lunedì 2 aprile 2012

Osservazioni preliminari sul problema della ricerca in Italia

Quello della “fuga“ dei cervelli dall’ Italia è un tema certamente di moda. Basta scorrere qualche giornale per rendersene conto. Un forum particolarmente attento al riguardo è il blog-rubrica Italians di Severgnini sul Corriere della Sera. Si sono avute anche iniziative politiche per porre il problema del loro rientro in patria. Se ne parla tanto e si connette subito il problema con quello dell’ inefficienza del nostro sistema universitario. La destra belusconiana ha perfino tentato di strumentalizzare la cosa per dare addosso all’ ampio ‘baronato’ di sinistra. Come se questo fosse il centro del problema, anche se si deve ammettere che pure negli atenei non mancano casi incresciosi di familismo amorale o immorale. Il fatto è piuttosto che si tratta di un fenomeno assolutamente bipartisan ( come si usa dire oggi ) e che non c’ è da aspettarsi altro, vista la invasività con cui il familismo perverso innerva dovunque la società italiana.

LUIGINI contro CONTADINI

di GABRIO CASATI
Ed. Guerini e Associati, Milano 2011



L’ autore di questo pamphlet ricchissimo di dati e osservazioni appassionate è un collettivo costituito, come sembra, da alcuni economisti e manager milanesi. Nella scelta dello pseudonimo sono ricorsi al conte Casati, pure milanese, patriota, amico di A. Manzoni, liberale moderato, che tra l’ altro fu presidente del consiglio del regno di Sardegna nel 1848 e ministro della pubblica istruzione nel 1859/1860 nell’ ultimo governo sabaudo guidato da Cavour. La sua riforma ispirò nei primi decenni dall’ unità d’ Italia la politica scolastica del nostro Paese. La scelta del nome “G. Casati” ha già un che di programmatico. Sa di riformismo cauto ma deciso, sa di sviluppo razionale, di equilibrio tra giustizia ed efficienza. Ma perché uno pseudonimo ? Forse per distinguersi da quanti sbavano per la voglia di apparire ? Forse anche per questo, ma principalmente per non correre il rischio di rappresaglie. Qualcuno degli autori lavora infatti per dei Luigini.

Ma chi sono ‘sti Luigini ? E chi i Contadini ? Questa denominazione apparentemente bizzarra riprende alcune pagine di Carlo Levi, precisamente del suo romanzo-saggio L’ orologio, uscito nel 1950 per i tipi di Einaudi. I Contadini sarebbero i produttori, appartenenti a qualsiasi classe sociale: contadini stricto sensu, operai, agrari, industriali effettivamente imprenditori, “anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne, quelle vere, non quelle finte “, ma anche gli “intellettuali”. “ E i Luigini chi sono ? Sono gli altri. La grande maggioranza della (…) ameboide piccola borghesia (…) burocrati, statali, impiegati di concetto, magistrati, avvocati, poliziotti, studenti, parassiti (…) politicanti (…) preti (…) letterati dell’ Arcadia, (…) anche gli industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato “. In una parola i non-produttori (siano essi semplicemente “assistiti”, detentori di rendite, oppure veri e propri parassiti). Levi, nel suo linguaggio sanguigno e ribellistico, si riferisce all’ Italia della fine degli anni ’40 e dà sfogo alla profonda delusione di chi vede come, anche nella Repubblica nuova di pacca, vecchi equilibri si erano ricomposti, delusione di chi scopre che i Luigini avevano ripreso il sopravvento sui Contadini.

Ebbene, “Gabrio Casati” aggiorna alla realtà odierna il grido di Carlo Levi. L’ analisi di questo autore plurale poggia non più sul sensorio dell’ artista, pittore e letterato, oltre che medico, quale era C. Levi, ma bensì su una gragnuola di dati statistici. E ovviamente sulla loro interpretazione. Anche il riferimento alla classificazione leviana è più suggestiva che letterale, va presa con le pinze. Senza voler riferire in dettaglio della struttura e dell’ articolazione dell’ analisi, vale forse la pena anticipare il succo del lavoro di G. Casati.
L’ Italia è da sempre un paese strutturalmente squilibrato. In particolare, negli ultimi decenni c’ è stato un flusso continuo e regolare di risorse da alcune regioni verso lo Stato e verso vaste zone del Paese: in gran parte verso il sud e le isole, in parte nettamente minore verso il centro e ed alcune regioni del nord ( Trentino Alto-Adige, Valle d’ Aosta, Friuli, Liguria ). In parecchie regioni beneficiate si sono visti degli sviluppi nell’ insieme positivi. A sud, a parte alcune rare eccezioni, è invece sempre notte fonda. Il sud vive da decenni da zona cronicamente sovvenzionata. Le mafie sono cresciute per dinamica propria, ma anche succhiando e gestendo il flusso finanziario in modo tale da diventare sempre più il perno della società meridionale.
I maggiori ‘donatori di sangue’ sono in buona sostanza 4 regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna ed in misura minore il Piemonte. Il drenaggio è imponente e non ha nessun raffronto in Europa. Per ragioni di consenso, per clientelismo o mala amministrazione ( anche nello stesso nord) il nostro sistema politico ha espanso la spesa pubblica ai livelli che conosciamo. Da circa 20 anni il debito pubblico è stabilmente oltre il 100% del PIL annuo. Ora siamo a circa il 120%. Soprattutto il settore produttivo di beni e di servizi è stato oberato in modo crescente da misure fiscali e tariffarie, fisse o una tantum. Per un certo periodo l’ ‘ancora di salvezza’ per gran parte dell’ industria è stata l’ esportazione, anche grazie alla leva monetaria, costituita da un mix di svalutazioni della lira e di inflazione. Quando questa è venuta meno, con l’ entrata nell’ area dell’ Euro, i guai sono diventati grossi. In parte, ed in modo assai differente tra le singole unità produttive, la pressione è stata compensata con l’ evasione fiscale. Ma anche questa soluzione non è stata sufficiente, visto che importatori ed esportatori soggiacciono agli standard di controllo intereuropei ed internazionali. Guarda caso il ristagno nella crescita economica italiana, che si rispecchia in parte anche nel PIL e che preoccupa da anni, data proprio dieci anni. Casati vede un nesso tra i due fenomeni seguendo nella sua diagnosi altri autori, tra i quali è da segnalare soprattutto Luca Ricolfi.
Casati ritiene di aver provato, dati alla mano, che il maggior rischio in Italia consiste oggi nel soffocamento dei settori che hanno sempre tenuto a galla il Paese negli ultimi decenni garantendo il flusso delle risorse da distribuire in vario modo nel Paese. Non si limita però a porre un problema territoriale e settoriale. Più in generale l’ Italia ha anche un forte squilibrio trasversale nel rapporto tra Contadini e Luigini. Troppo grande è il peso della rendita e troppi sono i Luigini in rapporto ai Contadini. Ben s’ intende: anche tra i Luigini bisogna fare una fondamentale distinzione. Ci sono i Luigini che a buon diritto lo sono diventati, che dopo decenni di vita da Contadini si sono guadagnati la pensione, che non è altro che salario differito. Ma ci sono troppi Luigini di altro tipo: i beneficiari di rendite di posizione lucrative e di commesse di stato, le mafie, tante lobby e clientele, gli evasori sistematici, i grandi evasori e pure tanti giocolieri del capitale finanziario. Da non dimenticare anche tanti capitalisti che, in combutta con settori della politica, hanno ottenuto appannaggi, privilegi, monopoli sotto mentite spoglie. Tanto per fare qualche nome: i Ligresti, i Tronchetti-Provera, i Tanzi, i Cragnotti. Alcuni di essi sono sempre stati Luigini, begli esemplari nati e cresciuti nel seno del capitalismo predatorio e parassitario. Altri invece, da Contadini si sono fatti Luigini, come i Benetton. Si segnala anche qualche caso di passaggio in senso opposto, come quello del Luigino di lungo corso Fiat, anche se Casati non è del tutto certo dell’ effettivo passaggio.
Sul finire del libro gli autori giungono ad una tesi drastica. Sostengono che i Luigini di alto bordo sono un vero e proprio blocco sociale, un blocco assai potente che ha sempre saputo mettersi in relazione con il “Palazzo”. E quale sarebbe il ruolo di quest’ ultimo ? Quello di fungere da centrale di drenaggio e smistamento di risorse verso di loro, ma anche da agenzia che gestisce su larga scala l’ erogazione di assistenza all’ ampio e variegato popolo dei Luigini ‘di piccolo taglio’ , naturalmente in cambio del consenso. Ma non solo. Il “Palazzo” funge anche da erogatore di risorse che finiscono in mano alle mafie. Le quali a loro volta hanno bisogno di far rifluire ingenti capitali nelle attività dei Grandi Luigini.
La situazione è per G. Casati decisamente drammatica. E la sua proposta qual’ è ? I Contadini debbono assolutamente prendere coscienza di sé e formare un contro-blocco. Devono organizzarsi contri i Luigini in una lotta sistematica e senza quartiere che porti a un superamento degli squilibri strutturali e delle ingiustizie che ammorbano il Paese. Il centro dell’ azione dovrebbe consistere nella disarticolazione dell’ asse “Palazzo”/Élite Luigina.
Sembra la vecchia linea del “patto tra i produttori” caldeggiato negli anni ’70 dal PCI e da politici come U. La Malfa, B. Visentini o da giornalisti come Scalfari. Ma per Casati non è proprio così. Il vecchio “patto tra i produttori” sarebbe stato prevalentemente di natura tattica. Ora si tratterebbe di farne una strategia di rinnovamento strutturale e di lungo periodo.
Questa grosso modo la sostanza del libro. Non voglio per ora addentrarmi nelle tesi degli autori. Vorrei piuttosto, per offrire elementi di giudizio, riportare dei dati espunti dalla fatica di questi milanesi arrabbiati. Dati che raggruppo un poco a modo mio.


