( A )
Il libro di
PikettyLe Capital au XXI° siécle, uscito
presso l’ editore Seuil di Parigi nel settembre del 2013, è frutto di una lunga
gestazione. Il suo autore ha infatti iniziato circa 15 anni fa ad occuparsi della
distribuzione dei redditisul lungo periodo. Dapprima ha studiato la Francia, ma
poi, cammin facendo, ha trovato sodali in altri economisti, quali Atkinson,
Saez, Leigh, Vaell eccetera. Così lo studio si è esteso alla Gran Bretagna,
agli USA, alla Germania, all’ Olanda, per poi abbracciare tutti i paesi
industriali ed i principali paesi emergenti.
Non disponendo
di un’adeguata documentazione, e notando notevoli lacune anche per il passato, Piketty
& Co., una volta stabiliti criteri di raccolta e classificazione, hanno selezionatoun’
imponente quantità di materiale da interpretare. Un materiale, che secondol’
autore, consente ormai un’ analisi esaustiva e precise conclusioni.
La raccolta ha
riguardato soprattutto questi gruppi tematici:
- sviluppo della crescita economica e demografica, viste in parallelo,
- andamento dell’ accumulazione del capitale,
- distribuzione tra redditi da capitale e redditi da lavoro,
- distribuzione interna ai redditi da capitale e distribuzione interna ai redditi da lavoro.
I paesi studiati
in modo particolare, in quanto offrivano dati più completi e di più lungo
periodo, sono stati: la Francia, la Gran Bretagna e gli USA. Ma, pur con
lacune, sono stati considerati con grande attenzione anche il Giappone la
Germania, l’ Italia, il Canada, l’ Australia. Non mancano però anche dati di
organizzazioni internazionali come il FMI e l’ OCSE.
Il Capital au XXI° siècle,pur essendo un
‘malloppone’ di 950 pagine, è scritto per un vasto pubblico, anche di non
addetti ai lavori. Pensato per ampi settori dell’ opinione pubblica e per
incidere anche sulle élites politiche, è scritto in modo piano e scorrevole. Molti
dati sono scorporati per non interrompere ed appesantire la lettura e, postati
in internet, sono accessibili a tutti.Pochissime lenote e minima labibliografia.
L’ autore fa grande uso di grafici e riduce al minimo le formule.Parsimoniosi i
rinvii a studi precedenti. Semplici e chiare lesintesi di importanti autori del
pensiero economico. Molto chiara anche la struttura del libro.Sorprendono poi i
riferimenti a testi letterari, per dimostrare come autori quali Balzac, Jane
Austen e Henry James fossero ben al corrente della realtà economica e sociale
del loro tempo. Così il discorso si fa più vivace e più plastico.
LeCapital si compone di una lunga introduzione (da non
saltare) e di 4 parti.
Nell’
INTRODUZIONE Piketty pone le prime basi per studiare il rapporto tra l’ accumulazione
del capitale ed i redditi.Nel cuore dell’ economia capitalistica‘lavorano’ due
forze di base contrastanti, quanto alla distribuzione della ricchezza. La forza
della divergenza: l’ accumulazione del capitale. La forza della convergenza: la
crescita economica.
Nella PRIMA
PARTE l’ autore spiega che cos’ è il reddito nazionale e studial’ andamento a
grandi linee dell’ accumulazione del capitale ed il suo impatto sui redditi. Traccia
anche le grandi linee – in un arco di tempo lunghissimo – dello sviluppo della
produzione nel mondo. Si occupa molto anche della crescita, nelle sue due
componenti: quella tecnologica e quella demografica.
La SECONDA PARTE
studia come si è accumulato e si accumula il capitale, per poi approfondire ulteriormente
il formarsi del coefficiente del capitale (il rapporto tra stock di capitalee reddito
nazionale) e l’ impatto che ha sui redditi. Di particolare interesse è il
rapportotra la quota dei redditi da capitale e quella dei redditi da lavoro.
Piketty spiega come sta avvenendo il ‘grande ritorno’ del capitale a partire
dall’ inizio degli anni ottanta del secolo scorso e perché la quota dei redditi
da capitale sta fortemente aumentando a discapito di quella dei redditi da
lavoro.
Nella TERZA
PARTE Piketty si occupa della dinamica delle diseguaglianze economiche. All’
aumentata sperequazione tra redditi da capitale e redditi da lavoro si è
aggiunta nei decenni scorsi una crescente sperequazione interna ai redditi da
lavoro. Il risultato congiunto delle due tendenze è la forte concentrazione di
patrimonio e di reddito annuo in relativamente poche mani.Nessuna delle due
tendenze èper l’ autore giustificata da meriti particolari. Le due tendenze
sono piuttosto il frutto del liberismo sfrenato, del laissez faire. Preoccupanti
livelli di guardia sarebberoormai stati raggiunti.
La PARTE QUARTA
è dedicata alle possibili soluzioni. Piketty propone il ritorno ad una
tassazione fortemente progressiva sui redditi (sia da capitale che da lavoro),
sui patrimoni e sul loro passaggio generazionale. Non solo. Propone anche una
tassazione sul capitale produttivo unica o armonizzata tra tutti i principali
paesi industrializzati. Altre proposte: scambio di informazioni bancarie tra
gli stati, chiusura dei paradisi fiscali.
( B )
Come dicevamo,
il libro è uno studio molto documentato sulla distribuzione della ricchezza e
sulle sue diseguaglianze. Questo già lo distingue dal meanstream delle ricerche economiche degli ultimi decenni e lo avvicina
piuttosto ai classici dell’ economia, da A. Smith, a Ricardo, a Sismondi, a
Marx, a Keynes: tutti autori per i quali la formazione e la distribuzione della
ricchezza nazionale stavano al centro della ricerca economica.
Ma in che
consiste la specificità del testo di Piketty? Direi, nel cercare di individuare
la ‘meccanica’ dell’ impatto dell’accumulazione capitalistica sul reddito
nazionale e sulla sua distribuzione. E questo sul lungo e lunghissimo
periodo. L’ autore infatti stabilisce raffronti anche con fasi storiche
precapitalistiche e proto-capitalistiche.Non solo è impressionante lo spessore
empirico del libro, ma anche la volontà di inserire lo studio economico nella
storia e nella politica più in generale. Questo approccio permette a Piketty di
distinguere tra i fattori endogeni, interni alla dinamica economica, ed i
fattori esogeni, cioè gli influssi politici, bellici e culturali sull’ economia
stessa.
