celata, una
notevole allergia per gli schemi deduttivi, il centralismo e le politiche
economiche concepite come applicazioni di tali schemi.
Zingales si
cimenta con la crisi dell’ euro, cerca di spiegarla e di commisurarla agli
obiettivi e alla realtà dell’ integrazione europea, avanza infine proposte
realistiche per superarla. Ha però costantemente di mira il rapporto dell’
Italia con l’ euro, le ragioni che consigliarono l’ adesione alla moneta unica,
i problemi che il Paese si trascinava e si trascina dietro. Traspare così il
suo impegno civile, un impegno che lo portò, nell’ estate del 2012, ad essere
uno dei promotori di Fare per fermare il
declino, formazione politica che si presentò alle ultime elezioni politiche,
ma da cui presto si distanziò per l’ affare Giannino.
Due sono le
bussole con cui si orienta: a ) quel sapere economico accumulato che ha dato
buone prove di sé e b ) il successo dell’ integrazione europea. Ecco perché il titolo suona “Europa
o no” e non “Euro o no”. La partita che abbiamo sotto gli occhi viene giocata
soprattutto sul terreno economico, ma le strategie di gioco non sono meramente
economiche e pure la posta in gioco è molto più alta.
( II )
LE RAGIONI E LA REALTÀ DELL’
EURO.
Le sue malattie congenite. Le
distorsioni prodotte.
Zingales chiarisce
innanzitutto quali sono i vantaggi cha hanno nazioni di grandi dimensioni
demografiche e/o territoriali. Possono certamente usufruire degli effetti
positivi dell’ economia di scala e di un’ incidenza minore delle spese per la
difesa (esercito e armamenti). A questo si aggiunge il fatto di poter far
meglio fronte a calamità naturali. Questo vale, in fondo, anche per una grossa
zona economico-politica sufficientemente integrata.
Evidentemente questi
benefici valgono o varrebbero anche per la zona-euro. Lo stesso dicasi per
quello che fu il Mercato Comune Europeo e a maggior ragione per l’ Unione
Europea. Anche al di là dei motivi storico-politici e ideali che portarono al
processo di integrazione europeo, dal punto di vista strettamente economico e sociale
l’ idea fu ottima e portò benessere al continente. Ma con l’ approfondimento
dell’ integrazione di una zona disomogenea a livello linguistico, culturale,
dei costumi e delle strutture economiche e sociali, prima o poi ci si scontra con
queste disomogeneità.
Zingales si pone
poi la domanda se sia stato giusto e razionale fare il salto di qualità che
portò alla moneta unica. La risposta è che si trattò quanto meno di un grosso
azzardo dal punto di vista economico e sociale. E non fu un caso che molti
economisti americani delle più disparate tendenze giudicassero la zona-euro
inadatta, perché troppo disomogenea. Per loro l’ UE non possedeva i requisiti
per essere un´area valutaria ottimale.
Ma che cosa è per
gli economisti un’ area valutaria ottimale? È “(…) l’ area più ampia possibile
all’ interno della quale i lavoratori si spostano facilmente“ – ci spiega
Zingales a pag. 59. L’ avere un’ unica moneta mette a nudo gli squilibri strutturali,
settoriali, di produttività tra le differenti regioni. Mancando le fluttuazioni
tra le monete nazionali, singole regioni e singoli settori entrano in crisi,
altri si avvantaggiano. E se non si ha una sufficiente mobilità si innescano
gravi crisi economiche e sociali nelle regioni penalizzate. Se non si prendono
misure per ammortizzare le crisi e favorire la mobilità del lavoro, sorgono infatti
grossi guai a livello di reddito, occupazionale, creditizio, di patrimonio
produttivo.
Tra l’ altro
anche il concetto di area valutaria ottimale va relativizzato. Tra zone
fortemente disomogenee anche in termini nazionali non è nemmeno giusto
considerare la mobilità come una panacea, poiché vanno salvaguardate le diverse
specificità sociali e culturali. Sono quindi necessari anche ammortizzatori
sociali comuni di tipo automatico, se non si vuole che esplodano forti
conflitti e alcune zone si impoveriscano. A maggior ragione, lo spopolamento di
intere zone non può essere un’ opzione accettabile.
L’autore fa
capire che il progetto dell’ euro fu prematuro e viziato da malattie congenite.
Ma perché allora si fece un passo così rischioso? Zingales trova la risposta
nella politica. A suo parere, l’ intero processo di integrazione europea, dalla
costituzione della Comunità europea del carbone e dell’ acciaio, alla creazione
del Mercato comune europeo, fino alla nascita dell’ Unione europea, fu guidato
dalla volontà della Francia – invasa e devastata per ben tre volte nell’ arco
di tempo di soli 75 anni – di impedire che la Germania imboccasse un nuovo Sonderweg, che si avviasse ad un nuovo
progetto egemonico. La Germania stessa assecondò di buon grado questa strategia
francese per riacquistare la cittadinanza nel consesso dei popoli europei e
civili.
Lo scenario ebbe
però un brusco e forte sommovimento con il 1989. La prospettiva della
riunificazione tedesca ed il fatto che Kohl (anche per comprensibili motivi
tattici) non avesse coinvolto abbastanza il partner d’ Oltre Reno, inquietarono
molto i francesi. La nuova Germania avrebbe avuto più di 80 milioni di
abitanti, avrebbe certamente aumentato ulteriormente il suo vantaggio
economico, avrebbe avuto un naturale ed enorme influsso ad Est in termini
politici ed economici. Non potendo né rallentare né impedire la riunificazione,
Mitterand giocò la carta di accelerare i piani, che già c’ erano, per arrivare
ad una moneta unica. La Francia avrebbe accettato di buon grado l’ unificazione
tedesca, ma la Germania avrebbe dovuto assecondare un salto di qualità nell’
integrazione europea. Helmut Kohl accettò questo deal, ma impose le sue condizioni: un corsetto di regole economiche
che fossero la fotocopia delle regole economiche tedesche ed una banca centrale
europea a immagine e somiglianza della Bundesbank. Ecco dunque spiegata in
breve la gestazione, razionale, di un costrutto congegnato in modo non proprio
razionale.
Dopo questi
importanti rilievi, in buona parte ben noti, ma che messi in breve sequenza
acquistano pregnanza, ecco altre importanti sottolineature che Zingales fa nel
suo libro.
L’autore affronta
la questione dell’ euro sobriamente, dal punto di vista dei costi e dei ricavi impliciti
ed espliciti dell’ intera operazione. E lo fa soprattutto dal punto di vista dei
paesi più in difficoltà, l’anello debole della zona-euro.
L’ introduzione
dell’ euro ha significato per tutti la perdita della sovranità monetaria
nazionale. Ma, per alcuni di più, per altri di meno. In fondo solo la
Germania ed i paesi ad essa più omogenei (Olanda, Austria e Finlandia) hanno
perso poco della loro sovranità, giacché l’ intera costruzione corrisponde perfettamente
ai criteri guida che avevano da decenni. Si è invece visto che cosa significhi la
perdita della propria sovranità monetaria per i Paesi della cosiddetta
periferia, ma anche per la stessa Francia,: nessuna libertà di manovra sul lato
del cambio e una grande limitazione dello spazio di manovra congiunturale.
Di contro, però questi
paesi hanno avuto due grandi vantaggi: un deciso calo dell’ inflazione
e, per parecchi anni, un altrettanto deciso alleggerimento dei costi del
debito pubblico. Che poi alcuni di essi, in primo luogo l’ Italia, non
abbiano saputo sfruttare il secondo vantaggio, non può essere certo addebitato
all’ euro, ma all’ incapacità di questi Paesi di fare una saggia politica di
risanamento. A questo proposito, Zingales calcola ( vedi pag. 81- 82 ) che se
si fossero utilizzati i risparmi sugli interessi interamente per ripagare il
debito, non lasciando che la spesa pubblica debordasse, il rapporto debito/PIL
sarebbe stato nel 2007 del 67%. Invece, a quella data, quel rapporto fu del
103,3%. Minore del 114% del 1998 (alla vigilia dell’ entrata in vigore dell’
euro) ma pur sempre assai peggiore di quell’ ipotetico e possibile 67%. “L’
Italia non ha sprecato del tutto il regalo dell’ euro (…) ma ne ha sicuramente
sprecato la maggior parte”.
Ora passiamo al
rovescio della medaglia, ai rischi e agli svantaggi che Zingales spiega
esaurientemente nel libro. Il primo pericolo-svantaggio è che, non avendo più
la leva dell’ inflazione e della sovranità monetaria, per i paesi più
fortemente indebitati aumentava il rischio di fare default. E visto che
nei trattati di Maastricht, per iniziativa tedesca, fu inserito il divieto per
la BCE e la zona-euro di compiere salvataggi di debiti sovrani dei singoli stati,
ben si capisce come quel rischio diventò molto concreto. All’inizio non lo si
percepì, ma dal 2008 è diventato a tutti evidente.
