martedì 20 dicembre 2016

EUROZONA: ARENA PER LA CONCORRENZA TRA LE NAZIONI (come la pensano gli economisti tedeschi)

TRADUZIONE DA
ZUM PARADIGMA DES STANDORTWETTBEWERBS [ Circa il paradigma della concorrenza territoriale ]
di Horst SIEBERT,
Tübingen (Mohr Siebeck) 2000
PRIMO CAPITOLO
Das Konzept des Standortwettbewerbs [ Il concetto di concorrenza territoriale ]

Pagg. 7 – 9
„ La concorrenza territoriale [“allocativa” potrebbe essere anche una traduzione altrettanto adeguata, NdT] è la concorrenza, nello spazio, tra luoghi, città, regioni e nazioni. Ha luogo a tre livelli:
*Le imprese sono in concorrenza tra di loro con i propri prodotti sul mercato mondiale dei beni.
**Le regioni o gli stati sono in concorrenza tra di loro sui mercati internazionali per i fattori della produzione mobili, ovvero per il capitale mobile, il sapere tecnico mobile e le forze lavorative qualificate.
***Infine, pure i fattori della produzione immobili, soprattutto la forza-lavoro immobile, meno qualificata, è collocata in contesti e correlazioni complesse di concorrenza internazionale (Figura 1).
*Le imprese possono aumentare il loro guadagno se vendono nel mondo i loro prodotti con successo. **I governi massimizzano la utilità dei cittadini o la propria; possono fare questo nella misura in cui riesce loro di attirare o di trattenere nel Paese i fattori mobili della produzione. Infatti, se i fattori mobili della produzione giungono e rimangono, diventano più favorevoli le occasioni di reddito per il fattore della produzione lavoro che non è mobile. Perciò aumenta la probabilità che un governo venga rieletto. ***Infine, i lavoratori massimizzano la loro utilità in quanto gli elementi base della loro funzione di utilità sono il loro livello di reddito da lavoro e la sicurezza dei posti di lavoro.

Questi tre livelli della concorrenza internazionale – ovvero la concorrenza tra le imprese, tra gli stati e tra i lavoratori – non sono tra loro indipendenti. Che singole imprese siano concorrenziali, dipende anche da quali condizioni-quadro i governi creano per le imprese. Che sia remunerativo investire del capitale nel Paese, viene influenzato dalle condizioni che vigono per le imprese. Che le possibilità di reddito per il fattore lavoro siano favorevoli, è anche condizionato da quanto capitale viene investito nel Paese. Quanto più capitale viene investito, tanto più elevata sarà la produttività marginale del lavoro. Inoltre, la produttività marginale del lavoro viene pure determinata dal sapere tecnico. Ed infine la posizione dei lavoratori muta con la concorrenzialità delle imprese in cui essi sono occupati. Infatti, la domanda di forza lavoro è una domanda indotta.
Bisogna inoltre considerare che – diversamente da come supposto nella figura 1 – può essere che le imprese siano attive a livello internazionale. Un’impresa può trasferirsi dal Paese A al Paese B, può essere attiva in entrambi i Paesi oppure può fondersi con un’impresa del Paese B (mediante investimenti diretti).
Io perseguo qui allora un concetto ampio di concorrenza territoriale-allocativa, in cui questi tre livelli della concorrenza sono interdipendenti. Sia la teoria tradizionale del commercio estero, che la più recente, mirano piuttosto ad analizzare solamente un elemento di questo vasto concetto, cioè la concorrenza tra le imprese, incluse ad esempio anche le implicazioni del modello Hecksher-Ohlin riguardanti i redditi dei fattori produttivi, dunque anche del fattore di produzione lavoro. A fronte di questo concetto più ristretto, la concorrenza territoriale-allocativa in senso più lato focalizza più fortemente la concorrenza tra gli stati.