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ENTITÀ e PESO DEL DEBITO PUBBLICO
Il debito pubblico accumulatosi ha raggiunto di recente i 1935 mld. di Euro. Nel 2008 era pari al 105,8% del PIL. Nel 2009, con l’irruzione della crisi mondiale è passato al 115,9%. Nel 2011 pare abbia raggiunto il 120%.
[ Nota mia: Per servire i creditori, nazionali ed esteri, lo stato spende dunque in interessi, per ogni punto percentuale, 19 mld. di Euro. Anche ad un interesse medio del 5% (da un mix ipotetico tra buoni del tesoro a breve e lunga scadenza) significa sborsare ogni anno 95 mld. di €: una cifra spaventosa. Immaginatevi poi la media del 7%… che avevamo raggiunto di recente. Non è esagerato sostenere che Berlusconi ci stava portando dritto nel baratro. Fortunatamente sono entrati in campo Napolitano e i due super-Mario, ai quali andrebbero intonati ogni tanto dei peana ].
E già l’ incidenza del debito pubblico nel 2006 [ anno in cui il rapporto debito/PIL era del 106,9% ] ammontava al 4,6% del PIL. Quando invece l’ incidenza in Spagna era dell’ 1,6% ( anche perché il PIL era in piena bolla immobiliare ), in GB era del 2%, in Francia del 2,6% e in Germania del 2,8%.

ORIGINE DEL DEBITO PUBBLICO
L’ origine del debito pubblico è presto spiegata. A fronte di una base produttiva decrescente, l’ erogazione di reddito ai ceti non produttivi è cresciuta regolarmente. Le fonti maggiori del debito sono state la previdenza sociale e la sanità. Ma anche l’ assistenzialismo e il ha avuto la sua parte, soprattutto negli anni ’70 e ’80. Ad queste voci vanno aggiunte l’ economia sommersa o semi-sommersa ( che arriva ad evadere tasse e contributi fino al 100% ) e l’ evasione fiscale, quella cronica e cancerogena dei Luigini più incalliti e quella a cui anche molti Contadini sono ricorsi. Infine l’ attività delle mafie “produce” un fatturato annuo che pare ammontare a 135 mld. di Euro, con un utile che si stima di circa 70 mld. al netto di investimenti e accantonamenti. E non si dimentichi che la mafia è anche un cardine attorno al quale ruotano ingenti attività di economia sommersa.

SQUILIBRIO 1: TROPPO POCHI PRODUTTORI DI REDDITO
Nel 2007 il trio dei principali erogatori di reddito (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), la cui popolazione corrisponde al 31,5% dell’ intera popolazione italiana, ha prodotto il 39% dell’ intero PIL nazionale. Il Nord nel suo insieme, con il 45,5% della popolazione, ha prodotto il 54,5% del PIL. Il Centro, in cui vive il 19,6% della popolazione, ha contribuito per il 21,6%. IL Sud con le isole, abitato dal 34,9% degli italiani, ha infine prodotto il 16,0% del PIL. Si noti che nel PIL non è conteggiato solo il reddito dei settori primari della produzione ed il terziario, ma anche tutto il settore pubblico. Se i conti venissero fatti scorporando dal PIL quest’ ultima voce, la quale riflette un settore indispensabile che però non crea beni tangibili o servizi direttamente funzionali alla produzione, i conti sarebbero ancora più squilibrati.

SQUILIBRIO 2: IL DEFICIT DELLA PREVIDENZA SOCIALE
La previdenza sociale ha inciso nel periodo 1980/2003 per circa il 60% nella determinazione del debito pubblico italiano. Dunque la voce di gran lunga prevalente. Siccome i contributi previdenziali dei tre settori primari da molti decenni non coprono le uscite per vari motivi
(a causa della contrazione della base produttiva, per motivi demografici, per la dilatazione dell’ onere causato da prepensionamenti, allungamento della vita, pensionamenti troppo precoci) che cosa si è fatto ? Da un lato si è inasprito il carico fiscale e si sono incanalate ingenti risorse per coprire la spesa previdenziale, dall’ altro si è ricorso all’ indebitamento.
Ma nel far questo si sono creati o acuiti squilibri regionali. Infatti, se si scompone per regioni o per macroregioni il debito previdenziale creatosi dal 1980 al 2003, lo si capitalizza secondo i tassi di interesse del periodo e lo si traduce in moneta corrente del 2003, si ottengono questi risultati: la Lombardia sarebbe creditrice per oltre 68 mld. di Euro, il Lazio per 15 mld. di Euro. Quasi tutte le altre regioni sono invece più o meno debitrici. Ad esempio il Piemonte sarebbe in rosso di 77 mld, la Toscana di 73, la Calabria di 88, la Puglia di 130 e la Sicilia di 168 mld di Euro ( il 17,5% dell’ intero deficit previdenziale ). Nell’ insieme il debito è così ripartito: il Nord ne è responsabile per il 19,8% ( con il 45,5% della popolazione totale ), il Centro per il 12,4% ( a fronte del 19,6% della popolazione), il Sud con le isole per il 67,8%
(con il 34,9% della popolazione). Ancora nel 2003 il disavanzo annuale totale ammontava a poco più di 37 mld di €, così suddivisi: 9,6 a causa del Nord, il 5,3 a causa del Centro e 22,2 a causa del Sud e delle Isole.


SQUILIBRIO 3: IL DISAVANZO SANITARIO PUBBLICO CUMULATO
Come si sa, lo Stato affida alle regioni la gestione della sanità. Dal centro vengono distribuite le risorse in modo sostanzialmente equo. La salute è giustamente considerato un diritto di ogni cittadino. Ma nonostante questo, grazie all’ interposizione regionale si creano squilibri e molte regioni sono riuscite ad accumulare debiti gravosi. Ad esempio, negli anni 2001/2007, si è cumulato un debito globale di poco più di 30 mld. di euro. La ripartizione è di nuovo anomala: al Nord va addebitato circa il 13% del totale, al Centro quasi il 44% e a Sud e Isole circa il 43%. Si noti: il Centro è riuscito ad ottenere un risultato di tutto rispetto sebbene il Lazio avesse cumulato il 33,7% del totale. Dunque le altre regioni del Centro hanno i conti in ordine. Le regioni che hanno amministrato peggio sono state, oltre al Lazio (campione nazionale in materia) la Campania e la Sicilia. Le tre regioni assieme pesano per il 68% del totale. Non può sfuggire il nesso tra la mala amministrazione ed il clientelismo, forse anche criminale. Tra l’ altro è noto come la qualità delle prestazioni sanitarie delle regioni che amministrano peggio lasci molto a desiderare.

