( I )
Il tratto più macroscopico,
che maggiormente colpisce, riflettendo sulle elezioni europee che si sono
appena tenute, è a mio avviso la grande disomogeneità tra le diverse aree dell’
Unione Europea. E non si tratta solo di disomogeneità economica, ma anche culturale,
di disomogeneità nel modo di sentirsi come popolo, nelle preoccupazioni principali,
nelle mentalità. Finché il progetto europeo sembrava essere un gioco cooperativo
o quantomeno un gioco in cui tutti potevano trarre dei vantaggi, le differenze
tendevano ad apparire esclusivamente una ricchezza o a sfumare sullo sfondo del
progresso comune. Ora pare invece calata una fase plumbea dell’ incomprensione
e dell’ estraneità.
Non c’ è da
stupirsi, viste le dinamiche emerse in anni recenti. Ma ora abbiamo, se
vogliamo, il referto scritto, nero su bianco. Prendiamo ne atto e facciamo
mente locale.
La Gran Bretagna
e la Danimarca sono fortemente isolazioniste e vedono l’ UE meramente come un’
area di scambio di merci e capitali che ha solo da funzionare dando a ciascuno
il suo.
La Svezia, la
Finlandia, l’ Olanda e la Germania sono orgogliose dei successi economici (anche
se per alcuni con gravi zone d’ ombra; ad esempio la Finlandia è in recessione
da circa due anni, ma sembra sempre guardare all’ UE con occhi da contabile).
Questi paesi sono solo preoccupati che i conti economici tornino secondo il
loro schema, che l’ Europa ed il proprio paese sia a tutti i costi
all´avanguardia nel processo tecnologico, quanto alla produttività ecc. Va da
sé che queste nazioni sono coralmente refrattarie ad altre politiche economiche,
per non dire arroganti verso il Sud Europa ed i suoi problemi economici.
I paesi dell’
est sono sempre tesi a recuperare a tutti i costi il terreno perduto quanto all’
ottimizzazione dell’ attività imprenditoriale, sono convinti che debbano tenere
il profilo basso nelle spese per il welfare per continuare ad attrarre investimenti
occidentali. Dimostrano una bassa cultura europeista e sembrano preoccuparsi
più della minaccia russa, vera o presunta che sia, che dell’ approfondimento di
una democrazia partecipata. Qui sono anche più evidenti e pericolose che altrove le derive
identitarie.
A Sud si tocca
con mano la rabbia per aver dovuto pagare il prezzo più alto dell’ austerità,
aldilà di propri errori strategici compiuti nel passato. Spesso si aggiunge del
rancore verso le istituzioni europee e la prepotenza tedesca. Ma sono pure
evidenti forti divergenze tra le forze politiche nazionali su come uscire dalle
gravi difficoltà. In questo contesto manca anche la necessaria lucidità su come
modificare l’ UE e l’ UEM. Ne risulta una spinta ed una credibilità finora insufficienti
per imprimere una svolta.
La Francia è in
preda ad una grave crisi d’ identità da quando ha realizzato che la partnership-leadership con
la Germania è squilibrata. La Grande
Nation è anche in preda al malumore per aver dovuto seguire le linee di
condotta dettate dalle istituzione europee egemonizzate dal partner più
potente. Non solo. La Francia è divisa e paralizzata perché nessuna delle due
ricette alternative dal punto di vista economico riesce ad imporsi e a funzionare:
a ) la proposta gollista di ridurre lo stato sociale e la spesa pubblica per
aumentare la competitività dell’ economia nazionale francese, b ) la proposta
socialista di tenersi stretto il welfare, una proposta che si è fatta via via
più flebile e balbettante constatando come i costi del welfare francese
impediscano alla Francia di tenere il passo della Germania.
I gollisti e i socialisti si aspettavano
più accondiscendenza da Berlino nel fare una politica di riequilibrio economico
(più spesa pubblica, più consumi, più mercato interno in Germania). Si erano
anche aspettati più comprensione per il fatto che il welfare francese ha alcuni
elementi dinamici per il futuro, cioè che venisse riconosciuta la sua
sostenibilità nel lungo periodo. Basti pensare ai grandi sforzi francesi per l’
educazione gratuita dell’ infanzia e della gioventù, un fattore decisivo di
integrazione, di giustizia sociale ed un grande impulso demografico e, sul
lungo periodo, alla crescita economica. Se sia più saggia Parigi o Berlino
lascio a voi giudicare.