Ad esempio, l’
accumulazione del capitale ha avuto una lunga fase caratterizzata da un basso
coefficiente rispetto al reddito nazionale. Questa fasesi aprì con lo scoppio
della I° guerra mondiale e proseguì con leinflazioni post-belliche, con il
crollo del mercato azionario del ‘29, con le politiche keynesiane
antidepressive, con la II° guerra mondiale e la ripresa delle politiche
redistributive di tipo keynesiano. In soldoni: dal 1914 alla fine degli anni
settanta del secolo scorso, il coefficiente del capitale [ ricordo: il rapporto
quantitativo tra lo stock di capitale accumulato e l’ insieme del reddito
nazionale ] sceseenormemente per quasi tutti i paesi più industrializzati. Se
consideriamonella fattispecie il periodo 1914 – 1950,quel coefficiente passò in
Gran Bretagna, Francia e USA, grosso mododa 7 a 3. In Germania addiritturascese da 6,5 a 1,6.Il
motivo è evidente: le rovinosissime guerre non solo portarono ovunque morte, distruzioni
e miseria, ma distrussero enormi stock di capitale. E, volenti o nolenti, gli
strati più ricchi della popolazione furono chiamati a pagare il riequilibrio
dei conti. Di più.Precise scelte a livello macroeconomico, comel’ interventismo
fiscale dello stato e il rafforzamento delle relazioni commerciali, stimolarono
fortemente la crescita economica e portarono ad unadistribuzione più equa dei
redditi.
Che ci dice
tutto questo? Che le ‘perequazioni’ intra- e postbelliche sono completamente da
addebitare a fattori esogeni, che nulla hanno a che fare con la dinamica spontanea
dell’ economia capitalistica.
Piketty può
allora giungere a correggere l’ interpretazione finora corrente, che risale a
studi di Kuznets ( di metà degli anni ’50 ), secondo cui il coefficiente di
capitale si sarebbe stabilizzato su livelli abbastanza bassi (da 3 a 4) e che
sarebbe rimasto sempre a questi livelli. Piketty dimostra invece che quel
coefficiente è risalito dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, che
ora varia tra 5 e 6 e che la tendenza – se niente cambierà – lo porterà abbastanza
presto verso 7, cioè ai livelli dell’ inizio del XX° secolo. Ecco svelato perché
il libro si intitola Le Capital au XXI°
siècle.A poco più di un secolo di distanza il vecchio coefficiente del
capitale sta tornando ad essere quello nuovo. Questo è forse il risultato
scientifico più incontrovertibile del libro di Piketty, su cui i critici dell’
ideale asse Manchester-Chicago avranno da provare la bontà dei loro denti.
( C )
Ma come può l’autore arrivare a stabilire
raffronti di lungo e lunghissimo periodo? Grazie ad una mossa ben precisa. Dà
una definizione ‘debole’ di K (capitale), secondo la quale il capitale
non è solo l’ asse portante nella produzione di beni e servizi (in quantosia
input che output della produzione) ma coincide con qualsiasi forma di
patrimonio accumulata. Ad es. Piketty scrive a pag. 89: “Le
capital est un stock. Il correspond à la quantité totale des richesses
possédées à un point donné du temps. Ce stock provient des richesses
appropriées ou accumulées au cours de toutes les années passées”. Non solo
fabbriche, macchinari, uffici, giacenze o liquidità di un’ impresa ne fanno
parte, ma anche l’ intero patrimonio edilizio, le barche all’ ormeggio a
Portofino, ma anche a Rimini, titoli di stato detenuti da privati, azioni,
terreni messi a frutto e non, e via dicendo. Insomma il capitale è ben più
diffuso di quanto di solito si pensi.
Per Piketty il
capitale è qualsiasi stock di patrimonio accumulato. Che si tratti di un pezzo
di terra, di un buono del tesoro, di un’ abitazione o altro, anche queste forme
di patrimonio, anche se non detenute da un’ impresa capitalistica o da una
banca sono capitale tout court. Ma perché? Per il semplice fatto che sono sia
riserva di valore che fattoreproduttivo, o sonotrasformabili in fattori
produttivi. Ad esempio: tutto il patrimonio edilizio, anche usato dai privati,
offre un servizio indiretto alla produzione. Di più: essendo scambiabile, come
ogni stock di capitale, può assumere in via di principio qualsiasi altra forma.
Dal capitale (K)
va inveceescluso il capitale umano, per il semplice motivo che questo,
sebbene sia un bene ineludibile per il capitalismo, non può essere oggetto di scambio
sul mercato.
Guardando le
cose nel complesso, il CAPITALE (ovvero PATRIMONIO) NAZIONALE è il valore
totale, stimato ai prezzi di mercato, e che può essere scambiato,
posseduto dall’ insieme del residentidi un paese, in un certo momento.
Quindi il patrimonio (ovvero capitale) nazionale è uguale alla somma del
patrimonio privatoe del patrimonio pubblico.
È costituito da
ATTIVI REALI (vedi abitazioni, terreni, edifici produttivi, macchine, brevetti
ecc.) e da ATTIVI FINANZIARIE (conti bancari, obbligazioni, azioni,
assicurazioni sulla vita, fondi pensione ecc.).
Non è affatto
inutile distinguere però i 3 settori detentori di capitale:
a ) il capitale privato produttivo di beni
e di servizi di chi opera direttamente sul mercato,
b ) il capitale pubblico,
c ) il capitale privato che funge
principalmente da riserva di valore e fonte di reddito delle famiglie.
A
questo punto possiamo già capire cos’ è il coefficiente del capitale e qual’ è
il suo ruolo nella dinamica dell’ economia capitalistica? Non ancora. Ora
dobbiamo chiarire che cos’ è il reddito nazionale annuo di un determinato
paese.
