di Beppe Vandai
(
I )
Abbiamo
sottolineato più volte, sia in chiacchierate tra di noi che nel
corso della SERATA
MACHIAVELLI del 14
novembre 2013, in occasione della conferenza del Prof. A. Prosperi,
che il Principe può
essere solo frainteso se si prescinde dalla contingenza storica in
cui fu scritto e dalla biografia del suo autore. Quest’ opera non è
un nuovo tentativo di fondazione della sfera politica, né dal punto
di vista filosofico ( vedi Aristotele, Tommaso d’ Aquino, Hobbes
ecc. ), né dal punto di vista giuridico ( vedi Marsilio da Padova o
J. Bodin ). È piuttosto una riflessione sui momenti
ineludibili e costitutivi della pratica politica,
una riflessione finalizzata alla comprensione di quali sono i
pilastri su cui
edificare uno stato monarchico nuovo ( principato nuovo o misto ),
sufficientemente robusto e radicato nel popolo da poter sussistere
nel lungo periodo e in grado di perseguire gli obiettivi di conquista
ritenuti di volta in volta necessari.
Per
di più questa analisi sbocca nella proposta di arginare in tempi
rapidi le invasioni straniere, impedendo che l’ Italia divenisse il
terreno di scontro privilegiato tra gli egemonismi francese e
spagnolo, o che divenisse stabilmente il satellite di una di quelle
due potenza straniere.
Come
vedete, la posta in gioco era altissima, in quello scorcio iniziale
del ‘500. Machiavelli tentò di giocare l’ ultima, disperata
carta che a suo avviso si potesse giocare: solleticare le grandi
ambizioni dei Medici affinché questi, partendo dalla Toscana, con il
beneplacito del nuovo papa, Leone X – alias Giovanni de Medici,
salito al soglio pontificio l’ 11 marzo 1513 – si mettessero a
tappe forzate sulla via di un principato capace, prima, di dominare
l’ Italia Centrale, e poi, tutto il Paese.
Ma
come mai un repubblicano convinto, fedele servitore della Repubblica
Fiorentina dal 1498 fino alla sua caduta, avvenuta nell’ autunno
del 1512, da sempre avversario dei magnati e dei Medici, da loro
imprigionato dopo la caduta della Repubblica, torturato, esiliato in
suo piccolo possedimento di campagna, concepisce una svolta simile?
Spesso si legge che, con il Principe,
Machiavelli volesse ingraziarsi i nuovi padroni, volesse tornare ad
avere qualche incarico politico o diplomatico, così da poter tornare
a contare, o quanto meno da potersi guadagnare la pagnotta. Questa
tesi testimonia solo della pochezza di chi la formula. Se così fosse
stato, ‘ser Niccoló avrebbe scritto un trattato di ampollosa
retorica, un tipo d’ opera che egli stigmatizza esplicitamente
nella dedica al Principe.
No,
Machiavelli scrive qualcosa che è esso stesso un
atto politico nel
senso più eminente del termine, qualcosa che ci dice come egli si
era ormai convinto che i tempi non fossero adatti per una repubblica.
Le forze messe in campo dai primi due stati nazionali assoluti
(Francia e Spagna) erano tanto soverchianti da non lasciare alcuna
chance alle repubbliche nostrane, soprattutto se queste non si erano
preparate a sostenere i loro attacchi. L’ epoca repubblicana si era
chiusa per chissà quanto tempo. Questa era la sua convinzione, anche
se in cuor suo continuava a pensare che quella repubblicana fosse la
miglior forma di stato, in quanto tale, e per il popolo. A
testimoniarlo è il lungo lavoro a cui attese in seguito, per
parecchi anni, ad un’ opera divenuta altrettanto famosa: I
Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio.
Anche
nei confronti del Papato Machiavelli sembra aver mutato linea. Come
mai l’ uomo che scriverà pagine al vetriolo (vedi Discorsi,
Libro I, cap. XII) sul ruolo, fatale per l’ Italia, che il Papato
svolse e svolgeva, ora spera che un Papato “medicizzato“ possa
essere d’ aiuto alla causa italiana? Forse che non avesse ancora
maturato la posizione dei Discorsi?
Su queste domanda vale la pena di soffermarsi. Nello stesso Principe
Machiavelli non può essere tacciato di essere tenero o acritico sul
Papato. Basta leggerne le ironie sullo strano costrutto rappresentato
dai principati ecclesiastici (vedi Principe,
cap. XI) per capire che aveva già compreso a pieno quell’ anomalia
pericolosissima.
O
forse che Machiavelli fosse un acceso anticlericale di principio, ma
tanto amorale da non aver problemi a ‘farsela con i nemici’?
Niente ce lo fa pensare. Piuttosto vale la pena sapere come si
comportò nel decennio precedente, da ambasciatore o segretario della
Repubblica di Firenze.