L’ altro
rischio, spesso sottovalutato, è che la costruzione dell’ euro porta con sé una
tendenza strutturale alla deflazione. Il mandato della BCE è solo di
combattere l’ inflazione. I tedeschi si opposero e si oppongono a spada tratta
a che si badi anche all’andamento dell’ occupazione e che ci si preoccupi della
deflazione. Lo si è visto, a più riprese, nel corso della crisi dell’ euro. Di
fronte ad una tendenza chiarissima alla depressione economica per vaste zone
dell’ area dell’ euro, il governo tedesco imponeva il fiscal compact e si
poneva ambiziosi obiettivi di riduzione del debito pubblico, ovvero degli
investimenti pubblici.
Il quadro non è
però completo. Zingales fa una sua sottolineatura, tutt’altro che ovvia. Secondo
lui l’ euro ha in sé soprattutto questa colpa: ha tolto ai paesi che hanno
aderito all’ unità valutaria la principale forma di pressione e di incentivo a
riformarsi, ad adeguarsi ai mutamenti economici e sociali in atto nel mondo, che
oggi sia rimasta in Europa: una moneta propria.
L’ autore
ricorda come nel passato, remoto e vicino, lo stimolo maggiore fosse la
competizione militare. Fortunatamente è venuta meno e viviamo in un’ Europa
Occidentale pacificata. Anche l’altra spinta alla competizione e a non
soccombere ai più forti, la mobilità del lavoro, in Europa (per ragioni ovvie,
di lingua, cultura, costumi) non può che essere limitata. Scrive Zingales (pag.
136): “L’unica pressione che rimaneva verso una qualche forma di efficienza era
il tasso di cambio e il tasso a cui queste istituzioni nazionali prendevano a
prestito”. Ancora Zingales, a pag. 137 : “Con il cambio fisso e l’ indicatore
del rischio di default ‘drogato’ dalle regole europee e dalle dichiarazioni dei
leader europei, il governo italiano non ha avuto nessuna forma di pressione
esterna verso l’ efficienza”.
In
altre nazioni le cose sono andate anche peggio. A parte il caso greco, che ha
qualcosa di patologico, in Spagna, Portogallo e Irlanda l’ euro è servito da
veicolo affinché ingenti flussi finanziari, soprattutto da Germania, Francia e
Olanda, andassero a finanziare bolle immobiliari e di consumi. Zingales non
‘criminalizza’ né i creditori né i debitori. I toni morali sarebbero veramente
fuori luogo. Piuttosto chiarisce che le distorsioni sono opera della moneta
unica, così come fu concepita. Allo stesso modo, il contraccolpo finanziario e
la profonda crisi del credito, con tutte le conseguenze sociali e produttive,
sono da addebitare a quel “neonato prematuro e malaticcio” che finora l’ euro è
stato.
Da
tutto ciò Zingales non trae però la conclusione che vada messa la parola fine
all’ esperienza dell’ euro. Piuttosto cerca di capire e farci capire quali spinte
e quali motivi si contrappongono e tendono al dissolvimento o alla
continuazione dell’ euro. Nel capitolo “A
mali estremi…” espone le ragioni sia di tipo economico che di tipo
politico-strategico che a suo parere rendono plausibile la prosecuzione del
viaggio monetario comune, di cui però non riferisco. Il libro non può essere
surrogato da questa scheda.
Per Zingales, al
momento, i benefici prevalgono ancora sui costi, ma la situazione è fluida. E
alla fine della ricognizione (nel capitolo “Una
visione alternativa d’Europa”) a pag. 174 scrive, riflettendo sull’ Italia:
“Nella mia opinione i costi per uscire dall’ euro oggi eccedono i benefici.
Vale la pena di provare ancora a riformare l’Unione per rendere l’ euro
sostenibile. Ma il tempo stringe. O queste riforme sono fatte nei prossimi
18-24 mesi oppure i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l’
uscita diventerà il male minore”.
( III )
LA GESTIONE TEDESCA
La Germania ha
indubbiamente impresso il suo marchio alla costruzione dell’ euro e dell’
eurozona. Ha proposto ai partner, come unico modello accettabile, il modello ed
i principi del proprio sviluppo economico. Prendere o lasciare. Gli altri hanno
preso, per motivi pur differenti. Va naturalmente detto che si tratta di un
modello e di principi di grande successo.
Si può mettere
in dubbio che sia stato giusto o razionale trasferirlo così, pari pari, in un
rapporto 1 a 1. Si può speculare se la sua attuazione fosse pensata dalla
Germania per imporre la sua egemonia economica o se piuttosto come la tutela necessaria
nei confronti di stati più indisciplinati. A questi pensieri si è indotti qui e
là leggendo il libro di Zingales. Va però detto che non è questo l’ oggetto della
sua riflessione.
Da
buon pragmatico, l´autore guarda piuttosto ai fatti e questi gli dicono e ci dicono due cose: a ) La Germania è de facto egemone nella zona euro ed usa
rigidamente il pacchetto di regole e le istituzioni dell’ eurozona in un gioco
competitivo ai danni dei suoi partner; b ) la leva per condurre questo gioco ha
un nome preciso: si chiama deflazione.
Nel
secondo capitolo del libro – intitolato “A
cosa serve una moneta unica” – dopo aver analizzato i danni che l’
inflazione, oltre una certa soglia, provoca sull’ intera economia; dopo aver
spiegato chi è avvantaggiato e chi svantaggiato dall’ inflazione, sul breve e
sul lungo periodo; dopo aver sottolineato con vigore il danno quasi indelebile
che questo dolce veleno arreca alla reputazione di uno stato, passa ad analizzare
il fenomeno opposto: la deflazione.
Da
pag. 49 a 53 leggiamo: “La deflazione è
un saldo continuo. Perché non dovrebbe essere un fatto positivo? Invece (…) se
perfettamente anticipata, la deflazione può portare a una forte diminuzione
della domanda. (…) i consumatori tenderanno a posticipare il consumo il più a lungo possibile. Più lo
posticipano, più merce possono comprare per una data quantità di denaro. Ma più
i consumatori posticipano l’ acquisto, più i produttori, preoccupati di non
vendere, abbassano i prezzi. Quando comincia, la spirale deflazionistica è
difficile da fermare.”
“La
deflazione crea anche problemi con il debito. (…) Se salari, prezzi e profitti
si riducono del 50% ma il debito no, il peso reale del debito raddoppia. Non si
tratta solo di un trasferimento di valore da debitore a creditore, ma anche di
una potenziale riduzione di valore”. (…)
la deflazione può creare un eccesso di debito (…) aumentando i fallimenti. I
fallimenti, a loro volta, forzano le imprese a liquidare i propri beni a saldo,
creando ulteriore pressione deflattiva sui prezzi. (…) Rinunciare alla
sovranità monetaria non significa necessariamente accettare la deflazione. Ma
senza detenere il controllo della propria moneta, un Paese è più a rischio,
soprattutto se la moneta comune è pesantemente influenzata da chi ha tutto da
guadagnare da una deflazione”. Il nome non viene ancora fatto, ma Zingales
intende proprio la Germania.
Nel
paragrafo intitolato “Una moneta tedesca”
( che fa parte del capitolo “A mali
estremi…”) – a pag. 131 – Zingales spiega che il mandato scritto della BCE
è di contenere l’ inflazione al di sotto del 2% annuo. Aggiunge, a pag.
132: “Secondo questa definizione, una deflazione del 10% l’ anno non è contraria
al mandato della Bce, mentre un’ inflazione del 2,1% lo è. Siccome i banchieri
centrali non sono in grado di controllare l’ inflazione in modo esatto, avendo
parametri così asimmetrici la BCE tenderà a sbagliare sempre e solo in una
direzione: la deflazione”.
Ma
perché la Germania preferisce in modo tanto deciso la deflazione all’
inflazione? Ci sono per Zingales due ordini di motivi. Uno è interno alla
Germania stessa, l’ altro va visto in relazione agli altri. Dò ancora una volta
la parola all’ autore.
I
) “Ma non è solo l’ esperienza storica a rendere i tedeschi antinflazione: è
anche il loro interesse economico. La Germania, come l’ Italia, sta
invecchiando. Ma a differenza dell’ Italia, dove l’ investimento degli anziani
è principalmente in abitazioni (quindi in beni reali protetti dall’
inflazione), in Germania sta invece nelle attività finanziarie. Di conseguenza
la maggioranza dei tedeschi (come la maggioranza dei giapponesi) preferisce la
deflazione “. (pag. 132).
