lunedì 2 aprile 2012

Osservazioni preliminari sul problema della ricerca in Italia

Quello della “fuga“ dei cervelli dall’ Italia è un tema certamente di moda. Basta scorrere qualche giornale per rendersene conto. Un forum particolarmente attento al riguardo è il blog-rubrica Italians di Severgnini sul Corriere della Sera. Si sono avute anche iniziative politiche per porre il problema del loro rientro in patria. Se ne parla tanto e si connette subito il problema con quello dell’ inefficienza del nostro sistema universitario. La destra belusconiana ha perfino tentato di strumentalizzare la cosa per dare addosso all’ ampio ‘baronato’ di sinistra. Come se questo fosse il centro del problema, anche se si deve ammettere che pure negli atenei non mancano casi incresciosi di familismo amorale o immorale. Il fatto è piuttosto che si tratta di un fenomeno assolutamente bipartisan ( come si usa dire oggi ) e che non c’ è da aspettarsi altro, vista la invasività con cui il familismo perverso innerva dovunque la società italiana.


Anche qui a Heidelberg si ha la sensazione che il flusso di ricercatori, di docenti, di dottorandi e di studenti abbia assunto in anni recenti dimensioni di rilievo. 20 anni fa li si contava sulla punta delle dita. A parte i lettori dei Romanistica e della Facoltà di Interpreti, a parte lo sparuto drappello dei germanisti e degli studenti di filosofia, c’ era solo qualche presenza ‘stravagante’ nelle altre facoltà. Ora pare che solo i dottorandi siano un centinaio. A questi vanno aggiunti gli studenti in pianta stabile. E ben si noti che ora si distribuiscono in tutte le facoltà. Non parliamo poi degli ‘erasmiani’ che ci passano uno o due semestri. Ma non è finita. Anche i tre istituti della Max Planck Gesellschaft accolgono molti italiani. Lo stesso vale ovviamente per l’ EMBL. Negli ultimi anni poi, tanti laboratori scientifici a Neuenheimerfeld hanno assunto laureati italiani, in arrivo direttamente dall’ Italia o giunti dagli USA, dalla Gran Bretagna e via dicendo. Non ho i numeri esatti, che dovremo raccogliere, ma ho l’ impressione che se facciamo la somma, arriviamo ad almeno 300 ‘teste d’ uovo’. Dal punto di vista quantitativo un fenomeno altrettanto rilevante come quello dell’ emigrazione dei pizzaioli, dei gelatai, dei parrucchieri e dei sarti negli anni ’50 e ’60. Mi si dice che la situazione è simile a Friburgo, a Basilea, a Tubinga, e pure nel nord, a Göttingen.
Penso si debba cercare di procedere oltre lo starnazzare delle Gelmini e delle Moratti, ma anche oltre il lamento di tanti giovani che hanno lasciato l’ Italia con amarezza, con la sensazione di aver dovuto tagliare i ponti definitivamente, senza speranza di ritorno, e oltre il lamento di chi in Italia ha accettato posti di lavoro o di ricerca sottopagati, con poche attrezzature, o di chi ha dovuto imboccare obtorto collo la strada dell’ insegnamento nelle scuole superiori. Lamentarsi è giusto, protestare è meglio, ribellarsi e invertire la rotta meglio ancora.
Il fenomeno – va detto con forza – è di estrema gravità per vari motivi: sia perché significa uno sperpero di risorse e di denaro pubblico erogato dai contribuenti italiani e che va a favore di società già meglio dotate della nostra, sia perché un tale salasso è sintomo di declino economico e industriale e preludio ad un ulteriore peggioramento. Ma esso, già endemico e preoccupante da decenni, ha subito una drastica accelerazione negli ultimi sei o sette anni. Visto il forte indebitamento dello stato sono state ridotte le già non sontuose spese per la ricerca. Oggi come oggi l’ Italia investe circa l’ 1,1 % del Pil , mentre gli USA investono il 2,5%, il Giappone e la Germania il 2,7%. In Italia si ha anche il rapporto più basso tra dottorandi di ricerca e popolazione. In Francia, Germania e Gran Bretagna sono il quintuplo che da noi. E ciononostante da noi esiste il fenomeno dei dottorandi senza borsa (che si autofinanziano totalmente), fenomeno sconosciuto all’ estero.