Nello stesso tempo la classe dirigente
francese non se la sentiva (per orgoglio, per non urtare i tedeschi) di
associarsi esplicitamente alle esigenze del sud, a stringere un legame politico
per far cambiare rotta all’ UEM. Non voleva infatti finire sul banco degli
imputati.
Risultato: la Francia è un paese
‘imballato’ e balbuziente. La sua classe dirigente è parecchio screditata (in
buona parte a ragione: Hollande è una mezza calzetta, si contraddice troppo
spesso, non ha visioni // i gollisti sono stati al centro di diversi scandali
per corruzione, poi, anche se a parole sono molto vicini alla linea dell’
austerità economica, non ne sono molto convinti e sanno che raccoglierebbero
poco consenso su questa linea, sanno anche che non avrebbero nemmeno la forza
per imporla).
In più, in fase di stagnazione-recessione
il problema dell’ immigrazione africana sembra assumere tratti gravissimi. Ovviamente
ingigantiti dai reazionari. In questi frangenti le sirene identitarie, come al
solito, hanno fatto molta presa. Ergo: Marie Le Pen ha fatto faville.
* * *
Questo
mi pare lo stato dell’ Unione Europea, lo stato di una nave finita sulle secche
davanti alla costa soprattutto per l’ inadeguatezza delle classi politiche che governano
gli stati. A parte certi casi a noi ben noti, non che queste siano così incapaci.
No, ma questi sono nocchieri per il piccolo cabotaggio., non gente alla
Cristoforo Colombo. Se vediamo giusto, ci vorrebbe un respiro molto profondo e
ampio per mettere in comunicazione le diverse culture e tenerle nell’ alveo
dell’ unica e comune civiltà europea, per ridare speranze ed un futuro al
continente.
Basta porsi
alcune domande per afferrare le dimensioni della sfida: quanto si capiscono e
si conoscono, nel presente e nella loro storia, le diverse nazioni e le diverse
zone dell´Europa comunitaria? E le rispettive classi dirigenti? E come è
attrezzata la centrale di Bruxelles per affrontare il problema? Forse quelli
che dispongono più di tutti di una cultura intra-europea sono i ragazzi ed
ex-ragazzi che hanno partecipato al progetto Erasmus. Ecco la cosa migliore che
si è fatta. Ma quanto ha finora inciso sulle classi dirigenti, sulle opinioni
pubbliche, sulle popolazioni? Credo che ci voglia ben altro, e con una certa
urgenza.
( II )
I paesi cruciali,
per i prossimi anni, nello sviluppo dell’ UE e dell’ UEM sono a mio avviso la
Germania, la Francia e l’ Italia. I primi due paesi lo sono fin dalla nascita
della Comunità Europea, anche per motivi di pacificazione storica. Hanno
inoltre avuto anche una forza economica determinante per dare la rotta, nel
bene e nel male. Infine, sono autorevoli perché dispongono di stati efficienti
e moderni.
Ma perché
aggiungo allora l’ Italia, un paese con un semi-stato, sempre appesantito da un
quadro politico particolare (intendo tutta la fase repubblicana, dal secondo
dopoguerra), segnato da grandi squilibri economici e sociali, tanto preda del
clientelismo? Per di più, un paese in fase di stallo e declino da 20 anni.
Direi, principalmente per questo motivo: gli altri due grandi paesi sono strutturalmente
chiusi su se stessi, nel loro orizzonte nazionale. Sono poco capaci, per non
dire incapaci, a rapportarsi con realtà diverse dalla loro. Con loro alla
testa, l’ Unione Europea non sarà mai tanto diversa da come è diventata.
E che potrebbe
fare il nostro scalcinato Paese? Semplice, ha in sé un vantaggio inestimabile:
il cosmopolitismo. E l’ orizzonte dell’ Europa che altro può essere se non
cosmopolita? Di più. Senza il passato cosmopolita che ha avuto, l’ Europa non
sarebbe quello che è. Non dimentichiamoci che l’ Europa, quale spazio di una
comune civiltà, ha ben più di 2.000 anni e che per circa 1.700 anni la spinta
civilizzatrice è passata per o venuta dall’ Italia. Non dimentichiamoci che Caracalla
diede nel 222 d. C. a tutti gli abitanti dell’ Impero la cittadinanza romana. Non
dimentichiamoci da che parte è venuta la cristianizzazione dell’ Europa
Occidentale. Non dimentichiamoci il ruolo essenziale avuto dalla Chiesa come
forza universalistica e cosmopolita. Non confondiamoci, il Sacro Romano Impero
di Nazione Tedesca non ha mai avuto questi tratti. E ancora oggi qual’ il grado
di cosmopolitismo dei tedeschi? Vicinissimo allo zero. Le vicende di questi
anni, l’ atteggiamento delle opinioni pubbliche tedesca, ma anche finlandese,
danese, svedese, inglese o olandese, parlano un linguaggio chiarissimo. Quanto
alle basi antiche e profonde dell’ Europa il nord è a dir poco inadeguato.