II
) “La teoria economica ci insegna che il modo migliore per creare un vantaggio
competitivo è quello di scegliere una strategia che i nostri rivali non possono
replicare. Per questo le imprese leader aumentano gli investimenti per
spiazzare i concorrenti che non hanno risorse finanziarie per realizzarli” (ibidem). “ (…) Dopo essere stati forzati
a una moneta comune, i tedeschi hanno deciso di adottare la strategia in cui
loro hanno un vantaggio comparato: quella della deflazione. Nessun altro Paese
(tranne l’ Austria) è riuscito a contenere la crescita dei salari come hanno
fatto loro. Se i salari crescono meno della produttività, la pressione
deflattiva è assicurata. La Germania è molto vicina a questo risultato” (pag.
133).
“ (…) il
Bundestag ha approvato una serie di misure per ridurre il deficit di bilancio,
ma anche per aumentare gli investimenti in educazione e ricerca tecnologica. Di
fronte al Sud Europa che arranca per tenere il passo, la Merkel accelera. (…) È
una manovra brillante per trasformare il vantaggio competitivo di cui gode oggi
la Germania, in termini di costo del lavoro e di solidità fiscale, in un
vantaggio di lungo periodo. Una manovra brillante, ma fortemente
antieuropeista” (ibidem).
“ Nel
2009, di fronte allo stupore del mondo, i tedeschi in piena recessione
approvano una norma costituzionale che avrebbe limitato i deficit di bilancio
dal 2016 in poi al di sotto dello 0,35% del PIL. (…) A parità di comportamento
del settore privato, una riduzione del deficit pubblico si traduce in un
aumento del surplus della bilancia commerciale”.
“Esportando
più di quello che importa, la Germania tende a ridurre la domanda aggregata
negli altri Paesi, favorendo una riduzione dei prezzi e quindi una deflazione. In
altre parole, i tedeschi hanno deciso unilateralmente di esportare deflazione
in tutti i rimanenti Paesi dell´area euro” (pag. 134).
“Lavata
con il tempo la colpa nazista, incassata e digerita la riunificazione, la
Germania non ha alcun motivo per limitare la propria influenza, un’ influenza
amplificata dall’ impasse nei processi decisionali dell’ Unione, bloccati dal
diritto di veto di ciascun membro” (pag. 135).
Non
ho voluto intromettermi, sarei stato meno preciso di Zingales. Il collage, credo
onesto, di passaggi del suo libro offre materia per riflettere sulla Germania.
Da anni si ha l´impressione che questo Paese abbia utilizzato la grande fase
europeista per rifarsi la reputazione e potersi rigenerare, ma che i suoi
obiettivi di fondo siano tutt’ altro che europeisti. Sinceri europeisti
tedeschi come Joschka Fischer, Helmut Schmidt o Ulrich Beck già avevano espresso timori simili.
( IV )
I PROBLEMI E GLI INTERESSI
ITALIANI
Avevo anticipato
più sopra la prognosi a cui giunge Zingales circa la possibile permanenza dell’
Italia nell’ euro. O nell’ eurozona si cambia registro su alcuni tratti
fondamentali nell’ arco dei prossimi due anni, o l’ Italia sarà costretta ad
uscire dall’ unione monetaria. Il che significherà automaticamente la fine
dell’ euro, così come lo conosciamo. Anche su possibili scenari Zingales dimostra
perspicacia, ma su ciò non mi soffermo. A interessarmi di più in questa sede sono
invece le stazioni della marcia di avvicinamento del nostro Paese all’ entrata
nell’ eurozona.
Il
punto di partenza è la forte inflazione degli anni settanta del secolo scorso. A
partire dal 1971 le monete non furono più legate all’oro, direttamente o
indirettamente, con un rapporto fisso.
Così incominciarono a fluttuare
liberamente e si ebbero rapidamente forti differenziali del tasso di
inflazione. Se negli USA, negli anni sessanta, l’inflazione su base annua era mediamente
del 2%, negli anni settanta passò ad una media del 7%. In Germania salì dal
2,5% al 4,8%. In Italia schizzò dal 3% al 12%, con il picco più alto addirittura
del 22%. Zingales decide di non addentrarsi sulle ragioni. Si limita a
constatare l’ effetto catastrofico che quella fase inflazionistica ebbe sulla
reputazione del Paese tra i suoi cittadini e agli occhi degli altri Paesi e dei
mercati finanziari internazionali.
I
dati parlano da sé. Se – dal 1971 al 1998 – il valore reale (potere d’
acquisto) di mille dollari negli USA scese a 250 dollari, se in Germania il
valore reale di mille marchi calò a 380 marchi, in Italia il valore reale di
mille lire passò a 80 lire.
Con
un simile galoppo dell’ inflazione in Italia, lo spread tra il tasso d’
interesse di titoli italiani ed i corrispettivi titoli tedeschi si allargò
fortemente. Ad ammortizzare il salasso di valore ci pensava l’inflazione stessa,
che conduceva a continue svalutazioni. Poi, a rendere il debito pubblico in
qualche modo sostenibile ci pensava la Banca d’Italia, che acquistava di
continuo i nostri titoli per tenerne relativamente bassi i tassi d’interesse. Ma
gli effetti perversi sul sistema produttivo non tardarono a farsi sentire.
Consci
di questo, e per restare in qualche modo ancorati alle economie del resto d’
Europa, nel 1981 venne sancito il ‘divorzio’ tra Banca d’Italia e Ministero del
Tesoro. La nostra banca centrale non era più costretta a immettere moneta nel
sistema e riacquistava il controllo della politica monetaria. Si riavvicinava
così alla realtà del resto dei Paesi della CEE, dove il principio dell’
indipendenza delle banche centrali dal governo era uno dei pilastri della
politica monetaria ed economica. Gli effetti si videro presto. Dal 1981 al 1984
l’ inflazione scese dal 20% al 6%. Alla vigilia dell’ entrata nell’ euro era un
poco superiore al 2%.
Il rapido
successo non impedì che lo spread del tasso d’ interesse dei nostri titoli
rispetto a quelli tedeschi fosse ancora nel 1992 di 600 punti, ovvero del 6%. Zingales
fa notare che i mercati hanno la memoria lunga. Evidentemente diffidavano
ancora del nostro sistema Paese. Da qui il desiderio della parte più avveduta e
responsabile della classe dirigente italiana di costringere il Paese ad un
esercizio di disciplina ancora più severo.
L’ autore usa
più volte nel libro una metafora assai efficace. L’ Italia si comportò come
Ulisse al passaggio davanti all’ isola delle Sirene. Per sentire il loro bellissimo
canto, ma non subire il destino rovinoso di chi le ascoltava, l’ acheo si fece
legare dai compagni all’ albero maestro. Nel nostro caso, l’ Italia si legò
all’albero maestro tedesco per non soggiacere più alle proprie tentazioni.
Solo una
disciplina venuta dall’ esterno avrebbe costretto il Paese a cambiare. Così
pensavano le élites culturali e politiche. E perciò avviarono il Paese all’
adesione all’ euro, da considerarsi giustamente salvifica. Su questo aspetto
Zingales non lascia dubbi di sorta. Pur non amando la retorica europeista che
si fece né il ruolo dirigista di élites che si arrogano il diritto di mettere
sotto tutela il proprio popolo, il nostro autore non ha dubbi: l’ Italia non
aveva altra scelta. Ancora a metà degli anni novanta il rapporto debito/Pil
aveva raggiunto il 120%. Il costo annuale degli interessi del debito era almeno
del 7% del Pil stesso, più o meno la metà del gettito annuale dell’Irpef.
Del resto, dalla
fine degli anni settanta, già l’Italia era entrata nel cosiddetto serpente
monetario, una banda più o meno larga di fluttuazione delle valute dei Paesi
leader della CEE. Per poterci stare, la Banca d’Italia doveva sempre orientarsi
in base alle decisioni della Bundesbank. Se questa alzava i tassi d’interesse,
la nostra banca centrale era costretta a fare lo stesso. Zingales giunge ad una
conclusione al vetriolo: “Aderendo alla moneta comune, quindi l’ Italia non
avrebbe rinunciato alla sovranità monetaria: l’ aveva già perduta” (pag. 67). L’
adesione era una scelta obbligata.
Zingales sostiene
che però due errori vennero fatti da Prodi. “Il grosso errore di Prodi non fu
quello di entrare nell’ euro, ma di entrarci senza una forma di rinegoziazione
del debito pubblico e pensionistico” (pag. 73). Se ben capisco, Prodi avrebbe
dovuto convincere i risparmiatori a una ristrutturazione del debito e i
pensionati e i lavoratori ad accettare una efficace riduzione della spesa
pensionistica. Avrebbe dovuto parlare in modo aperto al Paese per convincerlo
della bontà di questi sacrifici. Qui mi permetto l’unica chiosa nel corso della
mia esposizione del libro. In quel tempo nel Paese si aggirava un caimano che
se lo sarebbe divorato in un sol boccone: non il debito pubblico, ma il povero
Prodi. Per di più, anche certi asini che contornavano Prodi gli avrebbero
assestato un bel calcio. Non sempre la verità e la razionalità coincidono con
l’ incolumità.
