lunedì 1 dicembre 2014

LE ATTUALI POLITICHE ANTICRISI



Schema della RELAZIONE
di Beppe Vandai
per VOLTA LA CARTA!!



Nella riunione di Volta La Carta!! del 12 novembre 2014 ho innanzitutto cercato di chiarire per sommi capi la differenza categoriale tra espressioni come "espansione/crescita", "stagnazione", "recessione" e "depressione" da un lato e di espressioni come "inflazione", "stabilità monetaria", "inflazione-zero" e "deflazione" dall' altro. Mentre i termini del primo gruppo riguardano la dinamica del prodotto nazionale (lordo o netto), quelli del secondo gruppo si riferiscono alla dinamica dei prezzi delle merci e dei servizi.  

Ci sono però naturalmente dei nessi o incompatibilità tra i fenomeni del primo e del secondo gruppo. Alcune combinazioni sono impossibili. Ad esempio la contemporaneità in un' economia nazionale di espansione/crescita e deflazione monetaria. In altri casi le cose sono invece più complicate: una stagnazione, o addirittura una recessione, possono  coesistere con l'inflazione.
Ad esempio, negli anni '70 del secolo scorso, l'inflazione – causata sia da effetti esterni, come il rincaro del prezzo del petrolio voluto dall' OPEC, che interni (vedi marcati aumenti salariali e adeguamenti automatici di questi in base all' inflazione) – coincise con uno choc recessivo a breve e poi con una lunga fase di stagnazione. Si ebbe quella che allora fu battezzata "stagflazione". 

E noi, come siamo messi in questo periodo? Da almeno due decenni, lasciando da parte i Paesi in via di nuova industrializzazione, nell' intera area dei Paesi più industrializzati c' è una tendenza al ristagno delle economie, anche senza choc particolari. Come hanno fatto rilevare più volte sia Larry Summer che Paul Krugman, negli ultimi 20 anni le fasi di crescita pronunciata sono state tutte innescate da bolle finanziarie. In mancanza di queste, le economie nazionali dei maggiori Paesi crescevano a livelli bassissimi. Al contempo, l'inflazione è stata per lo più molto contenuta. Un risultato da addebitare in primis a due fatti: *) alla convergenza delle principali Banche centrali sull' obiettivo della stabilità monetaria fissato attorno al 2% di rincaro annuo e ** ) al processo di globalizzazione che ha spostato produzioni in Paesi a bassi o bassissimi salari e ha assai frenato la dinamica salariale nei Paesi più industrializzati. 

Un grande rimescolamento di carte si è però avuto con la crisi globale del 2008 prima, e con la crisi della zona euro dopo. Con grandi sforzi si è impedito che le economie cadessero prima in una forte recessione e poi in una rovinosa depressione. Le mosse che hanno impedito il ripetersi delle crisi degli anni trenta sono state: a ) la garanzia ai risparmiatori sui depositi bancari, attuata per impedire la corsa agli sportelli, b ) il quasi unisono salvataggio delle grandi banche (eccezion fatta per Lehman Brothers), c ) il rapido abbassamento dei tassi d' interesse, d ) l' uso di ammortizzatori sociali per impedire gravi effetti di povertà, il collasso dei consumi e la distruzione di capacità produttive. Tutte misure consigliate da Keynes già allo scoppio della crisi del 1929. Insomma, parte della sua lezione è stata imparata.  

Ben presto si è però capito che sia la Grande Recessione dal 2008 in poi, che la crisi della zona-euro dal 2010 in poi, avevano scosso dalle fondamenta l' elemento basilare e più prezioso di ogni economia capitalistica, anzi di ogni economia complessa: la fiducia reciproca tra gli agenti economici. Ovvio dunque che in questo caso il nemico più pericoloso fosse la tendenza a chiudere i cordoni della borsa, a consumare di meno, a non rischiare, a non investire.
Tutte cose che sempre ed invariabilmente innescano la recessione, cioè la riduzione della domanda aggregata e del volume totale dei beni prodotti e dei servizi forniti. In scenari di questo tipo la disoccupazione fa sempre un bel balzo all’insù ed alimenta, se nulla accade, un ulteriore balzo. E in tal caso, poi, se le politiche economiche sono sbagliate o mal tarate o troppo timide, o se nulla si fa, poco alla volta si aprono le porte alla depressione, che a sua volta, se i governi e la banche centrali continuano a sbagliare, si cronicizza. Basti pensare che la Grande depressione, iniziata nel 1929, fu risolta, ancorché in modo non voluto, dall’ espansione dell’ economia di guerra degli anni 1940/1945. E che il decollo economico si ebbe solo negli anni ’50. Il fenomeno monetario parallelo a questo complesso macroeconomico è poi la tendenza alla disinflazione prima, all’ inflazione-zero poi, ed infine alla deflazione.