Lo sappiamo, il
nostro paese ha gravi deficit e problemi con la modernità politica. Non ha
ancora risolto il problema dello stato moderno, per dirne una. Lo deve
assolutamente risolvere. Viste le tante occasioni mancate ed il tempo perduto,
la faccenda è urgente. Il paese deve colmare il vuoto di nazionalità che si
porta dietro da secoli. È un dovere farlo, per sé e per il futuro dell’ Europa.
Sembra un paradosso: per iniettare adeguate dosi di cosmopolitismo in Europa,
il nostro Paese deve innanzitutto diventare più nazione. Ma è solo un paradosso
apparente. Non si tratta infatti di cancellare l’ habitus cosmopolita. Del
resto, come sarebbe possibile? Nemmeno il fascismo ci è riuscito. No, tenere la
propria natura – che è anche il tratto più profondo dell’ Europa – ma essere
più efficaci in ambito nazionale, facendo anche rispettare meglio i propri
interessi, avendo anche una società più giusta ed equilibrata, è possibile ed è
il ruolo che ci spetta.
* * *
Dopo questo volo
pindarico torniamo a bomba, alla prosa elettorale. Della Francia ho detto qualcosa. Sulla Germania
non voglio spendere molte parole perché ne abbiamo già parlato spesso. A
livello elettorale, il risultato è stato piuttosto deludente per la CDU/CSU,
soprattutto a causa dell’ affermazione dell’ AfD (il partito anti-euro). Buono
invece il risultato dell’ SPD.
Il dato più negativo, ribadito dalla
campagna elettorale, dal clima che si respira e dai dati elettorali è la
chiusura rispetto ai problemi del Sud Europa. Autismo quasi totale. Non si
discute nemmeno di politiche economiche alternative. L’ informazione su
proposte alternative (vedi quella degli consiglieri economici del governo
tedesco e quella del Gruppo di Glienicke) è nulla. La Germania cambierà rotta
se e solo se saranno le circostanze ad imporglielo, vedi la depressione
economica e la deflazione alle porte, o se gli altri sapranno coalizzarsi per
un vero New Deal.
L’ unico barlume
di speranza deriva dal fatto che in settori importanti dell’ SPD c’ è
attenzione, in alcuni casi, addirittura volontà, di cambiar rotta. Da questo
punto di vista il risultato delle elezioni è positivo. Il fronte
socialdemocratico in Europa è più forte, anche se l’ elettorato conservatore europeo
ha ottenuto ben più consensi. Ma sono consensi che vanno in una direzione
impraticabile o portano a politiche che si sono rivelate pericolose e controproducenti.
A volte le rotte degli sciami di conservatori sono pure divergenti. Una cosa è
comunque chiara: non avremo più ai vertici della Commissione lacchè rigoristi come
Barroso, von Rompuy o Olli Rehn. I rapporti di forza sono mutati. E i
conservatori responsabili non hanno altra scelta che avvicinarsi alle forze più
preoccupate per gli effetti devastanti dell’ austerità sul piano economico e
sociale. E poi c’ è un pure un altro fattore assai importante: il successo del
PD di Renzi.
( III )
Con una certa
soddisfazione mi riallaccio a quanto avevo detto e scritto in ottobre (all’
ultima riunione nella saletta al primo piano della Apothekergasse). Da allora
ci ritroviamo in cantina, come dei congiurati. In breve, allora dicevo
- che era una pia illusione pensare – come fa qualche intellettuale acchiappanuvole – che la svolta per il paese potesse venire dal basso, dalla società civile;
- che era più che mai necessario che il paese avesse una guida solida, agguerrita e riconosciuta dall’ opinione pubblica e dall’ elettorato, per poi andare a rinegoziare in Europa i termini della politica economica, oltre che per uscire dal berlusconismo della seconda repubblica
- che questa guida non poteva che essere il PD ( il Principe );
- che quella scalcinata combriccola di mezze tacche che era la dirigenza del PD avrebbe dovuto cedere il passo ad un vero principe-dittatore: Matteo Renzi;
- che in Italia andava assolutamente rafforzato il comando (cioè l’ esecutivo) contestualmente ad una riforma del potere legislativo per renderlo finalmente efficiente;
- che il sistema doveva diventare bipolare a pieno titolo, per poter funzionare in modo efficace.