SQUILIBRIO 4: IL RESIDUO FISCALE
Per residuo fiscale si intende la differenza tra tutte le entrate, fiscali e non, che la Pubblica Amministrazione preleva da un territorio e le risorse che vi vengono spese.
Va subito detto che in genere è normale che un Paese abbia un residuo fiscale, non può infatti reinvestire tutto nei territori. Ci sono anche voci di bilancio solo centrali. Ma il nostro Paese reinveste sempre meno nei territori, dovendo onorare gli impegni del debito pubblico. Negli ultimissimi anni poi il trend è andato peggiorato drammaticamente. E questo è un discorso. Un altro riguarda invece gli squilibri regionali nel dare e nell’ avere.
A titolo di esemplificazione valgano i dati del 2006. Sette regioni hanno avuto residui fiscali attivi ( cioè hanno dato più di quanto abbiano ricevuto ), le altre tredici hanno invece avuto, chi più chi meno, dei residui fiscali passivi. Nell’ insieme il Paese registra un residuo fiscale attivo di quasi 46 mld. di Euro, ma la distribuzione in macroregioni è stata questa: Il Nord aveva un attivo di 71,9 mld., il Centro un attivo di 10,3 mld, mentre Sud e Isole un passivo di 36,3 mld. Un’ anomalia macroscopica, che si rivela ancor più incredibile scoprendo che il solo residuo fiscale della Lombardia ammontava a 37,9 mld. Altre due regioni avevano grosse performance: l’ Emilia-Romagna con 15,3 mld. ed il Veneto con 15,6 mld. Il totale messo sul piatto è di 68,8 mld. di Euro in un solo anno. Una vera patologia, un disequilibrio insostenibile che non ha eguali in tutta Europa.
Diamo altri numeri per spiegarci meglio. Il residuo fiscale attivo della Lombardia valeva nel 2006 l’ 11,5% del proprio PIL, quello del Veneto il 10,3%, quello dell’ Emilia-Romagna il 10,1%. Tutti e tre record europei. Tanto per fare raffronti: quello della Baviera corrisponde al 3,5% del proprio PIL, quello del Baden-Württemberg il 4,4%, quello della regione di Londra il 6,7%, quello dell’ Île-de-France il 4,4%. Solo la Catalogna si avvicina ai nostri record, con un altrettanto anomalo 8,1%, ma non tale da impensierire i nostri battistrada.
Si può anche sostenere a buon diritto che il trio dei nostri ‘donatori di sangue’ sia il vero e proprio pagatore finale nel nostro Paese. Ma non solo. Il giogo è diventato evidentemente troppo oneroso, patologico. Tra l’ altro non si hanno indizi che il transfer abbia prodotto circoli virtuosi in buona parte delle regioni meridionali in cui le risorse sono state dirottate.
Da ultimo un fatto su cui riflettere: proprio quelle nostre tre regioni sono quelle che in Europa nell’ ultimo decennio hanno registrato il maggior calo di competitività. A questo punto non è esagerato parlare di questione settentrionale, con una precisazione: non tutto il Nord è nelle stesse condizioni. La questione si restringe in buona sostanza a tre regioni.


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Passiamo ora ai dati che riguardano l’ evasione fiscale e l’ economia sommersa. Orbene, ritengo che quanto riportato in “Luigini contro Contadini” vada integrato con altri dati a nostra disposizione. E questo per due motivi. Innanzitutto le differenze, pur riguardando periodi diversi, risultano notevoli e penso risentano anche di vari metodi di stima o rilevazione; poi, i nuovi dati sono molto più freschi. Non avendo però la competenza per argomentare a favore di un gruppo di risultati o dell’ altro preferisco riportarli tutti.

SQUILIBRIO 5: EVASIONE FISCALE, ECONOMIA SOMMERSA e LORO SQUILIBRI
Sappiamo quanto difficili siano le stime delle cose nascoste. Per parte mia ammetto di non sapere con quali indicatori, estrapolazioni o altri artifici statistici vengano stimate le due grandezze di cui ora ci occupiamo. Provo però a far mente locale e ad abbozzare una piccola fenomenologia dell’ evasione e del sommerso.
L’ evasione viene praticata, e non poco, anche da operatori del settore emerso. Basti pensare al barista che non dà lo scontrino, all’ artigiano, la cui ditta è regolarmente registrata, che vi rifà il bagno in nero, alla piccola ditta che vende parte dei suoi prodotti direttamente in nero, a quella che fornendo un negozio o un artigiano non mette in bolla tutto quanto consegna. Poi c’ è il pensionato che fa dei lavori in nero per arrotondare la pensione. Poi c’ è il dipendente della ditta privata che lavora in nero al di fuori dell’ orario di lavoro o c’ è il dipendente in cassa integrazione che fa lo stesso. Ancora, si ha il caso del dipendente di un ente pubblico che, in malattia o non, svolge un’ attività in nero. Nell’ insieme questi evadono vari tipi di tasse: solo IVA e IRPEF, oppure anche IRES o IRAP.
Passo ora alle unità produttive del settore semi-sommerso e di quello interamente sommerso. Nel primo caso si tratta di quelle ditte che ufficialmente hanno un dato organico, ma in realtà occupano più personale. Qui la ditta evade certamente IVA e IRAP e i contributi sociali, il proprietario evade parte dell’ IRPEF che dovrebbe versare, i dipendenti in nero evadono certamente l’ IRPEF e la loro quota di contributi. È una situazione mista: i lavoratori ufficialmente in organico appartengono all’ economia emersa, la ditta solo in parte, i lavoratori in nero appartengono totalmente all’ economia sommersa. Nell’ ultimo decennio il contingente dei lavoratori in nero è certamente aumentato, e di molto. È infatti possibile attingere abbondantemente agli immigrati, ufficializzati e clandestini. Penso però che anche la manodopera indigena eserciti attività in nero in maniera crescente, soprattutto nel sud, al massimo grado nelle terre di mafia. Ci sono poi le unità produttive che appartengono totalmente all’ economia sommersa: evasori totali di tutti i tipi di tasse e contributi. Ma si badi bene: tra queste unità produttive non va annoverata la mafia in senso stretto. Quella è dedita in modo primario ad attività illegali, attività che non vengono considerate né parte del PIL né tassabili. Per fortuna! Se qualche contabile proponesse di farlo andrebbe subito arrestato.
Riflettendo ancora un poco mi pare però che, quanto all’ evasione fiscale in sé stessa, quanto al valore aggiunto nel processo produttivo, sia irrilevante da che tipo di fonte provenga il reddito prodotto su cui si evadono le tasse. Le responsabilità sociali sono molto diverse, di differente gravità, ma se 1€ è evaso da un’ unità produttiva completamente emersa o da una totalmente sommersa, resta sempre 1€ evaso e come tale ricade completamente nel reddito sommerso. Volendo fare i pignoli, nel caso dell’ IRPEF, dell’ IRES o dell’ IRAP l’ evasione è maggiore nel caso di un operatore emerso che in quello di un operatore sommerso, visto che quell’ Euro andrebbe soggetto ad un’ aliquota più alta. Ma sottolineare questo rasenta il cinismo.
Fatta questa premessa-riflessione passo ai dati riportati nel libro di Casati. Basandosi sulla stima della Agenzia delle Entrate il valore aggiunto della nostra economia nazionale su cui si sono evase tasse e tributi ammontava nel periodo 1998/2002 mediamente a 202,6 mld. di Euro. L’ entità del sommerso, stando alle elaborazioni di dati Istat e Censis, ammontava nel 2003 a 205,1 mld. di Euro. Insomma… una buona corrispondenza che corrobora entrambe le stime. L’ incidenza dell’ evasione sul PIL, stando ai dati di “Luigini…”, ammontava per quel periodo al 16,3%. A questo punto sono rimasto perplesso. Avevo sentito parlare di cifre più alte, sui 300 mld. di €. Su qualche giornale avevo letto di una cifra simile, ma non sapevo più su quale, né per quale anno. Ma non è tutto. Da qualche altra parte avevo letto che anche la Germania aveva all’ incirca il 15% di sommerso rispetto al PIL. Possibile ?
Rovistando in internet ho dapprima trovato una tabella riportata, o elaborata, dalla università di Linz (A). Ebbene, per il 2009 l’ incidenza del sommerso in Italia sarebbe ammontato al 22% del PIL, in Grecia al 25%, in Germania al 14,6%, in Francia all’ 11,6%. O i dati riportati da Casati erano ottimistici, o quelli esposti nel sito di Linz erano troppo pessimistici, o il sommerso in Italia aveva fatto negli ultimi anni veri passi da gigante.
Non contento, ho continuato a cercare e mi sono imbattuto in dati freschissimi, elaborati da “Tax research London” (sotto la guida dell’ economista R. Murphy) su commissione del gruppo socialdemocratico (S&D) dell’ europarlamento e presentati il 29/02/2012 ( http://www.taxresearch.org.uk/Blog/2012/02/29/the-eu-tax-gap-new-evidence-shows-there-is-e1-trillion-of-lost-revenue-to-target-to-save-our-futures-from-despair/ ). I dati si riferiscono al 2009. State a sentire: il sommerso italiano ammonterebbe a 418,23 mld. di €, pari al 27% del PIL, quello greco al 27,5%, quello tedesco al 16%, quello francese al 15%, quello austriaco al 9,7%, quello inglese al 12,5%. A far ‘meglio’ di noi sarebbero solo i paesi balcanici, quelli baltici e la Polonia (27,2%). L’incidenza media dell’ economia sommersa nella UE sarebbe del 22,1% del PIL. In generale va detto che nella UE – in seguito al suo allargamento, a causa della crisi economica e per irrazionalità nel welfare – certi dati macroeconomici sono peggiorati. E questo vale per tante economie del continente. Ciò non toglie che il confronto diretto con le economie-cardine dell’ UE è per noi assai preoccupante.
Se i dati più recenti sono questi, allora l’ entità globale dell’ evasione fiscale e del sommerso riportata da “Luigini…” va aggiustata. Ciò non implica però che il quadro offerto da G. Casati sulla distribuzione territoriale dell’ entità e dell’ intensità non sia illuminante. Passo pertanto ad esporlo.