Che fare allora di fronte a questa tendenza spontanea a cadere nella voragine? Quattro sono le principali scuole di pensiero:
a ) quella liberista pura suggerisce di non far nulla, perché il libero mercato è in grado di  purificarsi e rigenerarsi da solo; i liberisti puri consigliano riduzioni dei salari e maggior efficienza produttiva; sanno anche che il processo di uscita dalla recessione o depressione può durare anche 20 anni, o di più, ma pensano che sia giusto così; al massimo lo stato ha da preoccuparsi che i poveri non cadano nella miseria più bruta;
b ) quella ordo-liberista (soprattutto di marca tedesca) aggiunge allo scenario appena descritto l’invito agli stati e alle economie nazionali ad attuare riforme sul lato della domanda, ad esempio riducendo il peso delle spese per la burocrazia, rendendola più efficiente, garantendo un efficace funzionamento della giustizia, riducendo il deficit statale ecc.;
c ) quella monetarista crede che la recessione vada contrastata rapidamente e vigorosamente fin dall’ inizio; pensa che l’ unico modo conforme e rispettoso del sistema capitalistico sia di agire con la leva monetaria; il piano di intervento dovrebbe consistere nel quantitative easing (qe), cioè nell’acquisto da parte della Banca centrale di obbligazioni industriali e bancarie, così come di titoli di stato, immettendo dunque massicce dosi di liquidità con la speranza di facilitare l’ erogazione di crediti a bassi tassi di interesse alle famiglie e agli investitori, cosicché acquistino beni di consumo e beni da capitale; lo scopo ultimo è di diminuire la disoccupazione e di rimettere l´economia sulla strada della crescita;
d ) la scuola keynesiana moderna, uscita dalla sintesi operata da economisti come Samuelson e Modigliani,  accetta lo schema monetarista, ma ne vede i limiti; il suo campione più agguerrito e lungimirante, Paul Krugman (premio Nobel nel 2008 per i suoi studi sui flussi e le strutture dei mercati internazionali), sostiene ad esempio, almeno dal 1998, che il quantitative easing, una volta che la crisi di fiducia sia profonda, fallisce abbastanza rapidamente per via della cosiddetta “trappola della liquidità”, cioè per la situazione in cui tutti gli operatori economici (banche, settori produttivi, consumatori), di fronte al combinato di deflazione e di interessi attivi bassissimi, preferiscono tenersi liquidi che rischiare; così non danno alcun impulso alla ripresa; per i keynesiani moderni, alla politica preconizzata dai monetaristi, va perciò aggiunto l’ intervento dello stato che deve indebitarsi dando stimoli all’ economia (con un mix di investimenti in infrastrutture, in innovazione e in formazione e di tagli fiscali); da ultimo, va intrapresa la via di una moderata inflazione (tra il 3% ed il 4% annuo).