Allora non mi
sarei sognato che Renzi fosse così bravo. Non ha sbagliato una mossa e ha fatto
le sue mosse nella sequenza più efficace.
Primo: vincere le primarie e diventare
segretario (per non farsi più segare dai grandi esperti di naufragi che
abbondano nel partito).
Secondo: trovare un accordo con Berlusconi
per rendere definitivo un sistema bipolare centrato su due partiti alternativi,
evitando le sabbie mobili su cui i partiti piccoli lo avrebbero costretto a
camminare.
Terzo: diventare capo del governo
*per dare un segnale di svolta al paese e
rappresentarlo con più ardore ed efficacia nel contesto europeo,
**per non subire sulla difensiva un
passaggio così insidioso come le elezioni europee, da sempre occasione ideale
per esprimere il malcontento. Un cattivo risultato alle europee gli sarebbe
stato subito addebitato dal più cinico e antipatico baffo italiano, così come
dall’ ormai celebre smacchiatore di giaguari.
Mosse
di questo genere non possono uscire dalla testa di un bullo di quartiere, come
spesso Renzi è stato dipinto. Prendiamone atto e spingiamo tutti dalla stessa
parte.
Sì,
perché ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che l’ uscita dell’ Italia dalle
sabbie mobili passa per il PD e solo per il PD. Questo partito deve rinnovarsi
in fretta, accogliere tanta gente nuova, fresca, pulita e preparata. Sarebbe
anche un grande bene per tutto il paese
se tornasse in fretta a curare la struttura di partito, se sapesse accogliere
un ampio dibattito nel suo alveo, se si dotasse di un organo di riflessione
culturale e scientifica di alto livello, se si occupasse di formare quadri di
partito competenti, cacciando gli ignoranti ed i maneggioni. Sinceramente non
capisco tanti amici di sinistra con la puzza sotto il naso che si domandano se
Renzi sia o meno di sinistra, se il PD sia o meno la riedizione della DC. Tutti
pensamenti che hanno un che di surreale.
Il
rinnovamento del Paese passa tutto quanto da sinistra, dalle tante sinistre che
esistono. Ma che dovrebbero confluire tutte quante nel PD. Questo è ora il test
per vedere se qualcuno appartiene alla sinistra razionale o a quella
patologica: vedere se è disposto a dare una mano nell’ unico progetto che ha
qualche futuro o starsene da parte a fare l’anima bella. Del resto, come stanno
le cose lo avevano capito già molto tempo fa anche intellettuali di destra intelligenti
e responsabili come il compianto Montanelli. Quindi, se anche venissero
contributi da conservatori seri ed onesti, ben vengano. E anche questa è una
vecchia storia italiana. Basti pensare a Vitaliano Brancati, scrittore acuto e
cristallino, che già alla fine degli anni quaranta del secolo scorso affermava
che in Sicilia, per essere veramente liberali, bisognava come minimo essere
comunisti.
Ovviamente
augurarsi che il PD diventi il perno del blocco progressista significa anche mettere
in conto ed augurarsi che il blocco conservatore guarisca dalle sue malattie
strutturali, esca dal berlusconismo, ricominci a fare il pieno di idee, si
depuri di collusioni pericolose e di tic atavici. Tutti dovremmo augurarci che
ne esca una destra compiutamente europea. Altrimenti come potrebbe svilupparsi
anche da noi una sana democrazia bipolare?
Che
poi gli sforzi da compiere da entrambe le parti siano assai diversi, che sussista
una notevole asimmetria tra i due blocchi è pure evidente. Se a sinistra ci sono
ancora alcune decine di miglia da percorrere, a destra hanno da attraversare il
Sahara. Anche questo ce lo dicono i risultati elettorali.
Il grande
successo del PD è da addebitare, in termini di spostamenti elettorali, a un
recupero di elettori delusi da Grillo e alla forte attrazione del progetto
renziano sull’ elettorato montiano. Nonostante l’ evidenza dei disastri provocati
dal berlusconismo, nonostante la rotta politica del PdL e le divisioni interne,
nonostante i colpi subiti per le vicende penali di Berlusconi e la perdita di
appeal di questo vecchio mal vissuto, la destra ha raccolto ancora il 31% dei
votanti. Un risultato di tutto rispetto che dimostra come da quella parte siano
veramente… di bocca buona. Di certo non una bella premessa per il rinnovamento.
Fortunatamente il popolo del PD è messo meglio.
Heidelberg, 10 giugno 2014
Beppe Vandai
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