Nel quinquennio 1998/2002 l’ entità media del reddito sottratto al fisco, in termini assoluti e suddivisa per regioni, vedeva in testa alla classifica queste 4 regioni : Lombardia = 21,5 mld. di €, Campania = 20,4 mld. di €, Sicilia = 18,3 mld. di €, Piemonte = 18 mld. di €.
Se invece si faceva la stessa classifica rapportando il reddito evaso al reddito imponibile regionale, se cioè se ne misurava l’ intensità dal punto di vista del dovere fiscale, i primati in classifica andavano così assegnati: Calabria = 93,98 € evasi ogni 100 € dichiarati, Sicilia = 65,89 € evasi ogni 100 € dichiarati, Puglia = 60,65% di evasione, Campania = 60,55% di evasione. Agli ultimi posti della classifica stavano queste regioni: Lazio = 26,05% di evasione, Veneto = 22,26% di evasione, Emilia-Romagna = 22,05% di evasione, Lombardia = 13,04% di evasione.
Stilando invece la classifica secondo l’ intensità di evasione calcolata in rapporto al PIL regionale questi erano i risultati: primi 4 regioni: Basilicata = 34,79% di evasione, Calabria = 31,60% di evasione, Sicilia = 26,10% di evasione, Campania = 25,46% di evasione; ultime 4 regioni: Veneto = 12,74% di evasione, Emilia-Romagna = 12,71% di evasione, Lazio =12,66% di evasione, Lombardia = 8,3% di evasione.
Stando alle stime Istat e Censis per il 2003 l’ intensità dell’ economia sommersa calcolata in rapporto al PIL delle macroregioni era questa: Nordovest = 12,8% del proprio PIL, Nordest = 13%, Centro = 14,7%, Sud e Isole = 21,2%. Italia = 15,4% del PIL globale.
Lavorando sui dati della Agenzia delle Entrate ho elaborato per conto mio un altro tipo di quadro dell’ intensità del reddito sommerso. Ho semplicemente calcolato il rapporto tra reddito imponibile totale di una regione e il proprio PIL ( ovvero Indice IMP/PIL, per brevità: I:I/P ). Ecco i risultati a cui sono giunto: Calabria = 33,62% I:I/P, Sicilia = 39,61% I:I/P, Campania = 42,05% I:I/P, Lazio = 49,60% I:I/P, Veneto = 57,2% I:I/P, Emilia-Romagna = 57,6% I:I/P, Lombardia = 63,6% I:I/P. Mi pare che così si veda in modo particolarmente plastico la correttezza o scorrettezza fiscale delle varie regioni. È evidente a tutti che mai l’ imponibile e il PIL potranno coincidere, così da avere un rapporto 1 / 1 tra queste due grandezze. Sono assolutamente un principiante in materia, ma i valori della Lombardia, Emilia e Veneto mi sembrano abbastanza ‘centro-europei’. Già quello del Lazio mi pare invece poco soddisfacente. Sapendo quanta amministrazione pubblica vi risieda, sapendo che in questo settore è impossibile evadere l’IRPEF e i contributi, mi sarei aspettato qualcosa di più. Questo sta a significare che nei settori privati del Lazio l’ indice di evasione è molto più alto, cioè che il valore si avvicinerebbe alle regioni meridionali. Riflettendo sui dati che marcano le 3 regioni meridionali c’ è solo da intristirsi o arrabbiarsi.
Gabrio Casati, tirando le somme dalle tabelle che riportano i dati della Agenzia delle Entrate, espunge dal rapporto della stessa agenzia questa frase: “ Questa analisi sconfessa il luogo comune che tende a collocare esclusivamente al nord l’ ammontare maggiore di somme occultate al fisco “. Nel commento in proprio, Casati aggiunge che anche la presunta omogeneità del nord è un mito da sfatare. Le tre regioni più virtuose sono le solite: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. I dati delle altre sono meno o molto meno soddisfacenti. A pag. 32 di “Luigini…” si legge: “ (…) nell’ ambito di un fenomeno patologicamente diffuso su tutto il territorio nazionale, ci sembra evidente che l’ evasione sia, in una scala relativa, da imputare largamente ai territori meridionali e centro-meridionali della penisola. “
Nelle pp. 34 e 35 leggiamo ancora: “ Si delinea dunque una situazione paradossale. Tutte le regioni dell’ Italia meridionale ricevono (…) trasferimenti statali in misura incomparabilmente superiore rispetto a quanto avviene negli altri paesi europei. Esse inoltre si sottraggono ampiamente all’ esercizio nazionale della solidarietà territoriale tramite livelli sostenuti di economia sommersa e di evasione fiscale. È come abitare in un appartamento ad affitto calmierato e rifiutarsi di pagarlo. Si vince due volte. Un comportamento non esattamente solidale, che in condizioni come quelle che da lungo tempo si manifestano in Italia – bassa crescita e rigidità di bilancio – pone in capo alle regioni pagatrici un onere sempre più gravoso, esasperando il conflitto per l’ allocazione di risorse. “


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Il secondo capitolo di “Luigini…” è interamente dedicato alla politica. Le domande a cui gli autori vogliono rispondere, o riguardo alle quali ritengono assodata la risposta, sono in fondo queste: Qual’ è stato il ruolo della politica nella creazione degli squilibri sociali e macroeconomici descritti, cioè nel creare la Questione Settentrionale (Q. S.) ? In generale, come vi siamo giunti Una volta emersa la Q. S. e una volta raggiunte certe dimensioni negli squilibri macroeconomici, in che acque si è trovata a navigare la politica… come ha reagito ?
Che spazi di manovra ha avuto negli ultimi 20 anni ed ha ora ? Quali sono stati finora gli sbocchi ? Quali saranno in futuro ?
Il capitolo è nel suo insieme piuttosto stringato, ma non per questo meno pregnante. Contiene anche parecchie premesse implicite, che meritano di essere esplicitate. Una di queste è proprio la conoscenza del prologo della crisi che vuole analizzare. Pertanto, prima di abbozzare la risposta che dà Casati, permettetemi questo


Excursus:


Dall’ inizio degli anni ottanta fino al termine della cosiddetta Prima Repubblica, finiti i gravi conflitti degli anni settanta e settanta, chiusasi la fase più acuta della difesa dell’ ordine costituzionale, archiviato il tentativo del Compromesso Storico e, per alcuni, del massimo grado di consociativismo tra maggioranza e opposizione, il Paese è abbastanza saldamente governato dal pentapartito ( DC, PSI, PSDI, PRI, PLI ) vale a dire: da un centro-sinistra lievemente corretto. Rispetto al passato c’ è però una novità. In questo blocco di forze spicca l’ attivismo del PSI craxiano, quel PSI che cerca di erodere consensi sia alla DC che al PCI in un progetto che viene chiamato “modernizzazione del Paese”. Questo partito guarda in modo crescente ai ceti medi, vede di buon occhio la ristrutturazione industriale
( da alcuni detta “postindustriale” ) in atto, consistente nel declino in Italia della grande industria, nella decentralizzazione in unità produttive più piccole, più agili, in cui il conflitto tra capitale e lavoro è attenuato e frazionato. A ciò si aggiunge la crescita enorme del settore terziario. Un poco in tutti i ceti di questa realtà in movimento il PSI è in cerca di consensi, ma lo fa senza abbandonare l’ industria di stato ed i resti della grande industria privata. Gioca quindi su tutti tavoli. Di più: non rinuncia a servire clientele sparse un po’ in tutto il Paese. Del resto la DC ha anche una sua storia in materia e non vuole lasciare che l’ alleato pascoli troppo ingordamente nelle proprie praterie. Nel loro piccolo, anche gli altri tre partiti si danno da fare, oppure devono ingoiare grossi rospi ( penso soprattutto al PRI, alla lezione di U. La Malfa , alla sua critica dell’ assistenzialismo ecc. ).
Il più spregiudicato è di certo il PSI, che lascia intendere ai suoi alleati che, se cadessero certe premesse ideologiche a sinistra, se cioè il PCI e le forze sindacali ad esso legate accettassero la prospettiva di un ‘ritorno’ alla vecchia casa del riformismo socialdemocratico, allora passerebbe a nuove alleanze. Insomma, una posizione ideale, al centro di qualsiasi dinamica politica, efficace e incalzante sia sul governo che sull’ opposizione. Ne consegue che il pentapartito è di fatto un’ alleanza molto concorrenziale in cui ogni componente della maggioranza governativa si lancia a caccia di consensi… pro bono suo. Ecco in breve spiegata la spinta a fare uso delle risorse pubbliche, anzi ad ampliarle e gestirle.
Per completare il quadro va detto che sono anni di forte sviluppo economico mondiale, trainato dal modello reaganiano e thatcheriano che prevede e pratica la ‘liberazione’ del mercato, togliendogli i ceppi del dirigismo socialdemocratico. Ma questo non è tutto. Proprio Reagan dà la stura a un drammatico aumento del disavanzo statale con un doppio ‘assalto alla diligenza’: forte aumento della spesa pubblica, soprattutto militare, e al contempo forte riduzione del gettito fiscale per i ceti medio-alti. Ma anche chi pratica una politica socialdemocratica non è da meno. Ad esempio in Francia il debito pubblico, pur partendo da livelli decisamente bassi, cresce a ritmi elevati.
Quelli sono anni, un po’ dappertutto, di crescita dopata. E noi italiani non vogliamo essere da meno, anche per la costellazione politica di cui sopra. Dunque, pur partendo da un debito pubblico più alto rispetto agli altri partner europei [Nel 1982: 60% del PIL da noi, a fronte del 40% in Germania e del 25% in Francia ] ci mettiamo a ‘lavorare’ sulla nostra performance. Con un mix di sovvenzioni, di crescita incontrollata della spesa pubblica regionale ed un forte incremento della spesa previdenziale, riusciamo a superare già all’ inizio degli anni ’90 la barriera del 100% del PIL. E già nel 1995, quando quella stagione politica era miseramente finita, raggiungiamo il fatidico 120% del PIL. Per dare un’ idea della nostra corsa: in quell’ anno sia Francia che Germania si erano ‘fermate’ al 55,5%.
Non credo però opportuno chiudere qui l’ excursus. Gli anni ottanta sono stati ovunque il decennio in cui è dilagato l’ edonismo di massa. Lo si giudichi come meglio si crede, ma questo è il grande fenomeno che anche da noi, anzi, da noi più che in ogni altro luogo, ha trasformato il modo di vita e la ‘cultura’ di gran parte della popolazione. Dopo i seriosi o drammatici anni ’60 e ’70 si balla al ritmo della disco music, sia in senso letterale che metaforico. Non si prova più vergogna ad occuparsi solo di se stessi o della piccola cerchia di sodali, a massimizzare il divertimento e il benessere materiale. La parola “liberazione” risuonò forte negli anni ‘70 di un suono quasi metafisico o epico, ma ora è diventata di colpo obsoleta, ha lasciato il posto alla parola “libertà”. Bella parola, ma anche molto polisensa. In ogni caso un termine che non indica più una tendenza, ma uno stato già raggiunto, da godere qui ed ora. Poco alla volta, ognuno cerca se stesso nel benessere privato. Le forze e i gruppi sociali divengono via via più piccoli ed astenici. Più o meno consciamente quasi tutti si ripiegano su se stessi. Dimentichi delle tensioni e degli slanci del passato si sorseggia il rosolio dell’ oggi. Alla sera, poi, si sogna, o si sbava, davanti al televisore, bevendosi sui canali berlusconiani tette o bicipiti gonfiati.
Questa componente non è l’ unica nella storia sociale e politica del nostro Paese. Il crollo della Prima Repubblica ha a che fare con l’ uso miope delle risorse da parte della classe dirigente, con lo smarrimento della loro stessa identità, con la crisi della lira, con la corruzione che d’ improvviso sembra non più tollerabile, ha moltissimo a che fare con il cambiamento radicale del quadro internazionale; ma un tale crollo non lo si può capire del tutto senza l’ elemento socio-culturale che gli sta attorno in modo pervasivo. Di più, senza questo elemento non si possono nemmeno comprendere gli sviluppi successivi, la sguaiata stagione della cosiddetta Seconda Repubblica e nemmeno le difficoltà in cui oggi ci dibattiamo.
E pensare che tutto sembra funzionare tanto bene. Lo stato espandeva il debito pubblico… e così tanti ne beneficiavano direttamente. Tanti altri indirettamente. Penso al cosiddetto Bot-People che staccava cedole da interessi oltre il caro-vita. Sì, perché le risorse finanziarie dove le si trovava ? Nel Paese stesso, visto che gli investitori esteri se ne stavano alla larga dal Paese della Cuccagna.
E i veri produttori di ricchezza come venivano trattati ? Di certo andavano spremuti, perché andavano pur trovate anche delle risorse vere, fresco denaro sonante. A testimoniare questo fatto: l’ incremento della pressione fiscale sull´economia emersa passò dal 35% del 1985 al 43% del ’93. Ma d’altro canto i produttori venivano ‘ricompensati’ con il fiorire delle esportazioni, complice la svalutazione costante della lira, e con la vivacità del mercato interno, sempre un poco dopato da un tasso di inflazione corroborante ma, malgrado tutto, sotto controllo.
Ma perché il giocatolo di è rotto ? Fosse la nostra penisola un’ appendice di qualche parte del Sud America, il gioco sarebbe andato avanti ancora… fino ad un tasso d’ inflazione fuori controllo, alla sudamericana… appunto. Invece noi apparteniamo all’ Europa. E l’ Europa aveva e ha le sue esigenze. Ad esempio, sia per far procedere l’ integrazione, sia per dotarsi di buoni equilibri in vista del mercato unico, aveva bisogno di stabilizzare i rapporti di cambio tra le monete europee. Ecco l’ origine di tutti i nostri guai: la vil moneta!! Gente lungimirante come Helmut Schmidt e Giscard d’ Estaing, ancora negli anni ’70, aveva avuto la ‘pessima idea’ di inventare il cosiddetto “serpente monetario”. Da allora le svalutazioni allegre diventavano un problema. E questo accadeva ancora prima che la nostra classe dirigente stesse imbandendo la tavolata: una classe dirigente sempre molto attiva… in quanto ad europeismo da teatro. Poi, altra gente lungimirante come H. Kohl, Mitterand, Delors proseguiva il lavoro nel solco tracciato. Nel frattempo, da noi la festa aveva inizio.
Quando si giunse negli anni ’90 all’ accelerazione decisiva per avanzare nell’ integrazione europea ( Trattato di Maastricht ed entrata italiana nel club dell’ Euro ) ecco che ‘ci capitarono tra capo e collo’ i vincoli del deficit annuo di bilancio (3% massimo) e del debito pubblico totale (60% massimo). Vincoli applicati, poi, con una certa discrezionalità. Ma il quadro era quello… un quadro in cui i nostri numeri non potevano rientrare, ma soprattutto che improvvisamente non poteva non scontentare i convitati del banchetto. Come in un film felliniano il convivio si era dissolto nel nulla. Rimaneva una realtà amara per molti. Finiti i margini di manovra di cui disponeva la vecchia politica… la nuova classe dirigente, che non era altro che la riedizione frastornata della vecchia, si trovava sostanzialmente costretta, per seguire il carro europeo, ad incrementare ulteriormente la pressione fiscale e a ridurre la spesa pubblica. Nulla le avrebbe però vietato di parlare chiaro al Paese, di fare appello alla razionalità, di proporre un patto, quantitativo e qualitativo, di riequilibrio sociale e macroeconomico, giocato su una creazione di risorse e una riduzione qualificata della spesa, tra debito da onorare ed impulso alla crescita. Ma vista la qualità degli attori… le cose andarono diversamente.