Se scomponiamo quell’ 1,1% vediamo che la quota statale, raffrontata con quella statale nei paesi industrializzati leader è buona in percentuale (la metà del totale), ma magra in assoluto. Quella privata lo è sia in percentuale che in termini assoluti. Insomma abbiamo a che fare con due magrezze – delle quali la seconda ricorda addirittura l’ anoressia, che insieme non fanno floridezza. Andrà studiata con attenzione la composizione settoriale degli investimenti in ricerca, ma ho la netta impressione che la quota di ricerca applicata sia particolarmente bassa nel nostro Paese. Non che personalmente sia un fanatico dell’ applicazione. Le grandi novità vengono infatti tutte dalla ricerca di base. Ma il rischio per un paese che fa quasi esclusivamente ricerca di base è di fare regali agli altri, che hanno anche una forte componente applicativa e forti sinergie tra ricerca e industria. Se le cose stanno così, non può consolarci il fatto che, nonostante la miseria negli investimenti, il volume delle pubblicazioni scientifiche italiane è di tutto rispetto e ci colloca nelle zone alte dei ranking. Ho infatti la netta impressione che il noto francescanesimo italiano sia fuori luogo in questa faccenda.
E che la poi la situazione stia peggiorando ce lo dice un altro dato: recentemente in Italia si è verificata una flessione delle immatricolazioni all’ università. E questo in controtendenza sia rispetto agli altri paesi europei che rispetto all’ andamento italiano degli ultimi decenni. Una chiara conferma che si è diffusa o si sta diffondendo la sensazione che lo studio “non paghi più”, visto che mancano gli sbocchi o li si ritiene inadeguati.
Facciamo ora un passo in avanti cercando di spiegarci le ragioni della forte accelerazione nel salasso verso l’ estero di ricercatori e accademici degli ultimi anni. A me ne balzano all’ occhio quattro:
a ) Il declino industriale del Paese dovuto o preparato dal declino della grande industria, l’ unico settore che in passato aveva stimolato e usato – avvalendosi ovviamente di quanto messo a disposizione dal settore pubblico – la ricerca di base e quella applicativo-tecnologica, ha sottratto sia risorse che committenza all’ intero settore della ricerca. Il declino è avvenuto sul fronte della chimica, dell’ elettronica, dell’ auto, del settore delle comunicazioni. Quel poco di industria farmaceutica che c’ era si è totalmente dissolto. Il settore manifatturiero italiano nel suo complesso ha ‘retto’ in qualche modo, compensando in parte il declino in termini occupazionali grazie all’ ulteriore espansione della piccola e media industria. Il mobilissimo esercito dei piccoli ha saputo adeguarsi al mercato europeo e mondiale grazie alla sua grande capacità di adattamento. In molti casi ha saputo cercarsi all’ estero le sinergie necessarie per prosperare… o sopravvivere. Guai se questo non fosse accaduto. È però d’ altro canto incontrovertibile che uno sciame di passeri non è un’ aquila. Ben raramente nella piccola o media industria si fa ricerca o si fa avanzare la tecnologia. Quasi sempre le si usa in modo più o meno brillante. Quanto alla ricerca di base: buona notte!
b ) L’ attivismo della nostra piccola e media imprenditoria, incentivato dalla mala pianta della politica della destra che si dice liberista intendendo con ciò libertà predatoria, è troppo spesso sfociato nella politica della precarietà. Lo sfruttamento di un’ intera generazione di italiani è cosa ben nota. Ancora una volta ripetiamo che è sintomo e prodromo di declino. Così, chi può prende la strada dell’ estero.
c ) Con il programma ‘Erasmus’ i giovani italiani hanno toccato con mano la differenza tra le strutture universitarie e di ricerca del nostro Paese e quelle francesi, tedesche, inglesi, olandesi, svizzere. L’ estero non è stato più l’ oltre la muraglia cinese, ma un luogo da cui andare e venire con una certa facilità. Per tanti giovani curiosi e/o frustrati è stato facile progettarsi un futuro in Paesi più accoglienti.
d ) La facilità e fecondità degli scambi di informazioni e di movimento creatasi con il mondo del web ha fatto il resto, dando la stura ad una botte in piena fermentazione. Così l’ interconnessione europea non è più stata solo merceologica, ma si è costituita e si costituisce sempre più come trasferimento di beni immateriali. Di per sé una cosa eccellente, se non avvenisse a senso unico, quale depauperamento culturale, intellettuale, scientifico ed in ultima istanza anche produttivo del nostro Paese.