Prendiamo in considerazione un Paese (o una regione). Alcuni fattori della produzione del Paese (o della regione) sono immobili dal punto di vista internazionale (o interregionale). Ad esempio il lavoro – se prescindiamo dalle qualificazioni elevate – è per tutta una serie di motivi vincolato allo spazio. La concorrenza tra gli stati (o tra le regioni) consiste nel fatto che i fattori produttivi immobili devono tentare di attirare, ovvero di trattenere nel Paese, dei fattori mobili della produzione, affinché le chance di reddito per i fattori immobili della produzione siano le più favorevoli possibili. Ergo: la concorrenza allocativa è una concorrenza tra i fattori immobili della produzione per conquistarsi quelli mobili.
Il concetto di concorrenzialità, che di solito è relato a imprese o a settori, viene qui applicato anche alla capacità concorrenziale di un Paese, cioè alla sua capacità di mantenere e attrarre i fattori mobili. In questo contesto, l’asserzione di Krugman ( in “Competitiveness: A Dangerous Obsession”. In Foreign Affairs 73 (2) p. 28–44 ) – “L’idea che le fortune dell’economia di una nazione siano ampiamente determinate dal suo successo sui mercati mondiali (...) è assolutamente sbagliata. Cioè, è semplicemente falso che le nazioni leader nel mondo siano in un qualsivoglia grado elevato in competizione reciproca ......” – è, dal punto di vista della concorrenza per i fattori mobili, un errore marchiano, e non l’unico di Krugman.”
Traduzione di Beppe Vandai (23 / 4 / 2016

BREVI NOTE DI COMMENTO di Beppe Vandai
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Innanzitutto due parole sull’autore. Horst SIEBERT è stato sicuramente uno dei più brillanti ed influenti economisti tedeschi. Nato nel 1938 e morto nel 2009, ha insegnato nelle migliori facoltà tedesche di economia. Dal 1989 al 2003 ha diretto il prestigiosissimo Institut für Weltwirtschaft (Istituto per l’economia mondiale) di Kiel. Sempre dal 1989 al 2003 (anno in cui divenne emerito dell’Università di Kiel) è stato uno dei cinque membri del “Sachverständigenrat” – il comitato di consulenti del governo tedesco deputato allo studio della congiuntura economica tedesca. Di formazione ordo-liberale (la variante tedesca della scuola neo-classica) ha sempre tenuto fede ai fondamenti teorici, giuridici e di politica economica tipici di questa scuola. Non è esagerato affermare che, assieme a H. W. SINN e a O. ISSING sia stato uno dei tre più influenti economisti tedeschi degli ultimi decenni.
Il testo in questione – “Circa il paradigma della concorrenza territoriale” – apparso nel 2000 per i tipi dell’editore Mohr Siebeck – è un libretto di una cinquantina di pagine. Altro non è che la rielaborazione- estensione di una conferenza tenuta da Siebert il 30 giugno del 1999, presso il “Walter Eucken Institut” di Friburgo, su invito dell’istituto stesso: il sancta sanctorum della scuola ordo-liberista. Infatti, a Walter Eucken viene unanimemente riconosciuta la paternità di questo indirizzo di pensiero economico. Eucken insegnò a Friburgo dal 1927 al 1950, anno in cui morì. Già dalla metà degli anni venti iniziò ad elaborare la sua teoria. Era la fase più difficile della Repubblica di Weimar, a cui seguì la dittatura nazista. Con la fine della guerra e la ricostruzione, la scuola di Eucken fornì le linee guida per la politica economia della Repubblica Federale Tedesca. Ancora oggi non è azzardato affermare che almeno il 90% degli economisti tedeschi prosegue su quella linea di pensiero.