Il
REDDITO NAZIONALE ANNUO [che abbreviamo con “RNA”, mentre per lo più viene indicato
nella letteratura economica con“Y” ] altro non è che il PRODOTTO INTERNO NETTO[l’
arcinoto PIL, detratto l’ ammortamento del capitale] + il REDDITO NAZIONALE
PROVENIENTE DALL’ ESTERO [ad esempio dalle filiali estere di ditte di un certo
paese].
Con il PIL
[prodotto interno lordo]gli economisti intendono l’ insieme dei beni e dei
servizi prodotti e scambiati in un anno sul territorio di un paese. Ci sono
diversi modi per calcolarlo. Qui non ci addentriamo però in quello che è un
vero ginepraio.
L’ importante
per noi è capire – e su questo Piketty insiste spesso – che il RNA , come del resto
qualsiasi tipo di reddito anche individuale, è un flusso che in parte
viene speso per soddisfare consumi ed in parte risparmiato.Altrettanto
importante è distinguere il fatto che,mentreogni reddito è un flusso, il
capitale è uno stock accumulato (cioè una potenza con sue caratteristiche
proprie). Questa potenza si forma ovviamente da uno o più flussie dà pure
origine, a sua volta, a dei flussi
economici.Fra poco capiremo meglio anche questo aspetto.
L’ ultima cosa
da aggiungere è per ora questa: le due voci costitutive del RNA sono:
a ) i REDDITI DA LAVORO [salari
diretti o differiti, onorari, premi di produzione, trattamenti di fine lavoro,
buone-uscite]
b ) i REDDITI DA CAPITALE [profitti,
dividendi, interessi, affitti, royalty ecc.].
Piketty anticipa
a pagina 91 e 92 del libro un dato medio, approssimativo, che risulterà chiaro
in tutta la sua portata solo nella seconda parte del libro, ma utile fin dall’
inizio ad orientare il lettore: nei paesi ricchi, nel 2010, ogni abitante aveva
all’ incirca e mediamente un reddito annuale di € 30.000 e possedeva un
capitale di € 180.000, per metà investito in immobili e per l’ altra metà in
capitale finanziario. Il rapporto CAPITALENAZIONALE / RNA [ per Piketty:
“beta”, nominabile altrimenti con “KK” ovvero “coefficiente del capitale”] è
cioè all’ incirca 6 : 1. [ Dunque: beta
= 6 ].
( D )
Finoraabbiamo messo
nel carniere molti concetti necessari per capire quella che per Piketty è la
formula fondamentale del capitalismo. Dobbiamo però ancora capire il ruolo che
giocano due altri fattori: la crescita [che Piketty simbolizza con“g”] e il
risparmio.
La CRESCITA altro
non è che l’ aumento del reddito nazionale di un paese per un certo periodo.
Viene di solito misurata di anno in anno, quale percentuale di incremento
(o decremento – nel caso ci sia decrescita ) rispetto al RNA dell’ anno
precedente. Piketty usa il simbolo “g” (abbreviazione dell’ inglese “growth“) per riferirsi alla crescita e
segnalare così quale misura va data al mutamento annuale della ricchezza
scambiata. È bene ribadire che con “g” abbiamo a che fare con un flusso.
Piketty si
occupa a lungo del concetto di crescita per sottolineare questo:
a ) la crescita del reddito pro capite è
un fenomeno che irrompe nella storia soprattutto con il capitalismo; prima di
questo, la grande rivoluzione produttiva fu l’agricoltura e la sua diffusione;
nell’ epoca strettamente agricola quasi solo l’ aumento di occupati poteva
produrre crescita economica di una società;
b ) la crescita non coincide
necessariamente con il possesso di sempre più beni materiali, ma in gran parte
significa l’ accesso di sempre maggiori strati della popolazione a certi beni, o
coincide con il fatto che occorre meno quantità di lavoro per possederli;
spesso si tratta di beni materiali assai importanti, come il possesso della
propria abitazione, o la possibilità di disporre di risparmi o di riserve di
beni di consumo vitali; la crescita è anche stata la premessa necessaria per
usufruire dell’ assistenza sanitaria, per ottenere la pensione e via dicendo.
A partire dalla
rivoluzione industriale, i due fattori principali della crescita sono stati:
a ) lo sviluppo della scienza e della
tecnica e
b ) la spinta demografica ( sia in termini
assoluti che in termini di inurbamento ).
Solo con il sistema di produzione
capitalistico si è avuta una considerevole crescita di ricchezza pro capite,
dovuta all’ applicazione della scienza alle tecniche e alla creazione e
sviluppo di nuovi prodotti tecnologici.Questo non toglie comunque che la spinta
demografica sia stato un fattore decisivo. Un fattore, a sua volta ampiamente
condizionato e reso possibile dalla scienza stessa. L´allungamento della vita,
la drastica diminuzione della mortalità infantile, l’ aumento della produzione
di derrate alimentari, il trasferimento di grandi masse dalle campagne alle
città, o attorno ad esse, dove siinsediava l’ industria: tutto ciò ha dato un
enorme impulso alla crescita.
Nella
tabella 2.1 – a pagina 127 del libro – Piketty riassume i dati dello sviluppo
della produzione mondiale sul lungo periodo.
i ) Tra il 1700 ed il 1820 la crescita media
della produzione fu dello 0,5% annuo, a fronte di un aumento della popolazione
mondiale dello 0,4%. La produzione per abitante crebbe dello 0,1%.
ii )Tra il 1820 ed il 1923 la crescita
media della produzione mondiale fu dell’ 1,5%. La popolazione aumentò dello
0,6%. La produzione pro capite crebbe dello 0,9%.
iii ) Dal 1913 al 2012 la produzione
mondiale è cresciuta mediamente poco più del 3% ( a parte il picco intermedio
degli anni ’60 che raggiunse quasi il 4%). La popolazione è aumentata dell’
1,4%. L’ aumento di produzione pro capite si è assestato sull’ 1,6%.
Rimarchevoli le performance del secondo
periodo, ma del tutto eccezionali quelle del terzo.