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Riprendo ora il filo del discorso di G. Casati. Nel secondo capitolo del libro, intitolato “La Questione Settentrionale come Questione della Politica”, gli autori mettono in rilievo che ormai, almeno dal 1992, la Q. S. è definitivamente emersa. Ribadiscono che la sua incubazione è stata tutta politica. Sottolineano infine con forza che però la classe politica, nel suo insieme, non la riconosce affatto come tale, con i suoi connotati peculiari. Così facendo non può nemmeno abbozzarne un’ analisi e men che meno prospettarne una soluzione. La classe politica italiana tradizionale, sconquassata dalla crisi di Tangentopoli, in parte si sfalda, in parte batte in ritirata, in parte continua ad agire senza comprendere né interpretare le ragioni profonde dei nuovi conflitti. Con la Seconda Repubblica la sostituirà un ceto politico, in parte ortodosso, in parte eterodosso, oggettivamente ancor più impotente o pavido, privo di mezzi materiali e di strumenti interpretativi adeguati. Così accade che la Politica non solo non sappia identificare le responsabilità passate, ma dipinga le riforme da fare o i sacrifici che ci si deve sobbarcare come “necessità tecniche”, imposte dall’ emergenza economica, e non già come parte di un progetto politico di critica del passato e di razionalizzazione del sistema. La copertura razionale delle misure prese è sempre fornita dalla necessità di rimanere agganciati all’ Europa: ancora un volta una giustificazione in fondo esterna. Così la Questione Settentrionale diventa e rimane appannaggio della Lega Nord.
Cito dalle pp. 65 – 71 questi passaggi:
“ (…) nel momento in cui le extra-risorse non sono più attivabili, la politica ha congelato la sua azione di trasformazione del Paese (…)”
“ (…) le riforme attuate negli anni Novanta, dalle privatizzazioni alla riforma della finanza pubblica alle pensioni, hanno pesantemente inciso sulla vita di milioni di individui e non sono state né socialmente neutre né a costo zero. “
“ (…) quelle riforme hanno impattato sugli interessi di categorie prive di rappresentanza – i giovani, gli utenti – o private della stessa – i lavoratori dipendenti – dall’ avvitamento di un sistema partitico che ha perso la sua funzione di interpretazione dei bisogni e rappresentazione degli interessi collettivi. “
(…) Le ragioni del conflitto ovviamente esistono lo stesso, ma, nascoste dietro la pretesa dell’ automatica efficienza distributiva del mercato, vengono depotenziate e il conflitto espulso dall’ orizzonte della politica. “
(…) Non stupisce dunque come la Q. S. in quanto conflitto distributivo territoriale non sia oggetto di concreta discussione politica, perché nessun conflitto lo è “.
(…) L´unico conflitto che l’ Italia conosce dal 1993 è quello tra poteri, istituzioni e cordate. “
Più lapidari e chiari di così non si può essere. La trama del discorso di Casati non è sempre del tutto impeccabile, ma un volta inanellati in modo stringente i punti salienti ne risulta un’ analisi lucida e forte. Forte per i tanti punti d’ appoggio che vengono in mente al lettore attento, e particolarmente lucida sulla scorta di quanto già letto nella parte iniziale del libro.
Nel prosieguo del secondo capitolo Casati si avvicina poco a poco al presente. E lo fa con un argomentare efficace e tranchant sulle tre correnti politiche o ideali che avrebbero potuto riconoscere ed interpretare la Q. S.: la sinistra (soprattutto del Nord), l’ area politica e sociale che ruota attorno a Comunione e Liberazione e infine la Lega. Ma tutti e tre questi attori avrebbero fallito malamente, chi più chi meno, per motivi differenti.
Stando a Casati, la prima si sarebbe messa a produrre aria fritta e sarebbe stata sorda agli interessi materiali dei lavoratori. Di più. Con l’ implosione del PSI e lo scioglimento del PCI, per l’ inadeguatezza di categorie analitiche e l’ incapacità di stare in ascolto delle masse che aveva sempre rappresentato, ormai colpite dal deflagrare della Q. S., la sinistra si sarebbe marginalizzata nel Nord del Paese. L’ effetto sarebbe stato quello di regalare un consenso insperato alla Lega e alle sirene berlusconiane.
Il mondo di C.L., che con efficienza e metodo si è fortemente propagato e radicato in Lombardia, tanto da diventare anche il presidio istituzionale più solido in regione, avrebbe sì insistito sul tema del federalismo, ma per un deficit originato dalla sua stessa cultura della mediazione e dell’ inclusione, non sarebbe mai riuscita a cogliere a pieno il nodo della Q. S. e a tradurlo in un’ azione concreta ed efficace. Mancando a C.L. una cultura del conflitto e degli interessi materiali, non sarebbe mai stata in grado di dirigere o imporre gli investimenti strutturali e infrastrutturali necessari alla Lombardia e di dare alla regione un ruolo egemone.
La Lega Nord avrebbe commesso il suo errore capitale vedendo nell’ alleanza con le destre ed i conservatori il veicolo per realizzare il federalismo fiscale. La Lega, l’ unico partito rimasto simile ai partiti della Prima Repubblica, avrebbe sì interpretato in modo brutale, antisolidaristico, le istanze della Q. S., ma l’ avrebbe comunque interpretato. Gli è che la parte politica a cui si era legata non le avrebbe mai permesso di giungere all’ approdo desiderato. Infatti, come pensare di convincere i difensori dei mille clientelismi e delle mille rendite finanziarie e di posizione sparse nel Paese ad accettare il taglio delle risorse di cui vivono ? Infatti il federalismo fiscale è stato prima edulcorato e poi disatteso. Allo stato attuale non sarebbe altro che una scatola vuota. Ecco perché la Lega, cacciatasi in un vicolo cieco nonostante le apparenze ed i consensi elettorali, priva di una vera strategia, si sarebbe presentata sempre di più come partito d’ ordine, difensore delle tradizioni e della sicurezza, compromesse dall’ ‘invasione etnica’. Queste battaglie non sarebbero altro che un surrogato per la sconfitta strategica a cui in ‘nordisti’ si sono condannati.