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Il testo di Siebert è molto chiaro, parla per sé. D’altronde l’autore è noto per la sua cristallinità. Anche il modo di procedere nel discorso è tipico dei migliori autori tedeschi: sistematicità, fissazione precisa dei concetti, tendenza a mettere le carte in tavola mediante definizioni. Il rovescio della medaglia è naturalmente la legnosità dello stile e la tendenza a “dozieren” (salire in cattedra). Non solo. Non c’è nulla di più noioso ed intimorente per il lettore che incipit pieni di definizioni e privi di esempi. Ma d’altronde, non si può avere tutto dalla vita. Procedendo come fa Siebert, si va dritto all’obiettivo. In poche pagine si dice l’essenziale o addirittura tutto. La sua onestà intellettuale, come la nettezza di intenti, è fuori dubbio.
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Detto questo vorrei dare un paio di informazioni e sottolineare un paio di cose:
1 ) Siebert altro non fa che sistematizzare efficacemente quello che la quasi totalità degli economisti tedeschi pensava e pensa da parecchi decenni. Parimenti, anche questa è grosso modo l’odierna base del consenso tra quasi tutti i partiti politici. Qui però vanno fatti dei distinguo. La CDU (i cristiano democratici) è esplicitamente su queste posizioni dalla seconda metà degli anni settanta. La CSU (i cristiano sociali, i bavaresi di F.J. Strauss, per intenderci) lo sono già dai primi anni sessanta. La FDP (i liberali) lo sono da sempre. La SPD (i socialdemocratici) si sono accodati dalla seconda metà degli anni novanta, cioè da quando il partito ha abbandonato la linea di Willy Brandt ed il suo interprete più fedele, O. Lafontaine, ha perso terreno nel partito, per poi uscirne. Con Schröder l’adeguamento dell’SPD al pensiero ordo-liberista si è completato. Non è un caso che tra i suoi maggiori consiglieri ci fosse il prof. Rürup, un ordo-liberista travestito da socialdemocratico. Non è un caso che l’ispiratore della creazione del secondo mercato del lavoro (quello a salari bassissimi e sovvenzionato dallo stato) sia stato Hartz, un alto dirigente della Volkwagen. I Verdi si adeguati per ultimi, ma lo hanno fatto. Ben mi ricordo le continue sottolineature di gran parte dei Verdi che la realizzazione della green economy, prima che in altri paesi, sarebbe stato per la Germania un grande vantaggio competitivo. Questo già verso la fine degli anni novanta. Solo Die Linke (“La Sinistra”) così come i movimenti anti-globalizzazione, vedi ATTAC, rifiutavano e rifiutano questo approccio. Da notare: molti dissidenti della SPD confluirono in Die Linke.
2 ) I sindacati dei lavoratori si sono adeguati poco alla volta alla linea dominante. Il primo grosso sindacato di settore a compiere quel passo fu quello dei Chimici e delle Costruzioni. Seguirono il potentissimo IG-Metall (metalmeccanici) e il DGB (il sindacato unitario che raggruppa e coordina tutti i principali sindacati di categoria). La capitolazione definitiva avvenne nel 1999, allorché il governo rosso-verde di Schröder avviò il cosiddetto Bündnis für Arbeit (coalizione per il lavoro). Al tavolo sedevano le organizzazioni dei datori di lavoro, i sindacati, l’Agenzia per il collocamento ed il governo. L’obiettivo: ridurre la forte disoccupazione indotta dall’Unificazione tedesca e dalla deindustrializzazione della ex- DDR. In soldoni: i datori di lavoro ricattarono i sindacati. Se questi non avessero acconsentito ad aumenti salariali moderatissimi, a volte al di sotto dell’inflazione, le imprese avrebbero delocalizzato ancora di più nei Paesi dell’Europa Orientale, ormai integrati o quasi integrati nell’UE. Al centro dell’accordo ci fu questo: forte aumento della competitività dell’industria tedesca con la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il famoso “CLUP”) >> forte aumento delle esportazioni nella nascente Eurozona >> garanzia dei posti di lavoro in Germania. I sindacati accettarono. Così la Germania, nel solo periodo 1999–2007 accumulò un vantaggio competitivo del 20% sul resto dell’Eurozona. Nel 2012 il vantaggio era ancora invariato. Ciononostante i sindacati continuano ad accettare questa logica. Lo si è visto anche di recente. Quando il cosiddetto comitato dei cinque presidenti (Draghi, Juncker, Tusk, Dijsselbloem e M. Schulz) ha suggerito che gli aumenti salariali in alcuni paesi dell’Eurozona, nei paesi con i maggiori surplus commerciali, avrebbero dovuto essere più alti che nel recente passato, il DGB e la IG-Metall hanno subito gridato allo scandalo: guai a intromettersi nella Tarifautonomie (nell’ autonomia contrattuale)! E così, le richieste di aumenti salariali nell’industria continuano ad essere modeste. Sono addirittura inferiori a quelle nel pubblico impiego e nei servizi, che notoriamente non sminuiscono che in minima parte la concorrenzialità delle merci tedesche. Il vecchio ‘internazionalismo proletario’ ha lasciato il posto, in Germania, alla lotta al coltello per le fette di mercato e le risorse strategiche.