Nell’
insieme, in ogni periodo storico, la crescita è il grande fattore di
convergenza tra i redditi. Non che con la crescita si smorzi il processo di
accumulazione del capitale. Piuttosto, la crescita fa da contrappeso a quel
fenomeno. Fra un poco capiremo meglio anche il perché. In ogni caso, un po’ tutte
le classi approfittano dell’ aumento del flusso di ricchezza con la forte
crescita economica innescata dal sistema capitalistico. Nuove classi accedono per
la prima volta, o in maggior misura, a certi prodotti o servizi.Anche il
risparmio può aumentare e diventare un fenomeno diffuso.
Guardando
al futuro, che previsioni fa Piketty? Nel grafico 10.9 a pag. 562 prevede un
indebolimento della crescita, soprattutto per via della stabilizzazione
demografica. Il tasso di crescita annuale dovrebbe scendere nel periodo 2012–2050
a circa il 3% e calare ulteriormente nella seconda metà del secolo XXI° verso l’ 1,5%, riportandosi così ai livelli
della seconda metà del XIX° secolo. È ovvio che queste previsioni rimangono
azzardate, non potendo prevedere gli sviluppi scientifici e tecnologici del
tempo a venire. È comunque importante che, basandosi sulla stasi demografica,
facilmente prevedibile, non si diano per scontati i livelli di crescita della
seconda metà del ‘900.
( E )
E del risparmio
– che Piketty simbolizza con la lettera “s” (dall’ inglese “saving”) – che possiamo dire? In modo
lapidario: il risparmio è la rinuncia a dei consumi, èaccantonamento di reddito,è
quella parte del flusso economico che si cristallizza. È dunque la fonte dell’
investimento economico ed il motore dell’ accumulazione del capitale.
Il risparmio occupa
evidentemente un ganglio strategico, anzi è una conditio sine qua non dello sviluppo capitalistico e come tale va
tenuto d’ occhio. È anche una forza che tende a mantenersi a livelli stabili,
una potenza che cerca di amministrarsi sul lungo periodo. Non è dunque un caso
che (s) sia un fattore relativamente stabile, da gestire con oculatezza La
curva di (s) non si muove lungo picchi aguzzi, ha un andamento fluente, casomai
sinusoidale.
Con un basso di
tasso di crescita o con una decrescita è ovviamente più difficile risparmiare,
ma è di massima importanza farlo, per non rischiare in futuro ancora di più. Le
cose stanno all’ opposto con alti tassi di crescita. Ciò non toglie che, data
un certa congiuntura, il risparmio deve funzionare come una camera di
compensazione.
Per tutti questi
motivi i livelli di risparmio – anche per periodi storici lunghi – si
mantengono per lo più in una banda di variazione dal 10% al 20% del reddito
nazionale annuo. Come poi si dislochino dal punto di vista quantitativo i
risparmi, in quali settori, quali siano le rendite previste del risparmio
accumulato (cioè del capitale) varia poi da fase a fase.
( F )
Ora
possediamo tutti gli elementi per esporre con cognizione di causa quella che per
Piketty è la legge che regola la dinamica interna del capitalismo. La introduce a pag. 262 chiamandola, per un motivo tecnico-espositivo
che qui non ci interessa: “La deuxième
loi fondamentale du capitalisme”.
La
formula suona così: beta = s / g. In
parole: il coefficiente del capitale è uguale al rapporto tra il tasso di
risparmio ed il tasso di crescita. Come primo approccio potremmo anche dire: il
coefficiente del capitale è direttamente proporzionale al tasso di risparmio ed
inversamente proporzionale al tasso di crescita.
L´importante
è che ci rendiamo conto che tutt’ e tre le grandezze dell’ equazione sono dei
rapporti(cioè delle frazioni)e non delle grandezze assolute (dei numeri
naturali). (beta) è il rapporto tra lo stock di capitale accumulato nel tempo
ed il RNA di riferimento. (s) è il rapporto tra il flusso di risparmio di un certo
anno e il RNA di riferimento (dell’ anno precedente).(g) è infine il rapporto
tra il surplus di reddito di un determinato anno ed il RNA dell´anno di
riferimento.
Due
cose vanno messe in rilevo: * in tutt’ e tre i rapporti compare, al denominatore,
lo stesso tipo di grandezza: RNA; ciò rende omogenei a loro volta i tre
rapporti; **(beta) è la relazione quantitativa tra uno stock ed un
flusso, (s) e (g) sono invece relazioni quantitativetra due
flussi.
Partiamo
dal fatto che tutt’ e tre le grandezze vengono espresse in percentuale rispetto
al RNA. È innanzitutto chiaro che il primo membro dell’ equazione – cioè (beta)
– è determinato univocamente una volta che si conoscano i due rapporti
collocati nel secondo membro dell’ equazione, cioè (s) e (g). Se ad esempio (s)
ha il valore del 15% e (g) il valore del 3%, allora (beta) – su un periodo sufficientemente
lungo – assumerà il valore 5. In altre parole: * il coefficiente di capitale
sarà di 5 ovvero ** il capitale accumulatoammonterà al 500% del RNA.
La
formula usata da Piketty, che non è stata ‘scoperta’ da lui, ma viene
abbondantemente usata già nella letteratura economica - anche se con altri
simboli - almeno dagli anni cinquanta del secolo scorso, non rende però esattamente
conto dal punto di vista formale del complesso di cose che vuole rappresentare
e calcolare. Per essere più precisi, nella seconda parte della formula dovrebbe
comparire una lunga sommatoria di elementi, corrispondenti ad una serie di
annate.
A parte il
formalismo, è decisivo capire che il coefficiente di capitale – come è giusto
che sia, visto che il capitale è uno stock e non un flusso – si forma nel tempo,
per accumulazione, in ragione del rapporto tra il flusso del risparmio ed il
flusso del reddito.
Parimenti
decisivo è capire come ‘lavorano’ i due membri della seconda parte
dell’equazione. (s)è ‘alimentato’ da RNA [e quindi pure da (g)], ma ‘alimenta’
il capitale [il numeratore di (beta)].(g) invece tiene più o meno
alto, accresce o meno, il flusso globale del reddito [il denominatore
di (beta)]. Detto in modo meno criptico: maggiore è la crescita, maggiore
diventa RNA e più lentamente e meno massicciamente aumenta il coefficiente del
capitale. Più debole è la crescita, più rapidamente aumenterà (beta).