Sia come sia,
alla fine, con l’euro venne fatto all’ Italia un grande regalo: lo spread
rispetto alla Germania, per qualche anno, quasi si azzerò. Come riferivo nel
secondo paragrafo, quel grande beneficio fu sfruttato troppo poco, e così, nel
2011 si entrò nel gorgo in cui ancora siamo.
Nella parte
finale del paragrafo vorrei però riferire in modo abbastanza esteso di quello
che secondo Zingales è la più grave malattia italiana, una malattia che a suo
avviso nulla ha a che fare con l’ euro: la produttività del lavoro. Sarebbe
soprattutto il gap italiano da questo punto di vista la fonte più significativa
dei nostri guai degli ultimi 20 anni. Anche basandosi su un periodo un poco più
corto, i dati parlano un linguaggio chiarissimo. Leggiamo Zingales: “Tra il
1995 e il 2011 la produttività per ora lavorata crebbe del 2,3% l’anno negli
Stati Uniti, dell’ 1,4% in Francia e dell’1,5% in Germania. In Italia la
crescita fu solo dello 0,4%. Questa mancata crescita è responsabile della
stagnazione del reddito pro capite italiano e quindi dell’ impoverimento
relativo degli italiani. Ma è anche la maggiore responsabile della crisi
finanziaria italiana” (pag. 84-85).
Ancora Zingales:
“ Se nel 2011 il mercato ha messo in dubbio la sostenibilità del debito
italiano, non è stato per la sua politica fiscale, ma per la mancata crescita:
il rapporto debito/Pil tende a crescere se il denominatore (ovvero il Pil)
rimane fermo. E, con una popolazione che non cresce di numero e invecchia di
età, l’unico modo per far crescere il denominatore è aumentare la produttività.
La mancata crescita della produttività è
il vero male dell’ economia italiana. “ (pag. 85). Un ragionamento che non
fa una grinza. Nemmeno quei giganti di Bertinotti, Fassina, Camusso and Co. saprebbero
confutarlo.
Ma visto che quello
della produttività è un tema strategico, cerchiamo di approfondirlo grazie a
Zingales, che si occupa del tema in due parti del libro: nel paragrafo “La malattia italiana” del capitolo “Costi e benefici dell’ euro” e nel
paragrafo “La svalutazione è una cura?” del
già citato capitolo “A mali estremi…”. Pur
da profano provo a farne una sintesi.
Precisiamo innanzitutto
due concetti ineludibili per comprendere l’ intero ragionamento. La produttività del lavoro (p) è quel fattore che – assieme al salario
e alle altre componenti del costo del lavoro (tante altre voci di spesa a
carico dell’impresa e del dipendente: contributi previdenziali e assicurativi,
IRAP, ratei della liquidazione ecc.) – concorre a determinare il costo del lavoro per unità prodotta (Clup).
Più in specifico, la produttività del lavoro è quella componente legata
al processo lavorativo decisiva per la redditività di un’ impresa, quando sia
dato il costo del lavoro.
Come viene
calcolata la produttività?
Semplice: (p) = valore aggiunto / ore lavorate.
Detto in modo più esplicito: la produttività del lavoro consiste nella quantità
di valore aggiunto per ora lavorata. Qualcuno dirà: ma che è il valore
aggiunto? È la differenza tra ricavi e costi di un dato processo produttivo. Ben
si capisce che con la produttività ne va del guadagno dell’ impresa, cioè in
fin dei conti della ragione della sua esistenza.
Ma che è poi
quello strano Clup? Come viene
calcolata questa grandezza, e che rilevanza ha questo indicatore economico? Il costo del lavoro per unità prodotta viene
quantificato con questo rapporto frazionario: costo del lavoro / valore aggiunto. È logico che per
calcolare il Clup non si prenda in
considerazione il solo salario, ma il montante lordo speso da un’impresa per
impiegare la forza-lavoro e che lo si metta in relazione, lo si commisuri con
il valore aggiunto. Il Clup fornisce
cioè l’ indice della redditività, per un’ impresa, dell’impiego del fattore
lavoro.
I tre fattori
che determinano il Clup sono: (a) il salario per ora lavorata, (b) il rapporto tra costo del lavoro e salario
e (c) l’ inverso della produttività. Clup = (a) x (b) x (c).
Orbene, aumenti di (a) e di (b) fanno aumentare il CLUP, così anche come (c) –
che è l’ inverso della produttività. Viceversa un aumento della produttività
(p) fa diminuire il Clup.
Un’
ulteriore informazione: sappiamo che nel nostro Paese l’ importo del prelievo
fiscale (a carico del lavoratore) e contributivo (a carico del datore di
lavoro) è particolarmente alto. Da tempo viene chiamato per brevità “cuneo
fiscale”. Nel 2010, nel caso di un lavoratore medio, coniugato e con due figli, il suo valore era pari al
39,2% dell’ intero costo del lavoro, terzo tra i Paesi OCSE, contro una media
del 24,8%. [Fonte: “Dizionario di Economia e Finanza” – Treccani].
Ancora
una precisazione: una diminuzione salariale, così come una diminuzione del tanto
citato cuneo fiscale, aumenterebbero di per sé la produttività, anche se non
fossero intervenuti mutamenti tecnologici né di miglioramenti nell’ efficienza
dell’ organizzazione del lavoro. Ma di regola e sul lungo periodo sono
soprattutto i miglioramenti tecnologici e dell’ organizzazione del lavoro, come
pure un buon clima sui luoghi di lavoro e la motivazione (legata anche al
salario) del personale impiegato, a far aumentare la produttività (p) e diminuire o stabilizzare il Clup.
Torniamo
ora a Zingales, ai dati e alle riflessioni che ci fornisce da pag. 127 a pag.
129 del libro. Dal 1999 al 2011 [primi 13 anni dall’introduzione dell’ Euro] il
costo del lavoro per unità prodotta (Clup) è aumentato in Italia del 40%.
In Francia del 25%. In Olanda del 20%. Negli USA del 18%. In Austria del 14%.
In Germania solo del 5%. Più bassa è la percentuale di aumento e maggiore è l’
aumento della redditività del lavoro. La performance della Germania è
sbalorditiva, quella italiana preoccupante.
Ma, come
sappiamo, non dobbiamo fare di ogni erba un fascio. Chiediamoci prima di tutto
quanto abbia inciso l’aumento dei salari orari < il nostro (a) > su
quelle diverse performance. Nel periodo 1999-2011 il salario orario (a) è
aumentato in Italia del 34%, in linea con la Francia [+35%]. Il guaio è che
quello tedesco è aumentato solo del 17%.
E come stanno le
cose con gli altri fattori del Clup,
cioè il cuneo fiscale e la produttività?
Rimanendo alla Germania, nell’ arco di quei 13 anni, il cuneo fiscale è
stato diminuito, anche se di poco. La
produttività (p) è invece aumentata di quasi il 12%. Risultato: un
aumento del Clup tedesco solamente
del 5%.
Spostiamo ora il
confronto con la Francia. Ma quel 15% di minore aumento di CLUP rispetto all’ Italia a che cosa è dovuto? Quasi per intero a
un aumento in Francia della produttività (p) del 7%. In Italia la stessa diminuiva invece del 6%. Un
gap del 13% sulla Francia e del 18% sulla Germania.
Ora
sappiamo una cosa importante: il maggiore aumento del Clup in Italia non è tanto da addebitare agli aumenti salariali,
quanto al calo della produttività, che è un indice della redditività. Si è
dunque creato un circolo vizioso tra redditività delle imprese e produttività. Ma
come si spiega questo fatto?
Per
Zingales l’economia italiana è specializzata nei settori a minor crescita nel
mondo, come l’abbigliamento che è passato – dal 1980 ad oggi – da una quota del
5% degli scambi mondiali ad una del 3,6%. Invece il settore Itc (tecnologie
dell’ informazione e della comunicazione) è passato dal 9% al 23%. Qui l’
Italia offre ben poco.
Se si è attivi
nei ‘settori sbagliati’, allora si subisce la concorrenza di nuove economie
emergenti, dove i salari sono più bassi. Se anche si riesce a stare sul mercato,
la redditività risulta parecchio bassa. Questo incide ovviamente anche sull’
occupazione. Se le imprese hanno meno utili, è pure ovvio che abbiano anche
meno mezzi per investire in tecnologia, per aumentare la produttività. E così
la tendenza negativa si rafforza. E si producono pericolose distorsioni.