Non vorrei apparire troppo funereo o malaugurante, ma sembra giunto il momento in cui i più – e con “ i più” intendo non solo i lettori dei giornali seri, ma anche gli spettatori affezionati a “Striscia la notizia”, ad “Amici” o alle “Jene” – prendano coscienza della gravità del fenomeno su cui ci stiamo dilungando. Se lo sviluppo dell’ innovazione scientifica e tecnologica e un impiego adeguato di ‘teste d’ uovo’ e colletti bianchi sono la conditio sine qua non affinché cresca o si mantenga alta tutta l’ occupazione nei settori più moderni e a più alto valore aggiunto, allora è chiaro che dalla fuga di accademici e ricercatori dal Bel Paese avremo anche una contrazione crescente dei posti di lavoro indotti o meno qualificati. Non solo. Il Paese, una volta cacciatosi nell’ angolo di produzioni a bassa componente tecnologica, dovrà accentuare la tendenza ai bassi salari per via della concorrenza dei paesi in via di sviluppo industriale. Ma una tale concorrenza porterà anche la manodopera medio-qualificata sulla via dell’ emigrazione. E se vogliamo dircela tutta: anche sul fronte del gettito fiscale, e quindi del welfare ( dalla sanità, alle pensioni ecc. ) saranno dolori. Forse sarebbe il caso di svegliarsi, di prendere qualcuno a pedate nel culo e di dotarsi di una classe politica migliore.

* * * *

Ma siamo davvero alla fine della nostra analisi eziologica sull’ esodo di tanti accademici e ricercatori italiani ? Impossibile! I primi due punti delle mie riflessioni richiedono a loro volta delle spiegazioni, cioè rimandano ovviamente a cause ulteriori. Occupiamocene subito accorpando, come si conviene, i due fenomeni che hanno funto da cause strutturali dirette e immediate di questo trend preoccupante. Chiediamoci come mai la grande industria è decaduta e come mai l’ azione della piccola e media industria, sul fronte che ora ci riguarda, è stata, inefficace, risibile o addirittura ‘penosa’.
A mio parere, la crisi in cui ci dibattiamo ha avuto inizio con il fallimento delle politica industriale del nostro Paese, cui è seguita a lungo andare semplicemente l’ assenza di una tale politica, che man mano ha fatto sì che le risorse da spendere in ricerca si assottigliassero ulteriormente. Nel frattempo si è persa per lungo tempo nell’ opinione pubblica, nell’ agenda politica dei partiti e delle organizzazioni industriali perfino la sensazione di essere di fronte ad una grave mancanza. Su questo avvitamento progressivo si è infine abbattuta la folle stagione politica berlusconiana, una vera fiera della ciarlataneria. Ma cerchiamo di sciogliere con ordine, nelle sue componenti, questo intreccio rovinoso.