Se ad esempio,
in un ipotetico paese, nell’ anno zero, lo stock di capitale è di € 1.000 e il reddito nazionale annuo è pure di €
1.000; se il risparmio raccoglie regolarmente, di anno in anno, il 15% del
reddito nazionale; se invece questo cresce annualmente del 3%,; allora dopo 10
anni il numeratore di (beta) sarà di € 2.659,58, mentre il denominatore sarà di
€ 1.343,92. Pertanto il coefficiente del capitale accumulato non sarà più 1, ma
bensì di circa 1,98. Un aumento di tutto rispetto.
Ora possiamo
capire pienamente perché una forte crescita economica attenua il coefficiente del
capitale, così comeallunga i tempi di accumulazionedel capitale in rapporto al
reddito nazionale. La fase d’oro della crescita per i paesi più sviluppati si
ebbe tra gli anni ´50 e gli anni ´70 – sia per ragioni tecnologiche che
demografiche. Se a questo si aggiunge che quella fu una fase di politiche
fiscali redistributive e di rafforzamento del welfare, possiamo ben capire come
il coefficiente di capitale, allora, si stabilizzò su valori abbastanza bassi.
Il che fece pensare a molti economisti che questo sarebbe stato il trend
definitivo del capitalismo.
Ma da allora
molte cose sono cambiate. La crescita demografica si è fatta via via più
debole, fino ai giorni nostri, giorni in cui, almeno in Europa, ad eccezione
della Francia, siamo alle prese con una decrescita demografica. Sappiamo
inoltre che con la svolta liberista degli anni ’80 – dovuta in parte alle
difficoltà a sostenere il welfare, in parte ad ideologia e a interessi di
classe – le cose sono radicalmente cambiate. Il tasso di accumulazione del
risparmio è stato, come al solito, relativamente alto, la crescita si è
indebolita, le politiche fiscali hanno infine assecondato l’ accumulazione della
ricchezza in strati abbastanza ristretti della popolazione. Ergo: il
coefficiente del capitale ha ripreso a crescere fortemente ed è destinato a
raggiungere presto, se nulla cambierà, i livelli raggiunti dai paesi europei
più sviluppati durante la Belle Époque.
Solo una forte
rivoluzione tecnologica potrebbe rimescolare la carte a favore della crescita
del reddito nazionale. Ma questa non è programmabile e mai si può prevedere in
anticipo che impatto economico avranno le svolte scientifiche e tecnologiche.
( G )
È ora tempo di
ponderare anche un effetto automatico che la crescita del coefficiente del
capitale (beta) porta con sé, ogni anno, sulla distribuzione del reddito
nazionale. Qui il conto è semplicissimo e viene riassunto in quella che Piketty
chiama“La première loi fondamentale du
capitalisme”[ vedi pp. 92 – 98 ]. È
una formula semplicissima, ben più facile da capire dell’ altra,e suona così: alfa = beta x r .
Con “r“ si
intende il tasso annuo di rendita del capitale e con “alfa“ la quota di reddito
da capitale annua di un’ economia nazionale. Mi spiego con un esempio. Se nella
nazione Pincopallino il coefficiente (beta) è pari a 6 ed il tasso medio annuo
delle rendita del capitale è del 5%, allora la quota di reddito da capitale
annuaè necessariamente pari al 30% del reddito nazionale annuo di quella
nazione. Questa informazione non è di poco rilievo perché così sappiamo anche
quale sarà la quota totale dei redditi da lavoro: il 70% del reddito nazionale
di Pincopallino.
Visto che la
quota (alfa) è il prodotto di una grandezza formatasi nel lungo periodo, quale
è il coefficiente del capitale (beta), si può ben capire che anche la quota
globale dei redditi da lavoro avrà una notevole vischiosità, cioè faticherà
moltissimo ad aumentare. E di nuovo, solo una crescita indotta da salti
tecnologici, da aumento demografico o dal combinato dei due fattori, potrebbe
far risalire la quota dei redditi da lavoro.
Piketty rileva
anche che il rendimento medio del capitale si è assestato – sul lungo periodo –
nei paesi più industrializzati – attorno al 5%. Con punte alte del 7% - 8% per
le azioni, e punte basse del 3% - 4% per le obbligazioni e la rendita
immobiliare [ vedi pag. 94 ].
Dato poi che il
tasso medio di rendita del capitale è sempre e sicuramente superiore al tasso
di crescita del reddito nazionale nel suo complesso, ecco perché è facile
prevedere che la quota dei redditi da capitale, se nulla cambierà a livello
macroeconomico, aumenterà ulteriormente rispetto alla quota dei redditi da
lavoro.
( H )
Piketty, una
volta giunto a queste conclusioni, documenta abbondantemente nella terza parte
del libro [ da pag. 375 a pag. 748 ] come si è sviluppata la distribuzione tra
i redditi su periodi molto lunghi. A noi interessano, per il discorso che
stiamo facendo, soprattutto gli ultimi 100 anni. I grafici elaborati da Piketty
e la sua équipe mostrano come il livello di ricchezza detenuto dal decimo
più ricco della popolazione si sia sviluppato grosso modo in questo modo:una
partepercentualmente molto alta del reddito nazionale all’ inizio, una discesa
di questa quota nel secondo periodo, una fase abbastanza lunga in cui questa
quota si è mantenuta relativamente bassa, infine una risalitamoderatanel
periodo a noi più vicinonei paesi dell’ Europa continentale e in quelli
scandinavi, invece una chiara e forte risalita negli USA e in GB. Questo vale
sia per la distribuzione del capitale che per la distribuzione del reddito
nazionale annuo.
La prima
importante informazione è questa:le diseguaglianze sono molto più accentuate
nella distribuzione del capitale che in quella dei redditi in generale ed
ancora di più che in quella dei redditi da lavoro.
Per dare un’
idea di quali ordini di grandezza sono in gioco, Piketty scrive a pag. 386:
“(…) la part des 10% des personnes recevant le revenu (reddito) du travail le
plus élevé est généralement de l’ ordre de 25%-30% du total des revenus du
travail, alors que la part des 10% des personnes détenant le patrimoine le plus
élevé est toujours supéreure à 50% du total des patrimoines, et monte parfois
jusqu’ à 90% dans certaines sociétés [ qui il riferimento implicito è all’
inizio del XX° secolo ] ”.