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Ma come vedeva Casati a metà del 2011 – quando il libro uscì – il futuro prossimo per il nostro Paese ? E quale ruolo si sentiva di assegnare alla nostra Politica ? Il titolo del paragrafo in questione – “ La paralisi “ – sembra non promettere niente di buono. Vediamo che cosa contiene.
Dalla diagnosi finora fatta Casati trae le sue conclusioni in modo stringente. Nelle pp. 96 e 97 leggiamo :“ Il sistema partitico italiano, e con esso quello politico, vive una fase di caos assoluto. (…) Esiste però una forza che può essere assunta come rilevante nella definizione delle spinte che parteciperanno alla costruzione di un nuovo equilibrio (…) : la tendenziale territorializzazione dell’ offerta partitica. La politica fiscale rappresenta il cuore
della politica e del rapporto tra Stato e cittadino, ed è tornata ad occupare il centro quasi esclusivo dell’ analisi e dell’ offerta politica da almeno trent’anni “. Più oltre leggiamo ancora:
“ (…) la questione fiscale italiana ha una precisa connotazione geografica che priva l’ analisi della possibilità di assumere una categoria generale di ‘contribuenti’ da opporre dialetticamente all’ Amministrazione pubblica. (…) I partiti in Italia tenderanno a riconfigurarsi su base territoriale e a rappresentare, finché la Q. S. non verrà risolta, interessi limitati alle dimensioni fiscale e produttiva, con un forte contributo di sicurezza e immigrazione “.
Vista poi la gravità del debito pubblico, i margini per agire in modo concordato ed indolore sarebbero, secondo Casati, nulli. Non rimarrebbe altra soluzione che “ (…) diminuire i trasferimenti ai territori beneficiari e quindi trattenere maggiori dotazioni in quelli pagatori, (…) “ per “ (…) consentire la costituzione di un avanzo primario che possa sostenere il percorso di rientro del debito pubblico “. E quali sarebbero le conseguenze di questo scenario economico, sociale e politico e della prevedibile opposizione dei ceti e delle zone colpite ? Il Paese si troverebbe ad un bivio che conduce su due vie assai poco simpatiche: a ) l’ acuirsi, o forse addirittura l’ esplodere, di tensioni tra i territori del Nord e quelli del Sud, oppure b ) l’ ulteriore sforzo dei soliti ‘donatori di risorse’, con l’ implicito corollario dell’ ulteriore declino economico del Paese. Un bel dilemma!
Gli autori accreditano come più probabile, perché più verosimile, il primo scenario. Con toni preoccupati prevedono che la dinamica sarà di questo tipo. Le tensioni nordisti/sudisti si acuiranno, le rispettive opinioni pubbliche si mobiliteranno in un pericoloso tiro alla fune, ma in fin dei conti ne seguirà la paralisi. Scrive infatti Casati a pag. 98 : “ I due blocchi di rappresentanza (…) hanno un peso demografico equivalente (…). (…) il risultato finale della tendenza alla territorializzazione della politica non potrebbe che condurre a una situazione di crescita della tensione sociale e a un livello di incertezza tale da sfociare nella ingovernabilità. Questo esito è l’ effetto diretto dell’ incapacità di articolazione della Q. S. in termini diversi dal mero conflitto distributivo tra territori “.
A questo punto viene avanzata la proposta alternativa cui conduce tutto il pamphlet
“ Luigini contro Contadini “. Quasi in chiusura del secondo capitolo leggiamo infatti: “ Esiste una chiave di lettura della Q. S. potenzialmente capace di aprire ad esiti politici diversi. Ma implica l’ abbandono della categoria di territorio come principio guida per spostare lo sguardo verso gli individui “.
Così comprendiamo anche perché Casati introduca un nuovo apparato concettuale, ricorrendo alle categorie evocate da Carlo Levi: quella dei Contadini e quella dei Luigini. Conseguentemente, nel terzo capitolo del libro, intitolato “Il lato oscuro della Questione Settentrionale “, viene svolta l’ analisi che avevo anticipato all’ inizio delle mie schede, e su cui non mi dilungo. Vorrei invece fermarmi a riflettere sulla dicotomia proposta da Casati per reinterpretare il caso italiano e per offrirne una via d’ uscita.
La dicotomia Luigini / Contadini, così come l’ invito ad articolare e gestire il conflitto tra i due blocchi ha al contempo un che di antico e un che di moderno. Mi spiego. Da un lato sa quasi di materialismo storico e ricorda, anche nei toni, la concretezza, direi la robustezza, del vecchio conflitto Capitale / Lavoro. Dall’ altro supera l’ antico schema di classe e, adeguandosi all’ attuale realtà italiana, spariglia le carte del conflitto declinandolo come un fattore di modernizzazione sia del sistema produttivo che della società nel suo insieme.
Continuiamo a riflettere e poniamoci ora questa domanda: la nuova dicotomia interpreterebbe i nuovi scenari conflittuali di una società a capitalismo tardo-industriale
( molto integrato nel processo di globalizzazione, caratterizzato da un grande peso del terziario, del know how informatico e da un grande peso del capitale finanziario) ? Oppure interpreterebbe piuttosto uno scontro tra due tronconi profondamente disomogenei della società, l’ uno facente parte a pieno titolo della modernità più moderna e l’ altro con i piedi e la testa ancora piantati in una società in fondo premoderna ?
Sarebbe facile rispondere salomonicamente, rifiutando l’ aut aut. In fondo ci sono sia Luigini ultramoderni che Luigini arcaici, e parimenti Contadini modernissimi e Contadini premoderni. Ma avremmo risolto il problema ? A parte quel che penso io, balza agli occhi, leggendo il terzo capitolo di “Luigini…”, come questo sia quasi interamente dedicato ad analizzare i Luigini e tenda ad accreditarli come un blocco parassitario del tutto moderno. Assolutamente improvvisata e magra è invece l’ analisi dei Contadini, se di analisi si può parlare. Quel che Casati fornisce è piuttosto un elenco.
Ebbene, dopo essersi dipanato sul terreno della modernità, il capitolo si chiude con un’ ammissione che lascia un po’ stupefatti. Vi si legge infatti a pag. 134 : “ La dimensione essenzialmente politica della Q. S. è il conflitto che oppone i Contadini al resto del Paese. In questa prospettiva la dimensione territoriale non viene meno perché i Contadini, come produttori di ricchezza, sono territorialmente concentrati. Tuttavia l’ analisi toglie al territorio in quanto tale una specifica valenza politica, perché definisce nuove categorie sociali e produttive. L’ analisi parla di classi, di interessi collettivi, non di territori. Sono gli individui che compongono quelle classi i soli titolari di diritti e i soli a poter aspirare alla rappresentanza”.
D’ accordo. Bella giravolta! Ma chi riuscirebbe a tenere in piedi questo bel distinguo nel clamore e tra i nugoli di polvere della battaglia ? La chiusa di Casati ha il sapore di un sofisma con cui si cerca di scongiurare, di esorcizzare uno spirito sgradito. Perché, in soldoni siamo sempre e di nuovo al conflitto Nord / Sud ! Gira e rigira siamo sempre e di nuovo alla spaccatura Nord / Sud. Prendiamone atto. Ma per capire del tutto questa geografia io suggerirei di ricorrere alla storia. Sì, perché il conflitto con cui siamo alle prese andrebbe piuttosto interpretato, a mio avviso, secondo la vecchia dicotomia modernità / pre-modernità.
Infatti, anche quando entra in osmosi con la modernità, la pre-modernità rimane sempre se stessa. Anche se i mafiosi vogliono e sanno integrarsi nel nostro capitalismo, addirittura e di preferenza finanziario, restano dei capibastone, dei campieri da età borbonica. E tutto il parassitismo che foraggiano e con cui si procurano il consenso non ha nulla a che fare né con lo spirito del capitalismo, né con l’ etica del lavoro. Anche tutte le colonie di imboscati nella Pubblica Amministrazione ed i falsi invalidi sono corposi relitti del passato, vivi e vegeti nel presente.
Qui le categorie ermeneutiche di Casati mi pare mostrino la corda. Anche se stimolanti e degne di una riflessione approfondita, non mi sembrano pensate fino in fondo. Vale la pena di approfondire la faccenda. Vista la posta in gioco e la serietà degli autori, vorrei articolare nel modo più preciso le mie critiche.

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1 ) Credo che Casati, preso dalla foga di giungere a conclusioni plastiche, palpabili, non arrivi a differenziare abbastanza le realtà regionali. Lo schema dell’ analisi regionale, così fruttuoso nella prima parte del primo capitolo, lascia il posto troppo presto allo schema delle macro-regioni (Nord, Centro e Sud). Così si perde l’ occasione di evidenziare i grandi progressi delle regioni centro-meridionali del fronte adriatico. Le storie più recenti di Marche, Abruzzo e parte della Puglia sono storie affatto positive. Occupandocene otterremmo non solo un quadro più preciso, ma forse avremmo degli spunti importanti per scomporre il problema meridionale, per capire e circostanziare meglio i problemi delle regioni ad alta patologia sociale ed economica. Non da ultimo, eviteremmo di cadere nella trappola del conflitto Nord / Sud, con tutto il bagaglio di rozzezze a cui questo schema si presta. Invece Casati tende purtroppo ad identificare di fatto lo scacchiere del conflitto Contadini/ Luigini con quello del conflitto Nord / Sud.

2 ) L’ analisi del parassitismo diffuso, anche nel Centro-Nord, è troppo sbrigativa. Casati infatti, dopo aver delineato quali forme di parassitismo si annidano anche nel mondo produttivo e finanziario più sviluppato ( meglio ancora, nel loro intreccio ), passa troppo in fretta ad occuparsi della realtà dei Grandi Luigini. Il parassitismo di una certa élite che si vuole massimamente liberale e moderna è particolarmente scandaloso, certamente questi clan dispongano di leve particolarmente efficaci per influire in modo sporco sul gioco politico per accaparrarsi privilegi e “manomorte”. Non solo, questi clan sono anche in grado, per le posizioni che occupano e le risorse, anche mediatiche, di cui dispongono, di “fare blocco”. Va da sé che si configurano come la centrale operativa del luiginismo in Italia. Dato atto di tutto ciò, Casati non sviluppa affatto la sociologia del luiginismo medio e piccolo, che dà vita propria alle masse che garantiscono il consenso alla vile Politica di tanta parte del nostro ceto politico. Senza l’ articolazione di questa analisi, anche assumendo la dicotomia casatiana Luigini vs. Contadini, rimaniamo privi di strumenti per agire sui grandi numeri. Tutt’ al più ci resta la carta, già non disprezzabile, della denuncia, dell’ imprecazione contro il luiginismo dei grandi. Ma l’ effetto indesiderato di questa scelta è quello di lasciare che anche vaste fette di piccolo e medio luiginismo possano benevolmente e indebitamente essere “accolte” nel fronte dei Contadini. Cosa che già avvenne, mutatis mutandis, negli anni di Tangentopoli.