i ) L’ arenarsi di una saggia ed equa politica industriale italiana è per quanto mi riguarda ancora tutta da studiare, o ristudiare. Dobbiamo chiederci: come mai realtà avanzate come la Olivetti di un tempo, la Montedison, l’ Alfa Romeo, la Fiat, l’ Eni, la siderurgia, siano malamente finite o abbiano assunto un ruolo di retroguardia nel contesto europeo ? Come mai si sono perse anche le occasioni successive sul fronte dell’ elettronica e delle telecomunicazioni ? Come mai sul fronte delle nuove tecnologie verdi si è costretti ad importare massicciamente strutture dall’ estero ? Credo che il nodo stia tutto nel rapporto tra industria e politica. La politica italiana dal dopoguerra in poi è sempre stata molto ‘interventista’, sia con l’ IRI, che con la cassa con il mezzogiorno, che con la tutela protezionistica delle grandi imprese. Ma la tendenza si accentuò vertiginosamente a partire dagli anni ’60 e coinvolse tutti i settori. Non si pensò ad esempio come supportare in termini di ricerca, in termini di legislazione e di infrastrutture i settori che più promettevano. Non si ebbe di mira in primo luogo la concorrenza internazionale. No, si sperperò a pioggia per accontentare e dare sicurezza a tutti i settori della popolazione direttamente coinvolti. Si stese una rete protettiva anche su imprese che non lo avrebbero meritato. Tra l’ altro, bisognerebbe anche chiedersi: è sempre compito della mano pubblica stendere tali reti protettive ? Nell’ insieme l’ andazzo fu fatale per tutti, per la qualità della struttura industriale e degli investimenti, per le tasche dei contribuenti, per la ‘morale pubblica’. Un esempio su tutti. Basti pensare alla Fiat, che si calò poco alla volta nel ruolo di azienda protetta, responsabile in primo luogo dei posti di lavoro al nord e poi come ‘creatrice’ di occupazione al sud. Alla Fiat si sono fatti favori enormi, si è offerta quasi illimitatamente la cassa integrazione nei momenti di crisi, la si è favorita con la politica di svalutazione della lira.
In queste vicende lo stato non ha affatto assunto il ruolo di forza neutrale rispetto al mercato, forza che ne garantisce le regole di funzionamento, che tutela i consumatori, che impedisce le distorsioni. Anzi è stato il primo a provocare gravi distorsioni. Il dolce veleno dell’assistenza non solo coinvolse le amministrazioni locali o il settore statale o parastatale ma si propagò ampiamente anche al settore industriale. Del resto l’ Italia ha una lunga tradizione di questo tipo. Anche a partire dagli anni attorno al 1875 lo stato, per calcolo politico o per sciatteria, incentivò o lasciò prosperare vaste sacche di borghesia parassitaria che vivevano di commesse pubbliche. Il liberismo rigoroso e virtuoso alla Cavour o alla Einaudi fu l’ eccezione, non la regola.
Gravi sono state le responsabilità delle forze di governo della cosiddetta Prima Repubblica, così pure della Confindustria che si fece coinvolgere, lottando solo per difendere la fetta del settore privato rispetto a quello a partecipazione statale. Qualcuno ha avuto poi sentore di battaglie campali della Confindustria per opporsi all’ assistenzialismo industriale di stato ? Ma non meno gravi sono le responsabilità dei sindacati, che hanno cavalcato quasi sempre e regolarmente anche le lotte più di retroguardia per la difesa dei posti di lavoro. Quei sindacati che hanno posto vincoli e rigidità all’ impresa, come se questa vivesse in un mondo chiuso, come se al di fuori d’ Italia il sistema industriale e capitalistico stesse fermo e non forzasse sul lato della trasformazione tecnologica, sulla razionalizzazione delle procedure di produzione. Che non hanno mai pensato che sistemi di cogestione industriale come quello tedesco, caldeggiato e difeso dalla socialdemocrazia e dai sindacati tedeschi dagli anni ’60, alla lunga avrebbero dato ben più frutti dell’ assistenzialismo di stato. Solo la corrente che fu chiamata “migliorista“ del PCI, o quella socialista di A. Giolitti o di G. Ruffolo erano consce a sinistra, in modo rigoroso, della natura autolesionista di tante scelte del sindacato ‘solo di lotta’. Al centro solo il partito di Ugo La Malfa alzava onorevolmente la voce. E nelle caricature La Malfa era sempre caratterizzato come il grillo parlante.