3 ) Una volta ribadito il grande consenso che in Germania gode questo tipo di politica economica, non si può non notare che Siebert ne fornisce la base teorica. Scomodando i classici, potremmo dire che, quasi tutti nel mondo anglosassone, neo-latino e slavo la pensano come il vecchio Adam Smith o il vecchio David Ricardo. Hanno un atteggiamento universalistico. Vedono i vantaggi della libera concorrenza e della specializzazione internazionale in uno spazio libero e non condizionato da fini nazionali. Così la pensa anche il più noto specialista di economia del commercio internazionale: Paul Krugman, un neo-keynesiano. Non a caso Siebert lo critica apertamente, quasi con disprezzo. Il fronte è allora chiarissimo: i classici, ripresi in questo punto da Krugman, come dalla totalità degli economisti anglosassoni, sono i paladini del libero scambio  tra gli agenti economici e non tra le nazioni. E Siebert di che cosa? Ovvio: del mercantilismo. Il vecchio fronte ottocentesco si è rinnovato. Ma come possano gli economisti tedeschi definirsi “ordoliberisti” (o “ordoliberali”) resta un mistero. Penso che sia tempo di negare loro la nomea di cui si fregiano. Il loro credo andrebbe piuttosto chiamato “ordo-mercantilismo”. Ne guadagneremmo in chiarezza.
4 ) Insistiamo ancora un poco. I liberisti veri, o tout court, proprio per evitare distorsioni mercantilistiche, sono rigorosamente per cambi flessibili. Per loro, se c’è libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e della forza-lavoro, deve vigere anche il libero mercato delle monete. I neo-mercantilisti tedeschi (tutta la grande industria tedesca, quasi tutto il ceto politico, quasi tutti i media, gran parte degli economisti tra il Reno e l’Oder-Neisse) invece sono stati e sono per la Moneta Unica. Uno direbbe: ma mancano di coerenza. No. Basta leggere Siebert. Loro teorizzano la concorrenza tra le nazioni. Pertanto, lo strappo che danno al liberismo è pienamente giustificato. La nuova Europa, più efficiente, che premia i migliori nella concorrenza per le risorse al suo interno, funzionerà ancora meglio grazie alla concorrenza territoriale allocativa. In questo contesto, anche se Siefert non lo dice, la Moneta Unica è il veicolo perfetto. Per loro è giusto così. Il grande equivoco sorge in fondo sul nome “Europa”. Loro intendono qualcosa, noi italiani, nella grande maggioranza, intendiamo qualcosa d’altro. Ah, le parole! Come non si stancava di sottolineare L. Wittgenstein (un ebreo austriaco emigrato a Cambridge, dove si trovò benissimo accanto a Bertrand Russell, a Keynes, a Piero Sraffa, alla Joan Robinson) le parole sono attrezzi utilissimi, ma anche trappole!!