3 ) Ora due domande: quella tra Luigini e Contadini è una vera dicotomia ? E se lo è, è una dicotomia forte o debole ? Se è una dicotomia vera, deve accadere che chiunque sia attivo nel mondo economico o finanziario sia Contadino o Luigino; tertium non datur. Se è così, si tratta di una distinzione di per sé forte. Proviamo a riflettere. In tanti casi o si è Contadino o Luigino. Ma esiste anche una vasta zone grigia in cui mi sembra cadano i confini. Se ad esempio un pensionato, che da lavoratore ha fatto fino in fondo il suo dovere, si mette a lavorare in nero per arrotondare la pensione, è al contempo Contadino e Luigino. Se un dipendente in cassa integrazione fa lo stesso, è anch’ esso sia Luigino che Contadino. E come la mettiamo con un lavoratore assenteista ? Anche lui è entrambe le cose; e se è così, dove “batte” veramente “il suo cuore “ ? Più dalla parte del Luigino o del Contadino ? E poi, non ci sono forse anche percezioni diverse del luiginismo e del contadinismo, in differenti regioni italiane ? La questione mi pare si complichi. Allora quella di Casati non è più una vera dicotomia, caso mai un utile impianto concettuale per fare un’ analisi critica, sociale e politica, della realtà italiana. Poi, se vogliamo, questa contrapposizione non potrà mai avere la forza che aveva la dicotomia Capitale / Lavoro nell’ ‘800. Allora sì che ogni individuo inserito nel processo produttivo manifatturiero era capitalista o lavoratore dipendente. Non solo. Allora sì che questa dicotomia aveva immediatamente una enorme forza aggregante e dirimente. Le concentrazioni territoriali operaie, o impiegatizie, erano corposissime e fornivano di per sé, in palmo di mano, l’ asse per pensare, comunicare, agire e per organizzarsi. Tutti elementi che mancano alla distinzione proposta da Casati. Il grave problema del contadinismo attuale è il suo essere ovunque e da nessuna parte, il suo essere una realtà dispersa e variegata. Lo stesso vale per luiginismo. Ma quest’ ultimo non ha un bisogno impellente di organizzarsi. È già abbastanza organizzato, oppure, dovendo solo resistere, gli è facile essere efficace. Per di più le due paginette ( pp. 132 – 134 ) dedicate da Casati ai Contadini sono troppo scarne. Ma anche sviluppando una adeguata fenomenologia, che potenziale politico avrebbe il contadinismo ? E che speranze avremmo di farne scaturire un’ azione politica adeguata ? Ahimè, credo che solo una identificazione del conflitto Luigini vs. Contadini con il conflitto Nord / Sud abbia la possibilità di “fare movimento”. E a mio avviso sarebbe un grosso guaio.

4 ) È bello e pregevole che Casati getti alle ortiche tanti discorsi triti e ritriti dei salotti da Prima e Seconda Repubblica, che se ne faccia un baffo dell’ etichetta del political correct. È bello ed utile accettare il confronto sugli interessi materiali degli individui e dei gruppi sociali. Casati è un bel segugio alla ricerca – nel corpo della società – degli interessi che scatenano e determinano il conflitto. Ma le sue analisi sanno troppo di materialismo storico riveduto e corretto e indulgono troppo al determinismo. Provo a fare un esempio. Casati spiega in modo assolutamente convincente la tendenza alla territorializzazione del conflitto politico; tendenza emersa negli ultimi venti anni. Spiega un fatto, gli dà un nome ed una dignità. Dimostra anche come sia giusto parlare di Questione Settentrionale. Piace anche il modo in cui cerca di impostarne la soluzione. Quel che non convince è invece l’ idea che la mediazione politica, a livelli più alti della realtà, a livelli sovrastrutturali ( per parlare alla Marx ) venga data per morta o impraticabile. Perché le tensioni e le faglie territoriali dovrebbero per forza sfociare irrimediabilmente in un conflitto privo di spazi di mediazione oppure nella paralisi ? Certo, lo scenario della classe politica italiana è piuttosto squallido, per certi versi disperante. Ma non diamo del tutto per morti quelli che P. Ginsborg chiama i ceti medi ragionevoli, o tutta la realtà istituzionale o tutti i presidi politici ! Certo scrivo queste cose nel marzo del 2012, dopo che Napolitano e Monti hanno rimescolato fortemente la palude. È facile ora scrivere e parlare. OK. Ma perché Casati si fa smentire dalla realtà a soli pochi mesi da quando ha licenziato il suo lavoro ? È accaduto un miracolo o l’ impianto casatiano, nella apprezzabilissima foga parenetica dell’ autore, mostra dei forti limiti ?

5 ) Ritorniamo un po’ sui nostri passi. La distinzione Luigini vs. Contadini ha un suo fascino ed una sua efficacia, non riducibile ad efficacia retorica. È infatti in grado di “acchiappare” molti aspetti della realtà sociale ed economica. Non solo, la si può anche legittimamente usare. Ma solo fino ad un certo punto. Visto che bene o male sfocia nella cesura Nord / Sud, è qui che dobbiamo fare i conti. Purtroppo la distinzione Luigini vs. Contadini a questo punto ci abbandona. Non avendo né la complessità concettuale né la profondità storica di altri apparati critico-concettuali, conduce a mio avviso ad uno slancio in fondo velleitario. Di più. Toglie dal fuoco dell’ attenzione una questione ben più complessa, anzi rischia di impoverirla, se non di banalizzarla.
Il conflitto più o meno latente tra Nord e Sud è antico e non ha perso di complessità. Negli ultimi decenni ha addirittura assunto la forma palese dello scontro tra la Questione Meridionale e la Questione Settentrionale. E qui si dia atto a Casati di fare le sottolineature giuste. Ma una volta riconosciuto, anche nelle nuove contingenze, il conflitto va affrontato afferrandolo per le corna, in tutta la sua complessità.
A questo punto mi permetto di suggerire che la vecchia dicotomia, o coppia concettuale, MODERNITÀ / PRE-MODERNITÀ offre una base ben più solida per leggere la realtà e per agire. Quest’ altro apparato concettuale ci permette ad esempio di afferrare a pieno il carattere profondamente premoderno sia degli investimenti mafiosi al nord, che della ricerca di appannaggi, prebende, sinecura, ‘manomorte’ da parte di ex-neocapitalisti à la Benetton, così come del clientelismo in cui pare sfoci pure l’ azione della Lega Nord o di CL, per non parlare del passaggio da padre in figlio di certi baronati universitari. Tutto questo è un mondo da ancien règime che si insinua e alligna in ogni ceto. Nel nostro Paese, che non ha mai conosciuto una vera fase di illuminismo né teorico né pratico, vediamo ovunque, ed in modi svariatissimi, proliferare realtà da ancien règime. Questi fenomeni – che fanno a pugni con la “sportività” propria dell’ agone meritocratico che tanto impregna la civilizzazione britannica e che ha trovato ancoraggi profondi anche nella società francese, tedesca, olandese, svizzera o nordica – da noi sono invece diffusissimi, vivono di vita propria, hanno un loro pubblico e una loro claque. Ma se le cose stanno così, allora è ineludibile chiamare in causa la storia, quale fucina di diversi modelli di civiltà e civilizzazione. E parimenti va fatto o rifatto un lavoro teorico, ideologico, o meglio di critica delle ideologie. Un lavoro all’ altezza della sfida.

Queste mie critiche non vengano però fraintese. Perché questo mi sento di dire in chiusura: onore a Casati e a “Luigini contro Contadini”, un libro da leggere, rileggere e su cui discutere.


Heidelberg, 23 / 03 / 2012

Beppe Vandai