Dovremo scavare a fondo nella nostra storia e della nostra storia industriale per capire come mai l’ antirealismo e l’ anti-ragione abbiano potuto diffondersi tanto in tutte le membra del nostro corpo sociale. Questo fallimento di portata storica riguarda più o meno tutti gli italiani. Ma in modo particolare dovrebbe toccare i precari, i disoccupati ed i nuovi emigranti, non più ‘armati’ di una valigia di cartone, ma di un lap top.
ii ) A ben riflettere la tara di cui abbiamo appena parlato non consiste in altro che in una enorme autoillusione demagogica in cui alcuni furbastri hanno vissuto come i topi nel cacio, altri si sono fatti spennare, altri ancora hanno avuto una rancida pagnotta o poco più, in cui alcuni hanno realizzato i loro scopi politici, altri hanno creduto di realizzarli ma si sono trovati in mano un pugno di mosche. E qui mi sembra il caso di riflettere su un altro fattore rilevantissimo che ha certamente co-agito: il fatto che la nostra sia stata per quasi 50 anni una democrazia bloccata. Una democrazia, come abbiamo detto altrove e altrimenti, spaccata verticalmente da profondi dissidi storici e ideologici. La divisione ideologica e quasi metafisica del Paese ha senz’ altro fatto da catalizzatore perenne a che un intero popolo perdesse il senso della realtà. La guerra di posizione o la guerriglia a disputarsi il consenso popolare ovunque, palmo a palmo, ha portato in entrambi i blocchi contendenti a perdere di vista progetti e politiche economiche e tecnologiche democraticamente giuste, razionali e adeguate al Paese, al suo sviluppo e alla sua collocazione internazionale. Ha reso impossibile giungere a compromessi strategici e storici centrati sul bene comune e favorevoli ai ceti produttivi.
iii ) Così ci avviciniamo ai giorni nostri, all’ abbrutimento progressivo della nostra classe politica, contestuale alla cosiddetta Seconda Repubblica. Una classe politica sempre più lontana dai grandi filoni ideali del novecento, sempre più amorale o immorale, sempre più mossa da bassi motivi d’ interesse o dalla vil moneta, sempre più incompetente e sempre più casta. Non fraintendetemi, non voglio fare di ogni erba un fascio. Le responsabilità non sono bipartisan. L’ artefice primo e principale di questa deriva è stato il cavaliere di Arcore, che è riuscito a perpetuare, anzi ad acuire e rinverdire la spaccatura verticale del Paese, a ridarle nuovi temi e nuova linfa, a intorbidire la linea del fronte immettendo nell’ agone forze sfasciste, fasciste, para-fasciste, cripto-fasciste e del peggior sanfedismo. Il tutto per suoi interessi privati, per megalomania, per il suo iper-priapismo senile. Ma il grave è che il Paese intero abbia preso una simile sbandata, per di più lunga.
Non fa dunque meraviglia che, invece di risanare le casse dello stato, recuperando evasione fiscale, colpendo le corporazioni e la rendita, per poi rilanciare lo sviluppo, quelle forze che si sono chiamate e si chiamano liberali abbiano incentivato l’ evasione, abbiano diffuso la filosofia del farsi i cazzi propri, abbiano lasciato prosperare la corruzione, il malaffare ed il parassitismo. E non fa meraviglia che per fare quadrare i conti di fronte alla crisi economica globale non abbiano avuto alcuna remora a tagliare le spese per la scuola, l’ università e la ricerca.
iv ) Un ulteriore, gravissimo fattore che ci ha portato nel vicolo cieco in cui ci siamo cacciati è stata la “distrazione” sistematica dell’ opinione pubblica. Non intendo che l’ opinione pubblica si sia concessa una lunga pausa-pennichella. No, è stata poco alla volta diseducata ad occuparsi, a discutere e a riflettere su certi temi; è stata invece portata ad interessarsi di frizzi e lazzi, degli omicidi, degli amori, dei pettegolezzi serviti a tavola dalla cronaca quotidiana, a lasciarsi infatuare dalla superficialità, dalla bella presenza, dallo sberleffo propalati dalla TV. Superficialità, bella presenza, chiappe, uscite di seno, fatuità e sberleffi offerti continuamente, in quantità industriali, di modo che occupassero l’ intero immaginario collettivo. A questo si è aggiunta la retorica del Made in Italy, della nostra presunta genialità estetica. Ecco dunque l’ opinione pubblica a sbavare per le sfilate di moda. E poi si è ripetuta la litania consolatoria che la nostra galassia di piccola e media industria era in grado di sopportare qualsiasi tempesta. Salvo poi scoprirne i molti problemi, ‘scoprire’ che la Cina stava rovinandoci e salvo invocare il protezionismo anticinese. Vero Bossi e Tremonti ?