Da un calcolo, i
cui risultati Zingales presenta nella figura 6.3 a pag. 131, risulta che il nostro Paese, ipotizzando che
avesse mantenuto la stessa presenza percentuale nei settori produttivi che lo
caratterizzava nel 1999, avrebbe dovuto perdere il 15% dei posti di lavoro. In
realtà, prima che si entrasse nel vortice della crisi del 2011, l’ occupazione
è aumentata circa del 5%. Perché questo ‘miracolo’? Secondo Zingales, se ben capisco,
soprattutto perché si è rimasti nei settori in calo, investendo il meno
possibile in innovazione tecnologica, cioè senza aumentare la produttività,
cioè il valore aggiunto per ora lavorata. Così l’ incidenza di manodopera
impiegata per prodotto unitario è stata più alta che altrove. In Germania l’
occupazione è invece rimasta invariata, ma le imprese hanno aumentato molto la
produttività, come pure il volume della produzione e la loro redditività in
generale.
La nostra
performance in termini di occupazione aveva dunque i piedi di argilla. I dati
combaciano infine con quelli sull’ andamento del Clup e confermano che i nostri talloni d’ Achille sono proprio la
produttività e la presenza in settori in arretramento e meno redditizi. Due
fatti legati a filo doppio tra loro.
Nel paragrafo
significativamente intitolato “La
svalutazione è una cura?” – ponendosi Zingales la domanda se con il ritorno
ad una lira svalutata risolveremmo i nostri problemi – leggiamo quanto segue: “Una
svalutazione della nostra moneta rispetto al resto d’ Europa ci darebbe un
vantaggio temporaneo, ma non risolverebbe il problema: la nostra produttività
non cresce” (pag. 128).
Anche a
proposito dell’ incidenza negativa che l’ euro, ben più forte dell’ ipotetica
lira, avrebbe avuto sulla produzione in Italia l’autore è tranchant: “Se siamo
andati peggio [rispetto ai partner europei, ndr] (…) non è tanto perché la
nostra valuta è sopravvalutata, ma perché siamo specializzati nei settori
sbagliati” (ibidem).
Il Paese va
dunque profondamente riformato affinché la sua economia si adegui ai nuovi
scenari europei e mondiali. Con o senza l’ euro. Come avevamo anticipato più
sopra, a conclusione della sua ricognizione dei problemi italiani, Zingales si
domanda se la permanenza del nostro Paese nella zona dell’ euro sia sostenibile.
Ritiene che, a conti fatti e per stimolare la trasformazione del Paese, la
moneta comune offra ancora più benefici che svantaggi. Ma non ancora per molto
tempo, e soprattutto, solo a due condizioni: che vengano introdotte in tempi
abbastanza brevi importanti modifiche nel sistema dell’ euro, che la Germania sia
meno spregiudicata nel gioco non-cooperativo che conduce da tempo.
( V )
COME RENDERE SOSTENIBILE L’ EURO
Prima di
avanzare le sue proposte, l’autore sottolinea quali sono stati a suo avviso i
maggiori meriti e vantaggi dell’ integrazione europea:
(1)
La diffusione
e radicamento della democrazia e del rispetto dei diritti umani. I vantaggi
economici sperati hanno spinto molti paesi con deficit democratici a
riformarsi, anche a tappe forzate.
(2)
Il
libero scambio e la libera circolazione delle persone.
Quanto al da
farsi, spiccano innanzitutto due cose da mettere rapidamente in agenda:
a ) L’ integrazione dovrebbe avanzare
fortemente anche sul piano delle spese militari. Sinergie tra gli stati nell’
acquisto di strumenti di difesa porterebbero certamente a forti risparmi.
b ) Nella ricerca scientifica e nell’
università va fatto di più. Due dati: ben il 70% delle prime 50 università nel
mondo è statunitense; solo il 20% è europeo. L´Europa offre di per sé una
dimensione sufficiente per fare un balzo
in avanti. Va approntato un piano integrato che potenzi l’ Europa nel suo
insieme.
Lo schema delle proposte avanzate da Zingales per rendere sostenibile l’
euro è questo:
I ) UN’ UNIONE BANCARIA VERA, FORTE,
RIGOROSAMENTE SOVRANAZIONALE
(A)
Non ha alcun
senso avere una moneta unica e non avere un unico sistema bancario. Con sistemi
bancari nazionali che vanno in orine sparso si dissoda solo il terreno perché
si accentuino gli squilibri macroeconomici interni all’ euro-zona, invece di
farli diminuire.
Fu fatto un
grosso errore nel sottovalutare le possibili crisi e le distorsioni finanziarie
che gli squilibri dovuti all’ esistenza di una moneta unica avrebbero provocato
sull’ intero sistema bancario europeo. Non ci si è preoccupati di mettere in
cantiere istituti che affrontassero il problema del legame che ogni sistema
bancario nazionale intrattiene con lo stato di appartenenza e con il debito
pubblico dello stesso.
Così, esplosa la
crisi americana, sono venute a galla le manchevolezze del sistema economico
dell’ Eurozona. Gli schock finanziari hanno presto diffuso una sfiducia
generalizzata in tutto il sistema creditizio. Ad essere colpiti in modo più
duro sono ovviamente stati i paesi in cui il sistema bancario era più esposto o
in cui il debito pubblico era maggiore. Questi due focolai di crisi si sono
addirittura alimentati a vicenda. Risultato: un fortissimo calo nell’
erogazione del credito, e naturalmente recessione e deflazione. Ultima
conseguenza: una restrizione della capacità produttiva in molti paesi della
zona euro.
(B)
Se le banche
europee dipendono (in termini di possibili aiuti) solo dagli stati nazionali,
si genera un’ iniqua competizione tra le economie nazionali. I paesi più forti
potranno perciò permettersi più agevolmente salvataggi o nazionalizzazioni di
banche in gravi difficoltà. Non solo. In questi stati sarà più facile accedere
al credito e a tassi di interesse più bassi, dando alle economie di questi
stati un ulteriore vantaggio competitivo. Tutte cose che si sono effettivamente
verificate.
Anche i criteri
di salvataggio o non-salvataggio di una banca sono stati finora lasciati all’
arbitrio del rispettivi governi nazionali.
(C)
Da tutto ciò
discende la necessità di essere molto coerenti nel configurare l’ unione
bancaria. Va creata un’ UNICA ISTANZA DI SUPERVISIONE DELLE BANCHE. Serve una
GARANZIA COMUNE EUROPEA PER I RISPARMIATORI. A DECIDERE COME E QUALI BANCHE
SALVARE o NAZIONALIZZARE DEVE ESSERE UN´UNICA ISTANZA SOVRANAZIONALE. Negli
ultimi 2 anni si sono fatti passi in avanti in questa direzione, ma sono
insufficienti ed in parte ingiusti.
II ) UN FONDO INTERBANCARIO
SUFFICIENTEMENTE DOTATO per gestire gli aiuti che le banche stesse possono
darsi. Il volume deciso, 55 miliardi di euro da raccogliere poco alla volta
nell’ arco di 10 anni è però insufficiente. L´attuale fondo andrebbe dunque, in
tempi più brevi, reso più robusto.
III ) MIGLIORAMENTO DELLA SOLVIBILITÀ
DEGLI STATI con una COMBINAZIONE DI EUROBONDS e di BONDS NAZIONALI.
Secondo l’autore
è necessario realizzare la proposta avanzata nel marzo del 2010 da due
economisti (Jacques Delpla e Jakob von Weizsäcker) del think tank Bruegel di
Bruxelles: a ) la conversione di bonds nazionali in euro-bonds, garantiti
comunitariamente, per il 60% del PIL nazionale, b ) il mantenimento, per il
resto, dei bonds nazionali. [ Vedi qui ].
Così Zingales:
“Con questa distinzione, anche i Paesi più indebitati avrebbero una percentuale
di debito sicuro, in cui le banche potrebbero investire senza il rischio di
pesanti perdite. Limitando per regolamentazione gli investimenti del sistema
bancario nazionale in titoli rossi [ vedi bonds nazionali, ndr ], si
spezzerebbe il legame perverso tra Stato e banche” (pag. 177). Detto
altrimenti: si normalizzerebbero i flussi del credito e degli investimenti.
IV ) UN´ASSICURAZIONE EUROPEA DI
DISOCCUPAZIONE
Cito di nuovo
Zingales (pag. 178): “Un’ area con una moneta comune deve avere meccanismi di
stabilizzazione automatica che compensino gli schock regionali con fondi
europei. Il meccanismo automatico di stabilizzazione migliore che conosciamo
sono i sussidi di disoccupazione”.
Si avrebbero effetti
positivi non sono soltanto nelle regioni in difficoltà, ma anche nelle economie
in espansione, per prevenirne un eccessivo surriscaldamento. Ad esempio, tra il
2000 e il 2005, la Germania aveva più disoccupati di tante altre regioni
europee. Avrebbe beneficiato di fondi per la disoccupazione comunitari. Sempre
in quel periodo, viceversa, la Spagna era in piena bolla immobiliare e in
crescita economica anomala. Con una forma di tassazione per eccesso di crescita
si sarebbero raccolte risorse per i sussidi di disoccupazione in altri Paesi e
la Spagna sarebbe stata disincentivata, per non dire inibita, nel seguire la
strada della crescita ‘dopata’.