Ma diamo ancorala
parola a Piketty. A
pag. 385 scrive: “(…) l’ inegalité face au capital est toujours beaucoup plus
forte que l’ inegalté face au travail. La répartition de la proprieté du
capital et des revenus (redditi) qui en
sont issus (ricavati) est systématiquement beaucoup plus concentrée que la
répartition des revenus du travail.” A pag. 405 si esprime così: “ À ma connaisance, il n’ existe aucune société,
à aucune époque, où l’ on observe une répartition de la propriété du capital
qui puisse raisonnablement être qualifiée de ‘faiblement’ inégalitaire (…) où
la moitié la plus pauvre de la société posséderait une partie significative –
par exemple, un cinquième ou un quart – du patrimoin total ”.
Se si escludono
i tentativi di socialismo reale, per i quali non si dispongono di dati
affidabili e che comunque non sono di certo un buon esempio di come si possano
ridurre le diseguaglianze salvando gli impulsi economici, scientifici e
tecnologici verso la crescita di un benessere materiale diffuso, i paesi finora
più egualitari sono stati i paesi scandinavi nel decennio 1970 – 1980.Ebbene,
anche lì, in quel periodo, più del 50% dello stock di capitale nazionale era
concentrato nelle mani del decimo della popolazione più ricco. Nel 2010 in
paesi come la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’ Italia, il decimo più
ricco della popolazione detiene poco più del 60% dell’ intero patrimonio
nazionale. Ma la cosa che più colpisce, scrive Piketty, è che il 50% più povero
della popolazione possiede generalmente anche meno del 5% del capitale
accumulato.
Ad esempio,
nella Francia del 2010/2011 il decimo più ricco deteneva il 62%, mentre al 50%
più povero rimaneva un magro 4%. Negli USA, sempre in questo periodo, il decimo
superiore deteneva il 72% del capitale, mentre il 50% più povero un ancor più
magro 2%[ vedi pag. 404 ]. Ma anche all’ interno del decimo più ricco non
mancano le diseguaglianze. In Francia, di quel 62% di cui abbiamo appena
parlato, la quota accaparrata dal centesimo più ricco era di circa il 23% dell’
intero capitale nazionale. Affinché il quadro sia più completo, ecco come
stavano le cose nel 2010/2011 altrove. In Gran Bretagna: il decimo più ricco
possedeva il 70% del capitale nazionale, il centesimo più ricco il 29%. In
Svezia: il 59% era appannaggio del decimo, mentre il 21% del centesimo più
ricco. Negli USA: il 72% era in mano al decimo, invece il 32% al centesimo più
ricco. [Vedi grafici 10.1, 10.3, 10.4, 10.5 ].
Non voglio
dilungarmi troppo sulle sperequazioni a livello dei redditi in generale ed in
quelli da lavoro dipendente. Alcuni accenni meritano però di essere fatti alle
conclusioni a cui giunge Piketty. Anche per il decimo più alto dei redditi si
nota che la parte prevalente del reddito annuo proviene dal capitale. E questo
fenomeno si accentua enormemente per il centesimo più ricco della popolazione. Una
sola eccezione a questa regola si nota negli ultimi 20 / 30 anni: la comparsa
di onorari altissimi per i manager dell’ industria e della finanza. Qui Piketty
rileva che non c’ è nessuna correlazione che giustifichi certi livelli di
reddito con la performance effettiva delle imprese guidate da questi nuovi
nababbi.
Due le
conclusioni a cui giunge l’ autore. È ancor più importante tassare in modo
fortemente progressivo e continuativo sia i patrimoni che
gli stipendi alti. Anche i passaggi di patrimonio vanno tassati in modo
sostanzioso e progressivo. Unica eccezione per gli stipendi: le remunerazioni
stratosferiche dei ‘super-manager’. In tal caso Piketty propone, a partire da
una certa soglia, tassazioni dell’ 80% di questi redditi.
Nell’ insieme
Piketty fa notare che se le cose non muteranno, verso il 2030 i livelli di
diseguaglianza nella ricchezza, in paesi come gli USA o la Gran Bretagna,
saranno gli stessi del 1910. Anche per i paesi dell’ Europa continentale si
nota un’ aumento delle sperequazioni economiche, anche se meno accentuato.
La tendenza è, a suo avviso, assai
preoccupante.Piketty lancia perciò l’ allarme e propone, nella quarta parte di Le Capital au XXI° siècle[da pag. 749 a
pag. 950 ] di mettere mano allo strumentario fiscale già ampiamente
sperimentato inpassato e di adeguarlo allo stato attuale della globalizzazione
del capitale finanziario.Anche su ciò non mi dilungo. Mi limito ad elencare una
serie di misure che lui propone:
a ) forte tassazione progressiva
dei redditi (sia da lavoro che da capitale) su vasta scala (globale o
per grandi regioni),
b ) introduzione di tasse patrimoniali
progressive (anche fortemente progressive) stabili, sempre su vasta scala,
c ) forte tassazione progressiva e su
vasta scala sulle successioni patrimoniali,
c ) chiusura dei paradisi fiscali,
d ) armonizzazione globale (o per
grandi regioni) delle tasse sulla produzione, mettendo fine al dumping
fiscale tra le nazioni,
e ) messa a punto di sistemi di
controllo e di raccolta dati sui flussi dei capitali, da scambiare tra
le autorità nazionali. Massima trasparenza in tutto questo.
( I )
Le ultime cose
che vorrei estrarre dal libro di Piketty riguardano:a ) il rapporto quantitativo
che intercorre tra capitale pubblico e capitale privato, eb ) il coefficiente
del capitale privato – cioè (beta) – nei paesi più industrializzati. Anche da ciò
è possibile vedere in controluce il profilo di un paese.