A parte le battute, è un dato di fatto che la nostra opinione pubblica sia caduta e sia stata fatta cadere in uno stato di non-percezione della realtà, uno stato onirico piacevole e consolatorio. Inutile dire che una simile “distrazione” abbia impedito in primo luogo la percezione di problemi complessi e di difficile comprensione come quelli della scienza, della ricerca, dello sviluppo tecnologico, del quadro in cui inscrivere lo sviluppo industriale, tutti temi che richiedono una certa astrazione e che hanno a che fare con istanze e beni in gran parte immateriali.
v ) Ora, passo dopo passo, stiamo arrivando al centro del problema. Per raggiungerlo è bene fare un salto straniante. Sporgiamo la testa oltre le Alpi e chiediamoci se esiste un elemento comune in Europa alle realtà e ai modelli di sviluppo e di mantenimento dello sviluppo economico e della eccellenza scientifica. Queste realtà, è risaputo, hanno avuto storie assai diverse e sono dotate di strutture istituzionali assai diverse. Basti pensare a quanto poco abbiano tra loro in comune il modello francese – così centralizzato, segnato dalla iper-presenza statale, modello in cui mai è stato abbandonato il colbertismo; o quello britannico – tanto liberista, basato su poche regole, a volte nemmeno scritte sulla carta, ma bensì nelle teste, tanto pragmatico e poco disposto a tutele statali; o quello tedesco – fondato nel profondo sul consenso, così attento a coinvolgere tutti i fattori della produzione, fanatico del perfezionismo, attento a che non si creino compartimenti stagni che impediscano la trasmissione di sapere e di tecnologie tra i settori e tra la ricerca di base e quella applicata ed in cui si ha la cura massima di questo patrimonio di idee, di strutture ed abitudini come se fossero il vero tesoro della nazione.
Ebbene, dove sarebbe l’ elemento in comune ? Direi che c’ è ma non si vede, tanto è storicamente consolidato ed ovvio. Si tratta della borghesia nel suo complesso e dei ceti medi cittadini. È qui che si sono depositati gli atteggiamenti fondanti e fondamentali per la industrializzazione, la democratizzazione, la secolarizzazione e la razionalizzazione della società. È qui che si è sviluppata la coscienza di essere classe dirigente dopo e oltre l’ ancien règime . È da qui che si sono diffusi ed insediati anche nei ceti medi non produttivi, come tra quelli che in Germania si chiamano i Bildungsbürger [ in italiano non esiste un’ espressione equivalente; la traduzione letterale suona all’ incirca “borghesia culturale e formante” ] la mentalità, i miti, i riflessi condizionati che impongono come ovvio il senso di responsabilità verso il bene comune, il culto del merito, il senso della critica e dell’ opinione pubblica, addirittura il mito della innovazione che premia il singolo e viene a vantaggio di tutta la società. A partire da qui si è creato il bisogno di informazione e di trasparenza, il disprezzo e l’ odio per i clan, l’ attesa della prossima innovazione, così come la paura di non rimanere al passo dei tempi.