Per superare le ovvie
diffidenze reciproche tra gli stati nella gestione dei fondi, cioè per impedire
che gli assegni diventino incentivi a non lavorare, basterebbe che a
controllare la correttezza dell’ applicazione fossero ispettori stranieri.
V ) LASCIARE MAGGIOR FLESSIBILITÀ ALLA BCE
NEL GESTIRE L’ OBIETTIVO DEL TETTO INFLAZIONISTICO DEL 2%.
Il mandato alla
BCE di garantire che l’ inflazione non superi il tasso del 2% è in qualche modo
perfido. In fondo non prevede interventi in caso di inflazione zero o di
deflazione. Infatti, da statuto, i tutori francofortesi della moneta già si
renderebbero colpevoli se l’ inflazione raggiungesse il 2,1%. Visto anche che
non è affatto facile fare delle previsioni tanto precise sul tasso d’
inflazione, tendono a tenersi abbastanza lontani dal 2%. Così preferiscono di
fatto la disinflazione o la deflazione. Quanto meno andrebbe consentito un
certo corridoio d’ errore anche oltre il 2%, cosicché, in media, negli anni, la
BCE centri effettivamente l’obiettivo.
Zingales pensa,
come molti economisti, tra cui Olivier Blanchard (il capoeconomista del Fondo
Monetario Internazionale), che per la zona-euro sarebbe più salutare, almeno
per l’ attuale fase critica, un tasso di inflazione tra il 3% ed il 4%. Ma è ormai
chiaro che la Germania non lo vuole accettare. Se ne prenda atto, ma si faccia
di tutto almeno per centrare almeno l’ obiettivo dell’ inflazione al 2%. Ora siamo
abbondantemente al di sotto: una mina vagante che alla lunga comprometterà l’
esistenza stessa della moneta unica.
( VI )
UN PAIO DI MIE RIFLESSIONI
1. In più punti del libro di Zingales
emergono giudizi sull’introduzione dell’ euro che credo si possano sintetizzare
così: *La decisione di accelerare con la moneta unica fu prettamente politica e
non tenne in dovuto conto l’ aspetto economico. ** Ad avviare la forzatura fu
Mitterand, un uomo certamente convinto del primato della politica, non a caso
allora presidente del Paese del centralismo, di Colbert, del dirigismo
economico. *** In Mitterand, nei francesi, ma anche in molti politici italiani,
albergava il pensiero che le severe regole di Maastricht si sarebbero potute
eventualmente aggiustare o interpretare in modo più flessibile in corso d’
opera, ma avevano del tutto sottovalutato la mentalità e gli interessi dei
tedeschi. **** Non è affatto detto che quella forzatura fosse indispensabile
per lo sviluppo dell’ integrazione europea; anzi, sarebbe sempre preferibile un
modello di convergenza che partisse dal basso, a settori, dai legami
intraeuropei che si rafforzano nel libero scambio dei beni e dei servizi, un
modello che assomigliasse di più alla crescita di un organismo e meno all’
assemblaggio di una macchina. ***** Dobbiamo diffidare del ruolo di avanguardia
onnisciente che le élites europee si arrogano. Sarebbe stato molto meglio se,
invece di fare tanta retorica sull’ euro, avessero chiarito tutti i rischi a
cui si andava incontro. E se i popoli e le opinioni pubbliche fossero state
restie al progetto, meglio sarebbe stato rinunciare.
Zingales mette
in guardia dalla visione elitaria e dirigista che la costruzione europea si
porta con sé fin dalla nascita, fin dai progetti di Robert Schumann e di Jean
Monnet. Pensa che progetti troppo ambiziosi e la fretta dei decisionisti causino
spesso dei guai e soprattutto esproprino i detentori della sovranità di questa
loro prerogativa. Crede di più nella forza costruttiva del mercato e delle
relazioni sociali e culturali, che sviluppano, molecola dopo molecola, un
tessuto robusto. Trova anche calde parole di apprezzamento per progetti come l’
Erasmus, che favoriscono la reciproca conoscenza tra gli europei e mettono in
comunicazione i diversi modelli di formazione culturale, tecnica e scientifica.
Che dire di
questo approccio da manuale liberal-liberista? Innanzitutto penso, nel mio
piccolo, che sull’ azzardo dell’ euro Zingales abbia ragioni da vendere. Con
quella decisione si lasciava una zona sicura, in cui la costruzione di un
mercato unico permetteva a tutti una strategia win-win, e ci si addentrava su
un terreno di possibili giochi competitivi, anche molto pericolosi e ci si
affidava alla ‘ragione’ dei rapporti di forza.
Su un altro
punto la sua analisi è acuta e convincente: il costrutto era troppo
squilibrato, era anzi ben congegnato per innescare veramente il gioco
competitivo tedesco, che Zingales spiega in modo cristallino. Qui vale la pena
di fermarsi a riflettere.
I tedeschi da
sempre interpretano le costruzioni istituzionali come sistemi rigidi e
concedono meno spazio possibile alla governance. Per loro è inconcepibile
navigare a vista. Con la nascita della Bundesrepublik hanno anche messo in
pratica a livello economico la dottrina dell’ ordo-liberale, dottrina secondo
la quale lo stato deve solo costruire un sapiente castello di regole,
razionali, chiare, severe, per garantire lo sviluppo della libera concorrenza.
Sapendo con molto anticipo in che rete di regole deve agire, ogni operatore
economico può elaborare le sue strategie, sia nel breve che nel lungo pericolo.
Lo Stato non deve affatto intervenire a modificare il libero gioco delle forze
del mercato. Quel che ha da fare sono tre cose: (a) mettere a disposizione
infrastrutture adeguate, (b) vigilare sul rispetto delle regole e impedire la
formazione di cartelli e (c) creare, con il welfare, gli strumenti per rendere
socialmente sostenibile l’ economia di mercato. E di questo modello si può dire
di tutto, ma non che non sia razionale, né che non abbia funzionato, né che non
goda di un vasto consenso nella popolazione e tra le forze politiche e
sindacali. Proprio i successi economici della Bundesrepublik sono la miglior
carta da visita. Anche per questo Kohl riuscì ad imporlo nella fase di
costruzione dell’ eurozona.
Ma
è proprio vero che sia avvenuto un trasferimento di questo modello all’ intera
eurozona? Il rispetto delle regole antitrust [il nostro punto (b) di poco
sopra] è sì uno dei momenti più curati ed accettati in tutta la UE. A mancare
del tutto è invece il ruolo dello Stato nel mettere a disposizione infrastrutture
adeguate e sul versante del welfare [i punti (b) e (c) di poco sopra].
Soprattutto l’ultimo tassello dell’ ordo-liberismo manca completamente nei
trattati di Maastricht e nella loro attuazione. Troppi ordo-liberisti tedeschi
predicano bene ma razzolano male, quando si occupano dell’ eurozona. La cosa
non va lasciata cadere. Sappiamo che proprio le proposte del Gruppo di
Glienicke colmano almeno in parte questo vuoto. Anche le proposte di Zingales
lo fanno. Non c’ è tempo da perdere nell’ intavolare la discussione, in
Germania, ma anche fuori.
Su
un punto, pur parlando con tutta l’ insicurezza di un orecchiante di politica
economica, non credo però che l’ ordo-liberismo sia una teoria in grado di
tirarci fuori dai guai. Non è di certo l’impostazione ordo-liberale che ha
causato i danni che anche Zingales analizza, ma mi pare sia un grosso freno a
prendere misure e decisioni che mi paiono da tempo necessarie. Credo infatti
che solo stimoli di tipo keynesiano siano in grado di cavar fuori da profonde
depressioni. Le stesse proposte di Zingales di potenziare le strutture
universitarie e la ricerca in Europa come possono avere la giusta potenza di
fuoco senza interventi statali? Anche lo scongelamento di investimenti
pubblici, ormai urgenti, dopo che da anni si trascura persino la manutenzione
degli edifici scolastici, delle strade o di altre infrastrutture sarebbe
utilissimo. In Germania come in Italia. Di certo non a tappeto, di certo non
laddove anche grandi economie sono state nel passato ‘dopate’ con grandi flussi
di fondi europei, come ad esempio in Spagna. Ma, in modo mirato, andrebbe dato
il via libera ad una politica anticiclica in tante regioni e in tanti settori.
Non solo. Un grande sforzo europeo sul fronte dell’ ambiente, dell’ energia e
di una digitalizzazione pensata su scala integrata non farebbe al caso nostro?
Perché
non coniugare sapientemente politiche economiche sia sul lato dell’ offerta che
sul lato della domanda? Non vedo nelle svariate teorie liberiste la possibilità
di farci uscire in tempi medio-brevi dalla depressione economica e dalla
deflazione in cui grandi zone d’ Europa si sono o sono state cacciate.