Quanto al primo
rapporto ci si può sbrigare in fretta. Lo stock di capitale pubblico è minimo
per quasi tutti quei paesi, mentre per alcuni è addirittura negativo. Il fatto
si spiega con i debiti pubblici accumulati negli ultimi decenni. Se ad esempio il
coefficiente (beta) del patrimonio pubblico è di 1,1 (ovvero 110%)rispetto
al RNA, ma il debito pubblico è dell’ 80% del RNA, il coefficiente sarà positivo
solo dello 0,3.
A pag. 201
Piketty riassume nella tabella 3.1 lo stato della ricchezza pubblica e di
quella privata in Francia per l’anno
2012. Il capitale nazionale (pubblico + privato) ammontava al 605% del RNA.
Molto istruttiva però la suddivisione: il capitale privato era pari al 574% del
RNA, mentre quello pubblico metteva sulla bilancia solo il 31% del RNA. Non che
lo stato francese si sia venduto quasi tutti gli immobili pubblici;
semplicemente va detratto dal valore del capitale pubblico francese, che
ammonta al 145% del RNA, l’ insieme dei debiti pubblici, che sono pari al 114%
del RNA. Dai dati risulta che la quota pubblica dell’ insieme del capitale
nazionale francese è solo del 5%. Il restante 95% è capitale privato. Leggermente
al di sopra della quota zero sono quasi tutti i paesi più industrializzati. Il
Canada è a zero.
L´Italia, potete
immaginarlo, è sotto lo zero. Nella nota al grafico 5.5 (a pag. 291) Piketty
non può far a meno di rilevare che in Italia il valore del capitale pubblico è
passato dal 20% del RNA nel 1970 a – 70% nel 2010. Proprio perché il debito
pubblico è cresciuto di molto.
Passiamo ora al
secondo punto. Nei grafici 5.4 e 5.5 , rispettivamente a pag. 286 e 291,
Piketty raffronta i dati di alcuni paesi. Nel primo grafico l’ andamento delle varie
curve nazionali– dal 1970 al 2010 – ci informa sul rapporto tra stock di
capitale privato e reddito annuo disponibile per le famiglie (escludendo
così la quota di reddito che rimane in mano alle imprese). Si noti che il
reddito a disposizione delle famiglie, sia per i consumi che per il risparmio,
corrisponde grosso modo al 75% / 80% dell’ intero RNA. Ebbene, se consideriamo
il periodo 1985 – 2010, quel rapporto è passato in Germania dal 380% al
520%, negli USA da circa il 400% a circa il 440%, in Gran Bretagna da circa il
400% a circa il 680%, in Francia da circa il 400% a circa il 750%, in Giappone
da circa il 620% a circa il 750%. Dulcis in fundo: in Italia da circa il 400% a
circa l’ 880%. Una bella fotografia dell’ era Craxi + Berlusconi: un vero paese
del bengodi.
Nel grafico 5.5 è
invece leggibile l’ andamento del rapporto tra stock di capitale privato e l’
intero RNA, cioè del coefficiente beta. Sempre se prendiamo in considerazione
il periodo 1985 – 2010, questo rapporto è passato in Germania dal 290%
al 400%, negli USA da circa il 320% a circa il 400%, in Gran Bretagna da circa
il 330% a circa il 520%, in Francia da circa il 310% a circa il 580%, in
Giappone da circa il 490% a circa il 600%. Ancora, dulcis in fundo: in Italia da
circa il 370% a circa il 680%.L’ aumento maggiore ed il coefficiente maggiore
tra tutti.
Ciò significa
che il capitale privato nel nostro paese in quel periodo –in termini reali ed
in rapporto alla crescita del RNA – ha avuto un tasso di crescitaannuale
composto di quasi il 2,5% l’ anno. Nel periodo 1970 – 1985il
coefficiente betaera passato da 240%
a 370% del RNA, con un tasso di incremento compostopari a circa il 3% (cioè un
tasso d’ incremento ancora superiore). Sul grafico fa impressione l’ incremento
dal 1987 al 1993: un balzo dal 380% al 580%, pari adun incremento compostodel
coefficiente del capitale di un po’ più del 7%. Un balzo simile si ebbe solo in
Giappone, dal 1985 al 1990, con la bolla immobiliare e del mercato azionario, poi
scoppiata lasciandosi dietro 20 anni di recessione-stagnazione. Da noierano
invece gli anni del craxismo, della Milano da bere, del miracolo economico
drogato dall´aumento del debito pubblico. Guardate ora come siamo messi. Sic perit gloria mundi!
Il libro di
Piketty ci fornisce anche dati parecchio interessanti sullo sviluppo sia del
denominatore del coefficiente beta [ cioè di (g), ovvero della crescita ] che
del suo numeratore [ cioè di (s), ovvero del tasso di risparmio ]. Dalla
tabella 5.1 di pag. 275 desumiamo che mentre – peril periodo 1970 – 2010 – il
tasso composto di crescita per abitante (sterilizzando cioè l’ apporto
demografico) è stato piuttosto omogeneo per i paesi più industrializzati. Le
cose non stannoinvece così per iltasso composto di risparmio. Vediamo un po’
più in dettaglio.
Negli
USA il tasso composto di crescita è stato dell’ 1,8%, in Giappone del 2%, in
Germania dell’ 1,8%, in Francia dell’ 1,7%, in Gran Bretagna dell’ 1,9%, in
Italia dell’ 1,6%. Tenendo conto della performance certamente deludente degli
ultimi 15 anni, il risultato italiano non è affatto malvagio.
Quanto al tasso
composto di risparmio invece ci sono differenze notevoli da paese a paese. La
Gran Bretagna e gli USA non sono paesi in cui si accumuli parecchio risparmio:
il tasso annuo composto britannico è del 7,3%, quello statunitense del 7,7%.
Con la Francia si sale all’ 11,1%. Ancora un po’ più alto quello tedesco: del
12,2%. I paesi leader nel tasso di risparmio sono Giappone e Italia:
rispettivamente con il 14,6% ed il 15%.
Tutti questi dati
combaciano con i differenti trend di sviluppo di beta, tenendo però conto che poi
per avere il trend effettivo, finale, di beta, vanno messe in conto le politiche
fiscali sul capitale e sui redditi, politiche differenti da paese a paese, che
hanno rimescolato abbondantemente le carte. Di più. C’ è risparmio e risparmio.