Quando vivevo in Italia non sospettavo nemmeno che cose simili esistessero. Esistevano pressappoco le stesse professioni, ma il loro ruolo, la consapevolezza collettiva di stare al centro della compagine sociale, di essere i detentori del capitale intellettuale, un bene altrettanto, anzi anche più importante del capitale materiale, il senso di essere un gruppo sociale decisivo perché portatore dei valori connettivi della società civile e tenuto a certi doveri nei confronti dello stato, erano assenti. Sapevo quanto solido fosse l’ apparato produttivo di certi Paesi, sapevo che non a caso lì erano all’ avanguardia nella ricerca, che loro disponevano di più risorse. Non potevo però immaginare che ci stava sotto e attorno. La scoperta del Bildungsbürger [ il corrispettivo del citoyen francese ] mi ha aperto gli occhi. Ora mi sembra di aver capito la questione e ne trovo quotidianamente le conferme. Ma hanno forse un’ idea gli amici rimasti in Italia della quantità di informazione tout court e di informazione scientifica e tecnologica che passa sulle televisioni tedesche mentre loro in Italia si imbambolano tra chiappe e ‘fighi’ o ascoltando le urla che si scambiano i politici nei talk shows ? Ma sanno forse che mentre i nostri telegiornali si occupano di cronaca nera, qui si occupano di flessione o espansione della chimica, dell’ industria automobilistica o delle tecnologie informatiche ? Ma sanno che l’ incompetenza nel pubblico impiego in Europa è una vergogna inammissibile ? Sanno che se scrivi ad un ente pubblico, questo ti risponde entro 2 settimane e lo fa in modo circostanziato ? Per arrivare a questo ci vuole una scuola, una coscienza, l’ orgoglio per la propria funzione di servizio, ci vuole una struttura che educhi a questo, che controlli, che punisca, se necessario. E perché questo avvenga ci si deve sentirsi gratificati per il proprio ruolo. Tutto questo ha a molto più a che fare di quanto sembri con la ricerca e con il perseguimento nel lungo periodo di una strategia industriale.
Da che esiste il sistema capitalistico, da quando la scienza e la tecnologia sono divenute il motore del sistema produttivo e del suo sviluppo (a dire il vero pure delle sue crisi) da quando la società si è democratizzata, da quando la sovranità si è articolata secondo la democrazia rappresentativa, da quando si è costituito lo stato di diritto, da quando il potere legislativo ed esecutivo si sono “repubblicanizzati”, la classe centrale, la classe perno del sistema è la borghesia. Il suo essere classe dirigente se l’ è conquistato sul campo, a volte brutalmente. E tale è diventata non per bellezza o solo per ricchezza, ma perché ha posto e imposto quelle trasformazioni e quelle tradizioni di cui parlavo pocanzi. Spesso, nelle fasi della accumulazione originaria del capitale i capitalisti sono stati rapacissimi, spesso si sono anche macchiati di crimini. Basti pensare al colonialismo. Ma questi dati incontrovertibili non intaccano il fatto che la borghesia europea, nel suo complesso, ha avuto ed ha un ruolo storico positivo, un ruolo che non va confuso con la pratica dell’ arraffare o del ritagliarsi una rendita. La borghesia produttiva e socialmente più avveduta ha sempre capito e promosso la mobilità sociale così come le istanze del movimento operaio e non va confusa con i ceti parassitari. Anche il clan mafioso più ricco e lungimirante nel gestire i proventi della propria attività criminale, che fa sì che i propri rampolli studino e imparino a integrarsi nel mondo produttivo, non fa parte della borghesia a nessun titolo. Non è il reddito a definire l’ appartenenza alla borghesia, ma il ruolo e la coscienza di sé.
Torniamo ora a bomba. Ma una borghesia con quei connotati è mai esistita in Italia ? Sì, ma sempre a macchia di leopardo, a fasi intermittenti e senza mai raggiungere la massa critica per potersi imporre. È sempre stata soverchiata quantitativamente e politicamente dalla “borghesia” parassitaria. E poi la nostra borghesia, intesa in senso forte e nobile, non è quasi mai riuscita a costruire delle istituzioni in cui si incarnassero le funzioni progressive di cui parlavo prima, istituzioni di formazione e riproduzione di se stessa. Come se non bastasse, non è mai riuscita ad esercitare un’ egemonia culturale, economica e politica sui ceti parassitari tale da rimpicciolirli o metterli sulla difensiva. Né è mai riuscita ad attirare le forze più avvertite e più sane del movimento operaio, né è riuscita a creare consenso in vasti settori di ceti medi sulla propria visione del mondo, dell’ economia, della democrazia e dello stato. Si sa, da più di un secolo anche in Italia si sono affermati e diffusi la società borghese ed il modo di produzione capitalistico, ma questo è avvenuto come un fenomeno d’ importazione e senza una vera classe borghese. Anche i singoli che sono stati borghesi e capitalisti a pieno titolo, hanno agito più a livello molecolare che formando uno stabile tessuto sociale.