Vogliamo indulgere a posizioni che ci
consigliano di affidarci solo alle forze della “distruzione creatrice“? Penso
anch’ io che alla lunga il libero mercato abbia in sé la potenzialità di uscire
da solo da gravi depressioni. Ma in quanti decenni? E con quali costi sociali?
Credo che posizioni simili siano l’ immagine rovesciata dello statalismo.
Entrambi soffrono del crampo mentale della reductio
ad unum.
Ma
torniamo all’ Europa. Siamo arrivati ad una stretta in cui tanti dovrebbero –
come recita un bel modo di dire tedesco – “saltare oltre la propria ombra”,
liberarsi di tante pregiudiziali e di tanti pregiudizi. Altrimenti il naufragio
è certo.
2. Credo che nei primi decenni dell’
integrazione europea sia stato giusto far trainare dall’ economia il processo
di collaborazione e di convergenza in Europa. Cittadini di nazioni molto
diverse tra loro, divise fino ad allora da reciproca diffidenza, da progetti
egemonici, addirittura da conflitti bellici, si trovarono in un breve lasso di
tempo a toccare con mano i grandi benefici di un mercato comune: prima, di
alcuni beni strategici, poi, la progressiva liberalizzazione degli scambi di
beni e servizi, infine, dei capitali e del mercato del lavoro. Con la creazione
della Commissione Europea iniziò poi il processo dell’ armonizzazione sul
terreno della buona amministrazione (se si fa eccezione degli eccessi di
dirigismo e centralizzazione). Anche in campo giuridico si sono compiuti enormi
passi in avanti verso standard comuni. Il Parlamento europeo è poi un’ istanza
di confronto e di controllo di riconosciuta utilità, anche se si tratta di un
parlamento strano, poiché la vera istanza legislativa è invece il Consiglio
europeo (la riunione dei capi di governo dei Paesi membri dell’ UE).
Anzi, a essere
sinceri fino in fondo, l’ insieme della costruzione istituzionale è strana e
non corrisponde allo schema canonico delle democrazie costituzionali. Il
legislativo è composto dai vertici degli esecutivi nazionali. Si può ben capire
che, non essendo l’ UE uno stato federale, gli stati membri si vogliano
tutelare, che vogliano stare sulla plancia di comando, ma non ci si può
nascondere che una somma di rappresentanti di esecutivi non può avere le
caratteristiche né portare con sé la legittimazione di un vero potere legislativo
europeo. La Commissione è poi un ibrido: è al contempo la sede dell’
amministrazione e la centrale che propone misure e leggi, assomma cioè in sé un
mandato e delle funzioni normalmente delegate dall’ esecutivo e funzioni invece
tipiche del momento legislativo. Chiaramente, il Parlamento europeo è svuotato
delle prerogative tipiche dei moderni parlamenti nazionali. Last but not least, manca il momento
fondante di ogni stato costituzionale: la Costituzione. Non sono un esperto di
diritto, non sono nemmeno un assiduo orecchiante in questa materia, ma mi pare
che l’ intera costruzione, così com’ è, mostri gravi falle democratiche e non
sia adatta a trainare un processo di integrazione politica e culturale dell’
Europa. Si sa che ha avuto parecchie fasi di stallo e ha vissuto molte crisi,
superate poi con compromessi o rinvii. Ma sembra quasi miracoloso che abbia
potuto reggere.
In
realtà, credo che siano stati proprio gli evidenti vantaggi economici
complessivi a impedire che la
costruzione saltasse in aria. All’ economia spettò un primato di fatto.
Ma
possiamo dire che questo continuerà ad accadere? Mi sento di negarlo nel più
deciso dei modi. Con la moneta unica si è oltrepassata la soglia dei vantaggi
facili e quasi ovvi di un gioco economico che garantisce a tutti degli utili.
Nell’ euforia europeista dei primi anni dall’ introduzione dell’ euro si
dimenticò che proprio da allora le diverse economie entravano in concorrenza,
che la redditività della produzione, il potenziale tecnologico, la produttività
del lavoro, i diversi sistemi finanziari, i diversi livelli di indebitamento
pubblico, i diversi costi dell´energia, l’ efficienza o inefficienza delle
infrastrutture avrebbero pesato nel confronto diretto, senza rete, tra i
sistemi Paese. E se le cose stanno così, allora l’ economia, da motore dell’
integrazione, è divenuta il pomo della discordia.
Ora
le voragini che si sono aperte mettono a nudo i deficit di linee guida, di
principi, di cultura europea che si sono accumulati nei decenni. Esiste sì una
cultura dell’ amministrazione e della mediazione che permettono che i conflitti
non portino alla rottura del sistema, ma questa è poca cosa davanti alle sfide
che abbiamo difronte. E come negare che vecchi pregiudizi, opacità, diffidenze
si siano di nuovo diffusi? Tutto questo significa almeno due cose: l’
introduzione dell’ euro fu troppo frettolosa, si è lavorato male dal punto di
vista politico, istituzionale e culturale.
L’
Eurozona e l’ UE sono ben più di una zona di libero scambio e assai meno di uno
Stato federale o di una zona di compiuta integrazione politica. Che fare
adesso? Far marcia indietro ripiegando sul terreno più facile? Sarebbe un
peccato. Di più. Sarebbe un grave errore, sia perché il retrocedere avrebbe il
sapore della sconfitta e si porterebbe dietro risentimenti e conflitti, sia
perché i singoli Paesi, anche i più grandi e meglio strutturati, non avrebbero
quella massa critica per contare sullo scenario che si va profilando con
l´avanzare della globalizzazione e con la modernizzazione di grandi aree prima
sottosviluppate.
Sarebbe
molto meglio avanzare, ma visto che il fattore economico non può più surrogare
il vuoto di azione e sapienza politica e di consenso finora mancati, è su
questi aspetti che dobbiamo puntare. Ma guai ad indulgere a tirate ideologiche
sul primato della politica, a cambiare il campo di gioco . La prova del nove è
di nuovo prima di tutto sul terreno economico. Si deve arrivare al punto in cui
la comprensione delle differenti storie, dei differenti ruoli che i popoli
europei hanno avuto e hanno, porti alcuni ad adeguarsi agli standard europei di
trasparenza, di efficienza, di responsabilità, di giustizia raggiunti in certe
zone ed altri ad accettare come appropriati dei transfer di risorse, ad
accettare eventuali compromessi sul tasso di inflazione programmata, a
comprendere che misure europee di welfare sono sacrosante. Ma sia chiaro che il
cervello di questa grande opera di comprensione e di mediazione interculturale
non può che essere politico e deve attingere ai fondamenti della civiltà
europea.
Ora
vengo a Zingales. Le sue proposte sono eccellenti nel breve periodo. L’ autore
non si complica la vita allargando il discorso – come invece fanno il Gruppo di
Glienicke o i Pikettyani francesi o il Gruppo Eiffel – a livello istituzionale.
Sul breve periodo questo è un grande vantaggio, perché così facendo si guadagna
in efficacia e realismo… e ben sappiamo con che urgenza si dovrebbe
intervenire.
Ma c’ è il
rovescio della medaglia. È suonata anche l’ ora della ripresa della politica e
delle costruzioni istituzionali. È pure urgente fare un salto di qualità nel
prendere coscienza di quel che abbiamo in comune, dal profondo della nostra
storia. C’ è in giro troppa ignoranza sul senso della nostra civiltà e pure troppo
utilitarismo miope, a corto raggio. Va ripensato anche il ruolo dello Stato e
della collaborazione tra stati in vista dell’ integrazione europea. Va bene
liberare le forze del libero scambio, ma mai il mercato da solo poté costruire
da solo le nostre economie o cucire assieme le nostre società civili. È una
favola quella che la sola mano invisibile sia l’ autore dell’ economia
capitalistica. I mercati nazionali come poterono farsi senza l’opera dello
stato? Ed il tanto disprezzato mercantilismo non ebbe forse in quasi tutti gli
stati europei per certi aspetti un ruolo insostituibile? Non si può far
cominciare la storia moderna con il solo sviluppo del sistema di produzione
capitalistico. E quando fu il laissez faire l’unico o il principale motore
dello sviluppo capitalistico e dei salti tecnologici? Mai o quasi mai. Su queste cose hanno ragione
Keynes (La fine del laissez-faire) e
Polanyi (La grande trasformazione). An den beiden geht kein Weg vorbei.