5 ) Resta il fatto che l’attuale variante tedesca del mercantilismo, il mercantilismo competitivo (o neo-mercantilismo), non è per nulla compatibile con un’integrazione europea cooperativa, così come noi la intendiamo. E non lo è evidentemente nemmeno con gli interessi del nostro Paese.
6 ) La data della conferenza di Siebert è interessante: il 1999. L’anno del Bündnis für Arbeit e dell’accordo imprenditori-sindacati. La stessa in cui nasce l’Euro. Una vera cuccagna fare un accordo di dumping salariale nel momento in cui viene meno la pluralità monetaria dei cambi aggiustabili, in cui viene meno il mercato delle monete, che di per sé può difendere le economie meno concorrenziali. In quello stesso anno i nostri Padoa- Schioppa, Ciampi, Prodi ecc. cantavano ingenuamente le lodi dell’integrazione europea e della Moneta unica. Non si sono poi sentiti traditi?
7 ) Nota cattiva: ma non hanno mai letto i libri e i documenti degli economisti tedeschi, che hanno sempre sostenuto la legittimità e la funzione positiva dello Standortwettbewerb (concorrenza territoriale allocativa)? Quando sono andato ad abitare in Germania, nella metà degli anni ottanta, questo era il grande tema sui giornali e in televisione, quando questi parlavano di economia. Questo fu il tema con cui Helmut Kohl e Hans-Dietrich Genscher scalzarono Helmut Schmidt dalla guida del paese, nel 1982, aiutati dalla Bundesbank. Possibile che i nostri non lo sapessero? Sarebbe bastato chiedere. Ma forse non avevano il mio numero di telefono :)
8 ) Altra nota personale. Quando vado alla Biblioteca Universitaria di Heidelberg, e passo per la Plöck (così si chiama la strada più comoda per me) mi capita, da un paio di anni, di incrociare continuamente giovani che parlano italiano, spagnolo, portoghese, greco (oltre che russo, polacco e arabo). Non era così anche solo dieci anni fa. Tolti gli “erasmiani“ che vi bazzicano già da 25 anni, si tratta della forza-lavoro altamente qualificata, formata, o in via di formazione, che le imprese, il governo e i lavoratori tedeschi non qualificati hanno bisogno di attirare per il benessere del Paese. Siebert lo spiega bene.
9 ) Un aneddoto. Nel maggio del 2014, un paio di settimane prima delle elezioni europee, un circolo europeista di Heidelberg organizzò nella sala consiliare del Municipio un dibattito con deputati tedeschi al Parlamento europeo (della SPD, della FDP, della CDU e dei Verdi). Ci andai, anche perché dovevo distribuire la petizione europeista di Volta La Carta!! – un locale circolo di dibattito culturale e politico di italiani [vedi qui]. Mi aspettavo una riflessione sui problemi dell’Eurozona, sulla spaccatura Nord-Sud. Invece, sia i relatori che gli uditori si occuparono solo dello scandalo NSA (quei ficcanasi di americani che spiano noi europei, Angela compresa!), della crisi in Ucraina, di Putin, dell’estensione dell’Unione Europea a Est. Ad un certo punto, il sig. Alexander Föhr, segretario della CDU di Heidelberg, un giovanotto occhialuto con la faccia simpatica, tematizza l’immigrazione dei giovani del Sud Europa, preparati, capaci e volonterosi. Ci siamo! Mi dico. Purtroppo, l’unico suo problema era come fare ad accoglierli al meglio, affinché si trovassero bene e restassero. Evidentemente aveva letto con attenzione il libretto di Siefert. Me ne andai depresso.
10 ) Domanda retorica finale (così arrivo a 10 punti): è possibile avere una Moneta unica con simili sodali?
Treviglio, 25 aprile 2016
 Beppe Vandai


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