Ecco perché mi permetto di dire un po’ provocatoriamente che la più grande questione sociale all’ ordine del giorno in Italia è ancora e sempre quella della borghesia. Non penso si debba fare l’ elemosina ai ricchi, né tanto meno iniziare piani di sviluppo in vitro o all’ aria aperta di un nuovo soggetto sociale. Solo dalla società civile può nascere un moto che aggreghi e fornisca coscienza prospettica ad un certo tipo di agenti sociali, che coinvolga e trasformi lo stato ed il senso comune del Paese. Mille sono i passi da compiere, in mille ambiti differenti. Non è questo lo spazio per dilungarsi su questo problema, che è per noi da un certo punto di vista il problema dei problemi. Per ora mi basta che lo si individui e che se ne veda il nesso con il tema della ricerca e dello sviluppo scientifici e tecnologici.

* * * *

Giungo ora alle conclusioni che ci riguardano più direttamente. Se le grandi chances di comunicazione e di movimento che si sono aperte negli ultimi due decenni hanno accelerato il flusso, forse il salasso, di capitale umano e intellettivo ad alta potenzialità innovativa, quelle stesse chances possono essere le premesse per una inversione di tendenza. Dobbiamo solo prenderne coscienza e imparare ad usarle in modo consono. Attardiamoci a riflettere ancora un poco. Per la prima volta nella storia accade o potrebbe accadere che l’ emigrazione non significhi più esilio o perdita secca per il paese d’ origine. Se infatti al flusso segue un ‘riflusso’ mirato ed oculato, se si organizza la comunicazione, o il ritorno, o il pendolarismo, o l’ interscambio di e con chi è emigrato, ecco allora che si aprono prospettive per la trasformazione del luogo di origine dell’ emigrazione.
Questo discorso ha addirittura una valenza più generale. Gli italiani emigrati negli ultimi decenni non sono più quelli che hanno superato la “muraglia cinese“. Loro dispongono invece dei mezzi per elaborare e trasferire la loro conoscenza di società più mature e avanzate nel paese d’ origine. Avrebbero dunque anche il dovere di trasmettere in modo sistematico quanto di buono si può prendere da sane società borghesi in termini di mentalità, di istituzioni e di modi di funzionamento delle stesse, in termini di opinione pubblica e di auto-organizzazione della società civile. E dovrebbero davvero iniziare a pensarsi come una sorta di movimento riformatore deciso ad esercitare un impatto sull’ opinione pubblica e sulla politica italiana. Chiaramente evitando di proporsi a mo’ di grillo parlante. Ahimè, scopro adesso che Grillo è anche un cognome, il nome di qualcuno che la martellata di Pinocchio se la sarebbe più che meritata.
Stando così le cose, perché non iniziare quel lavoro da Heidelberg, dove viviamo, una città di dimensioni abbastanza piccole, nemmeno lontanissima dal Nord Italia, una città in cui l’ emigrazione intellettuale è fortemente rappresentata e che si presta anche per le sue strutture a sviluppare sapere e comunicazione ? Sta a noi fare i passi necessari.
È chiaro che studenti e ricercatori vanno invitati ad organizzarsi, a scambiarsi le esperienze fatte, a fare un quadro delle realtà da cui sono scappati, o, nel migliore dei casi, in cui rientreranno. Sarà poi certamente necessario studiare a puntino lo stato del settore ricerca nei vari paesi europei radiografandolo in termini quantitativi e qualitativi, per scoprire che legame sussiste tra ricerca di base e ricerca orientata all’ applicazione, e tra questa e la realizzazione tecnologica, per capire se e quali sinergie esistono con l’ industria. Per capire che rapporti sussistono tra ricerca di stato e ricerca privata.
Vanno poi studiati i modi di interconnettersi o di dividersi il lavoro con ricercatori residenti in altre città. Vanno anche studiate le procedure di reclutamento dei dottorandi e dei ricercatori, la loro trasparenza o opacità. Il tutto senza mai perdere di vista la prospettiva storica, senza la quale si rischia di fare del tecnicismo e di elaborare proposte che lascino in patria il tempo che trovano.


Heidelberg, 17 gennaio 2012

Beppe Vandai

Nessun commento:

Posta un commento