La lettura della recente storia europea di
Zingales, di cui non mi sono occupato nella scheda, ma che vale la pena
conoscere con il suo libro, ha il braccio troppo corto. La contrapposizione tra
dirigismo mitterandiano e liberismo thatcheriano non ci porta lontano. Senza indulgere alle fumisterie del ‘trombonismo’
europeista va ripresa la strada delle idee alte, che hanno una storia lunga
lunga. Gli stereotipi che troppo spesso i grandi termini si portano dietro come
zavorra vanno sciolti. E come? Comprendendoli nel loro significato storico e
normativo. Su questo terreno è urgente una rigenerazione delle élites e dell’
opinione pubblica. E al crocevia di tutti i cambiamenti c’ è sempre lui: lo
Stato moderno. Di certo non quello italiano, che ancora arranca sciancato e
zavorrato dietro alla modernità.
3. Uno dei maggiori meriti di “Europa o
no” sta a mio avviso nel chiarire il ruolo che la questione demografica ha per
i tedeschi, come movente della disinflazione ovvero della deflazione.
Semplicemente, la certezza che la popolazione, stante il trend attuale, diminuirà
di parecchio e che l’ età media dei tedeschi aumenterà, è veramente un punto
fermo a partire dal quale la classe politica ha fatto scelte strategiche in
economia. Zingales tocca anche il nervo della questione quando paragona la
visione dei tedeschi a quella dei giapponesi. C’ è davvero un consenso
trasversale, persino esagerato, tra le forze politiche sulla necessità di
ridurre le spese dello stato e delle amministrazioni locali, di far sì che i
lavoratori vadano molto più tardi in pensione. Mai in Germania è stata aperta
una vera discussione pubblica su questa strategia o su eventuali alternative,
eppure la scelta compiuta appare come un’ ovvietà.
L’ ossessione
dell’ insostenibilità del debito raggiunge anche aspetti parossistici. Faccio
un paio di esempi. Da qualche anno sentiamo i verdi ripetere con ossessione che
la spesa pubblica va rigorosamente contenuta. Li abbiamo sentiti criticare la
marcia indietro compiuta dalla SPD sull’ età pensionabile: dal limite dei 67 a
quello dei 63 anni. Gridano al tradimento delle nuove generazioni, spalleggiati
da economisti del calibro di Bert Rürup (un socialdemocratico). Anche sulla
richiesta di sovvenzioni alla green economy hanno messo la sordina. Poi, sempre
forti sono le resistenze nella SPD nel correggere la linea tracciata dalla
agenda 2010 di Schröder [concepita con l’ aiuto dell’ economista Rürup, e dell’
ex-dirigente della Volkswagen Peter Hartz].
Persino
sindacalisti di primissimo piano, che ancora negli anni ottanta e novanta
tuonavano con parole d’ ordine tipiche dello pseudo-keynesismo d’ accatto, sono
diventati prudentissimi, persino silenziosi. Pare che in questi giorni siano
scossi dal fatto che la Bundesbank abbia consigliato loro di avanzare nei
prossimi mesi sostanziose richieste di aumenti salariali. E questa notizia di
prima grandezza, benché quasi sussurrata sui media, ci dice questo:
a ) I sindacalisti tedeschi hanno talmente
puntato le loro carte sul consenso nazionale e sull’ effetto trainante dei
successi industriali e commerciali dell’ industria tedesca da non capire la
gravità, per tutti, della crisi che morde in Europa. Sono piuttosto i
professori del Gruppo di Glienicke a proporre, come Zingales, un’ assicurazione
europea sulla disoccupazione: un’ idea europeista di vitale importanza per i
lavoratori.
b ) La Bundesbank è ora preoccupatissima
per il pericolo della deflazione. Dopo aver contribuito in modo impareggiabile
a creare il problema, ora, quatti quatti, gli arcigni difensori della severità
sperano che si faccia macchina indietro, ma non lo fanno a viso aperto.
Affidano ad altri il lavoro da fare. Raffinatissima ipocrisia.
Ma
torniamo al tema demografico. La preoccupazione in Germania, qualunque sia la
soluzione cercata, è più che giustificata. Davanti al fatto che i tedeschi se
ne occupino e traggano le loro conseguenze dovremmo toglierci il cappello. Lo
stesso dicasi dei francesi, anche se seguono una via del tutto diversa. In
Italia invece è tale lo scadimento della classe politica e dell’ opinione
pubblica che di problema demografico manco si parla.
Leggendo
“L’urgence européenne”, un opuscolo
scritto da Claude Bartolone, socialista francese, attuale presidente dell’ Assemblée nationale, pubblicato dalla Fondation Jean Jaurès e scaricabile da
questo LINK ci si imbatte a pag. 53 in questo
passaggio, che cito per esteso:
“
Je veux citer un seule exemple, essentiel pour comprendre les choix politiques
de l’ Allemagne: la démographie. Son taux de fécondité figure parmi les plus
faibles en Europe (1,4 enfant par femme) et sa population est en déclin depuis
2003. En France, la fécondité se maintient à un haut niveau qui assure le
renouvellement de sa population (deux enfants par femme). Ainsi, entre 2010 et
2011, la population française a crû de 1,6% quand l’ Allemagne perdait 0,1% de
sa population. En 2060 on comptera plus d’ habitants en France qu’ en Allemagne:
74 millions contre 72,4 millions “.
Lo
stato francese spende moltissimo in asili gratuiti, in scuole a tempo pieno, e
ovviamente nel personale per gestirle. Vuole garantire alle madri la chance di
lavorare, di rendere compatibile lavoro e famiglia. Non solo. Insegue l’
obiettivo di integrare e omogeneizzare la popolazione, autoctona o immigrata.
In ciò mi pare siano all’ opera soprattutto due motori: la volontà di grandeur
e l’ idea di guidare lo sviluppo demografico in modo tale che non comprometta i
cardini e i principi del proprio repubblicanesimo. Che c’ è di male in questo?
Eppure si rinfaccia continuamente alla Francia di praticare una politica
economica rovinosa per l’ Eurozona. Non sono in grado di dire quanto il
continuo sforamento del deficit in Francia sia da addebitare ad un saggio
‘interventismo’ demografico e quanto ad altri fattori, magari parassitari.
Parliamone però attestando ai francesi una notevole lungimiranza. Tra l’ altro
la loro pervicacia nel farsi un baffo delle reprimende di Schäuble non mi è
sembrata tanto negativa: ha ridotto e rallentato la tendenza recessiva e
deflattiva della politica economica impostaci.
Lo
stato tedesco non fa nulla di tutto questo. La politica verso le scuole per l’
infanzia è a dir poco deficitaria. Il sostegno pedagogico-logistico alle madri
e alle famiglie pure. Possiamo capire che la Bundesrepublik preferisca
lasciarsi andare lungo la china della recessione demografica per evitare le
trappole e i ricordi della politica totalitaria ed eugenetica dei nazisti. Ma
la decisione tedesca, come del resto quella francese, sul versante opposto,
riguardano tutta l’ Europa. Faccio un esempio da italiano, un esempio che mi fa
cattivo sangue. I tedeschi intendono rimpiazzare i vuoti che si stanno creando
e si creeranno nel loro Paese in termini di operai specializzati, di ingegneri,
di ricercatori, di medici, di scienziati, di dirigenti industriali attirando il
meglio dell’ emigrazione dall’ Est e dal Sud Europa. Spesso spacciano questo
anche come un bell’ esempio di mobilità transnazionale, di aiuto ai giovani di
quei Paesi. Sarò cattivo, ma io nutro un sospetto di vampirismo.
Sia
come sia, il tema demografico è centrale per tutta l’ Eurozona e per l’ UE.
Proprio le diverse strategie demografiche nazionali stanno divaricando l’
Europa. Anche su questo tema non ci si può arroccare nei confini nazionali.
Anche qui, o si va oltre la tradizionale visione della sovranità nazionale, o
si lascia che l’ integrazione europea, alla lunga, salti in aria. Che si apra
il dibattito!
4. In tempi recenti, in Germania ed in
Francia, sono state avanzate delle proposte molto interessanti, finalmente all’
altezza della crisi che si è aperta in Europa. Intendo con ciò la proposta del Sachverständigenrat del governo tedesco per un fondo di redenzione
dei debiti sovrani, il documento del Gruppo die Glienicke ”Verso un’ unione
politica dei Paesi dell’ eurozona” (1), che ha innescato
interessanti prese di posizione in Francia come quelle dei ‘pikettyani’(2)
e del Gruppo Eiffel(3). Ma anche in Italia non sono mancate
proposte, come quella degli Euro project
bonds di Quadrio Curzio e Prodi. Ora si aggiungono le idee di Zingales, che
ben si sposano con una parte delle tesi del Gruppo di Glienicke. È auspicabile
che le fonti di queste proposte si mettano in contatto e inizino ad interagire,
meglio ancora a collaborare. Anche noi di Volta La Carta!! - nel nostro piccolo
- dovremmo renderci utili, magari organizzando a Heidelberg un incontro tra
esponenti dei gruppi che si sono formati e promotori singoli di soluzioni
europeiste.
Heidelberg, 30 luglio 2014
Beppe Vandai
per
1 )
http://www.glienickergruppe.eu/
2 )
3 )
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