Cerchiamo dunque di differenziare un poco il quadro dei paesi.
La tabella 5.4 a
pag. 292 si occupa del rapporto quantitativo tra risparmio privato e risparmio
pubblico, sempre per il periodo 1970 – 2010. Il tasso di risparmio
nazionale è – in tutti i paesi di cui ci stiamo occupando – inferiore al tasso
di risparmio privato per via dell’ indebitamento pubblico. In altre parole: il
settore pubblico non risparmia, anzi si indebita,assorbendo in parte il risparmio
privato. Con una sola eccezione: il Giappone. In questo paese si registra, per
il quarantennio preso in esame, un minimo risparmio pubblico, pari allo 0,1% del
RNA. In tutti gli altri paesi lo stato ha aumentato il suo indebitamento, anche
se in quantità ben diverse da paese a paese.La tabellamette in relazione la
media dei tassi di risparmio annui rapportati al RNA.Ecco quanto ci dice:
Paese Tasso risp. privato Tasso risparmio pubblico
USA 7,6% –
2,4%
GIAPPONE 14,5% + 0,1%
GERMANIA 12,2% – 2,0%
FRANCIA 11,1% – 1,9%
GRAN BRET. 7,3% –
2,0%
ITALIA 15,0% –
6,5%.
Ecco messa a
nudo ancora l’ anomalia italiana: più di un terzo del risparmio che si accumula
viene investito nel finanziare il debito pubblico. Piketty stesso non può fare
a meno di metterlo in rilievo nelle pp. 291 e 292. Ma a parte questo, nella
nota a pag. 292, l’ autore fa poi questa aggiunta interessante, che vale per
tutti i paesi: i tassi di indebitamento statale sono nettamente superiori ai
tassi degli investimenti, che variano dallo 0,5% all’ 1,0% del RNA. Ciò
significa che gli stati, con l’ indebitamento, hanno in gran parte coperto le spese
correnti. Questi numericonfermano che gli stimoli statali alla crescita sono
stati estremamente fiacchi.
A pag. 279 di Le Capital c’ è un’ altra tabella
parecchio istruttiva: la n° 5.2. Vi si riporta la fetta del risparmio
privato accumulato dalle famiglie e quella accumulata dalle imprese
(i profitti reinvestiti). I dati riguardano di nuovo il periodo 1970 – 2010.
Paese Risp.
privato: famiglie Risp. privato: imprese
USA 60% 40%
GIAPPONE 47% 53%
GERMANIA 77% 23%
FRANCIA 81% 19%
GRAN BRET. 38% 62%
ITALIA 97%
3%
Non sono in
grado di valutare né spiegare in dettaglio le specificità nazionali. Questo vale anche il nostro paese.
Ciononostante balza di nuovo all’ occhio la nostra anomalia. Questi dati ci parlano
a mio avviso di tre enormi distorsioni:
a ) Il risparmio
in Italia è finito in buona parte a finanziare il debito pubblico,
disincentivando gli investimenti nel settore produttivo.
b ) Dati i buoni
e ‘sicuri’ rendimenti di questo tipo di allocazione del risparmio, ed al
contempo la crescente pressione fiscaleper tappare i buchi del debito pubblico,
pressione che ha colpito soprattutto i produttori (lavoratori dipendenti e
imprese emerse) si è innescato e foraggiato un enorme e perverso transfer di
risorse e di redditi a favore della rendita. Il risultato non poteva che essere
il depotenziamento dell’ industria e l’ impoverimento dei produttori.
c ) Un livello
tanto basso di investimenti produttivi nel settore esposto al mercato parla di
decadenza e di livelli di profitto molto bassi. Del resto con la forte pressione
fiscale, con i mille balzelli, con tasse perverse come l’ IRAP non c’ è da
aspettarsi altro. Così si spiegano, almeno in parte, due cose ulteriori: * perché
la manifattura ed i servizi privati in Italiasono notoriamente e cronicamente sottocapitalizzati
e ** la diffusione patologica del precariato.
Lasciatemi ora scivolare
sul terreno prettamente politico. Queste tabelle sono sufficienti a dimostrare
il fallimento sia del blocco craxiano e di destra, che tanto a lungo parte ha
governato il paese, che del blocco sindacale e di sinistra, che non ha saputo
imporre una politica economica realmente orientata alla crescita ed al
benessere dei lavoratori. Il combinato di una destra manigolda, custode di
tante clientele e delle grandi rendite,
e di una sinistra bizantina, gelosa custode di desuete battaglienel mondo del
lavoro eche ha difesoper decenni un transfer ingiusto di risorse verso le
pensioni,ha prodotto il disastro che conosciamo. Non datemi però ora né del
qualunquista né de grillino.
Concedetemi
anche questa conclusione. Da noi c’ è tanto da rottamare e da fare. Il nostro è
il paese ideale per fare sia riforme sul alto dell’ offerta (riduzione di
inefficienze e sprechi nella spesa pubblica, riforma della giustizia e del diritto del lavoro, riduzione
del cuneo fiscale, maggior flessibilità nel mercato del lavoro ecc.) sia dal lato
della domanda (investimenti pubblici sensati in infrastrutture, energia e
ambiente, e privati, come per la ristrutturazione del patrimonio edilizio). Ma l’
Italia mi pare pure un paese paradigmatico per una fiscalità alla Piketty, che
premi la produzione, il merito, i redditi da lavoro, gli investimenti e vada a
riprendersi risorse dalle enormi rendite accumulate, senza fare sconti né a
destra né a sinistra. In Italia è possibile un sano e razionale mix di pezzi di
liberismo alla Chicago-boys, di vero keynesismo e di ‘pikettysmo’.
Tornando a
Piketty, il suo libro non è ancora uscito in italiano, ma l’ uscita sarà certamente
un evento politico e culturale di prima grandezza. Personalmente mi auguro che
si riapra con ciò un grande dibattito sulla formazione e distribuzione della
ricchezza, un dibattito capace di ridare orientamento e di mettere in soffitta
tante posizioni ideologiche, interessate, pigre o cieche.
Heidelberg, 1 luglio 2014
Beppe Vandai
http://voltalacartaheidelberg.blogspot.de/
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