Come si sono comportati i governi e la banche centrali? Quali ricette hanno attuato?
* ) Il Giappone è in preda da quasi vent’anni di una serie ininterrotta di recessioni e stagnazioni. Perciò è anche il caso più studiato. Dapprima non ha fatto nulla, poi ha avuto una breve fase di sbandamento in cui addirittura la banca centrale ha aumentato i tassi d’interesse. Solo in seguito il Paese ha incominciato a dare ascolto ai monetaristi e, molto parzialmente, ai keynesiani. Ma lo ha fatto troppo timidamente ed in modo contraddittorio: per prima cosa sono state salvato le banche, piene zeppe di crediti tossici, poi si è effettuato un QE, ma di volume troppo ridotto, infine il governo ha aumentato la spesa pubblica, ma in modo inadeguato. Infine,  preso dal panico, ha abbandonando il QE. Visti gli insuccessi e l’aumento della spesa pubblica, impauriti dall’ idea che lo yen perdesse troppo valore, i governi si sono concessi una lunga pausa di inattività. I due fattori principali che hanno consegnato i giapponesi all’ insuccesso sono stati da un lato il loro orgoglio monetario, cioè la cocciutaggine nel voler far dello yen una moneta alternativa al dollaro, e dall’ altro il terrore dell’ inflazione. Così hanno praticato politiche contraddittorie ed inefficaci e si ritrovano, dopo 18 anni, di nuovo in recessione.
** ) Gli USA hanno seguito molto decisamente il programma monetarista; hanno pure fatto politiche di tipo keynesiano, anche se in misura limitata (a causa della continua pressione dei Repubblicani che vedono negli interventi statali elementi inaccettabili di socialismo). I risultati sono nell’ insieme buoni, per sé e per il resto del mondo. A seguito di un deciso e prolungato QE – che ha portato il bilancio della Federal Reserve da poco più di 2.000 miliardi di $ a più di 4.500 miliardi di $  – sono entrate in circolo massicce dosi di liquidità che hanno stimolato gli investimenti in molte aree del mondo. Hanno dunque anche indirettamente contribuito al forte aumento delle esportazioni dall’ UE verso il resto del mondo, favorendo di non poco anche l’ export tedesco.
*** ) L’ Eurozona ha seguito volente o nolente le politiche economiche della scuola ordo-liberista, insistendo solo sul tasto della politica delle riforme dal lato dell’ offerta. Ha lasciato che la recessione si diffondesse in ampie zone del nostro continente, ha anche contribuito al rallentamento dell’ economia mondiale. Tutti gli aiuti ai Paesi in maggior difficoltà sono stati subordinati a politiche restrittive. Sotto la guida di Draghi la BCE ha tentato di seguire politiche simili al QE americano, ma è sempre stata frenata dalla Germania. Rinuncio a fare un elenco puntuale dell’ opera del trio Merkel-Schäuble-Weidmann per non deprimervi troppo. Noto però che il vero QE non è ancora stato avviato e che gli interventi comunitari in infrastrutture sono ancora del tutto incerti. Concludo rilevando che ancora ieri sera – alla fine dell’ incontro del G20 di Brisbane , dove sono stati decisi programmi di investimento in infrastrutture per stimolare la crescita economica, programmi accettati obtorto collo anche dalla Germania – al telegiornale delle 20:00 la signora Merkel sosteneva in tutta serietà che il vertice era stato un grande successo perché si erano messe in cantiere misure per mettere al sicuro i contribuenti dal rischio rappresentato dalle grandi banche.

Alla fine della mia relazione sottolineavo questo:

i ) L’unico modo per evitare che l’economia mondiale e quella dell’ eurozona ripiombino in un vortice recessivo-deflattivo o vi sprofondino ancora di più, e affinché entrino in un ciclo positivo, è (*) sì di attuare alcune riforme sul lato dell’offerta, care all’ ordo-liberismo, ma soprattutto (**) di avviare un deciso QE, ben consci che (***) senza ulteriori misure, il QE si infilerà nella “trappola della liquidità”. In ultima istanza, sarà dunque decisivo quel surplus di interventi preconizzati dai moderni keynesiani: a ) un aumento mirato, e non debordante, della domanda aggregata grazie al debito pubblico, e b ) la strada di un’ inflazione controllata tra il 3% ed il 4%. In soldoni: ha pienamente ragione Paul Krugman, veggente inascoltato.

ii ) Esprimevo infine un profondo senso di sconforto verso la politica economica tedesca. Una politica che tiene in ostaggio tutta l’ Europa, che segue linee chiaramente egemoniche e che, a mio avviso, se così proseguisse, nell’ arco di poco più di un anno costringerebbe il nostro Paese a uscire dall’euro. Spero di sbagliarmi, ma credo che la probabilità che così finisca l’ avventura dell’ euro sia ormai molto alta. Non vedo in Germania il minimo segno per un serio ripensamento, né nei media, né nell’ opinione pubblica, tanto meno nella classe politica (socialdemocratici e verdi inclusi). In ogni caso, ed in vista del peggio, il nostro Paese deve assolutamente avviare a tappe forzate le necessarie riforme sul mercato del lavoro, ridurre il carico fiscale alle aziende, procedere allo snellimento delle procedure della giustizia civile, avviare la riforma della Pubblica amministrazione e via dicendo. Siccome un simile programma non può che essere condotto da un governo forte e legittimato, una riforma del sistema elettorale che favorisca la formazione di un sistema maggioritario-bipartitico ed il superamento del bicameralismo perfetto sono altrettante condizioni necessarie. Altrimenti, mai usciremo dalla difficile e pericolosa situazione in cui ci dibattiamo. Anzi, cresceranno i rischi di sfaldamento del tessuto sociale e del Paese stesso.


Heidelberg, 17 / 11 / 2014


Beppe Vandai

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