Nel
1503, non appena
Giulio II della Rovere divenne papa, Machiavelli, inviato a Roma per
sondarne gli umori e per esprimere i desiderata dei fiorentini, gli
suggerisce di intervenire il più in fretta possibile contro Venezia,
i cui successi espansionistici nella penisola facevano intendere come
la Serenissima avesse mire sul Centro Italia e forse sull’ Italia
intera. In quel frangente il Segretario fiorentino non ebbe nulla da
eccepire sul ricorso agli stranieri (francesi in testa) affinché
sventassero il pericolo veneziano. Allora non si sognava nemmeno
lontanamente di che pasta fosse quello che passerà alla storia come
“il papa guerriero“. Del resto Machiavelli non era un veggente.
Sette
anni dopo, nel 1510,
quando vede che il papa, messa in ginocchio Venezia, soprattutto
grazie all’ aiuto francese, rovescia le alleanze e intende dar vita
a quella che sarà chiamata la “Lega Santa”, coalizzando la
Spagna, l’ Impero, Venezia e i mercenari svizzeri contro la
Francia, capisce qual’ è la perenne
strategia del Papato:
impedire che in
Italia sorga uno stato potente, governato da italiani.
Machiavelli vede in questa costante della politica temporale del
Papato qualcosa di inaccettabile ed esiziale. E questo sarà un punto
di non ritorno nel suo pensiero.
Eppure,
nella primavera del
1513, sceglie
quello che considera il male minore. E non esita a puntare sui
Medici. Avendo adesso ‘in famiglia’ un alleato così potente ed
influente sullo scacchiere europeo, i Medici potrebbero muoversi così
da creare una situazione di patta tra le grandi potenze e tenerle
lontane dalla penisola. A quel punto i signori di Firenze avrebbero
potuto diventare stabilmente la forza egemone in Italia.
Machiavelli
sapeva anche benissimo quanto in politica l’ agire con i tempi
giusti fosse essenziale, sapeva, per esperienza, che certe occasioni
offerte dalla sorte non si possono lasciar scappare, ché non si sa
quando torneranno. Allora, nell’ estate del 1513, decide di agire,
con l’ unico mezzo che gli rimane: lo scrivere.
Il
Principe
non è un’ opera di lunga gestazione, anzi, fu steso di getto nell’
estate-autunno del 1513. Ai primi di dicembre era sicuramente già
finito. Del resto il suo linguaggio tradisce l’ impulso dell’
autore, che deve fare presto ed essere il più efficace possibile nel
convincere.
(
II )
Togliere
il Principe
dal contesto storico significa invece indebolirlo e non capirlo a
pieno. E così è successo spesso. Quanti interpreti si sono
soffermati su alcune parti, lo hanno visto come un trattato, come un’
opera filosofica! Di certo, è tanto ricco di acutissime
osservazioni, è tanto nuovo e radicale nel trattare la prassi
politica senza gli ‘ occhiali del dover-essere ‘, è così
efficace nel mettere a nudo le costanti antropologiche dell´agire
umano, che tanti non hanno resistito alla tentazione di farne il
luogo d’ origine della modernità. Eppure, se ben si guarda, nel
Principe
sono altri momenti concettuali a dominarne l’
architettura:
a
) Messer Niccoló ha capito per primo la portata dei mutamenti
avvenuti in Francia ed in Spagna. Anche per via delle sue
ricognizioni diplomatiche in Francia, sa già che d’ ora in poi
sarà la dimensione
nazionale a dominare.
b
) Ha già in testa quali devono essere le grandi linee per costituire
stati moderni
stabili e in
positiva simbiosi con il popolo:
un forte potere centrale, controbilanciato da élites libere di
articolarsi, a loro volta controbilanciate da istituzioni in cui il
popolo possa dire la sua, un esercito ‘di leva’
professionalizzato.
c
) Spiega e ribadisce che la
politica, come la
prassi umana in generale, è
per sua natura situativa
– per dirla con un termine filosofico che si spiega da sé. Nessuna
regola può prevedere e formulare l’ imponderabile. La agire
politico deve badare a lasciare il segno, ad essere efficace, ma
visto che la realtà umana ed interumana ha in sé enormi spazi di
indeterminazione, che
cosa sia efficace
va deciso caso per
caso, al
tempo giusto.
d
) Invitando il suo candidato-principe ad agire, ad usare tutti gli
strumenti che gli ha messo a disposizione con il pamphlet,
Machiavelli compie un
atto politico. L’
esortazione finale a liberare l’ Italia dagli stranieri non giunge
dunque affatto inaspettata. Non solo, riprende pari pari il climax
analitico dell’ opera:
il cap. XXIV.
Il finale non è né posticcio, né contraddice il resto, dà invece
uno sbocco pratico a tutta l’ opera.
(
III )
Il
Principe si chiude con l’ esortazione a liberare l’ Italia dai
barbari, anzi, il titolo del capitolo conclusivo suona così:
“Exortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris
vindicandam” (“ Esortazione a prendersi l’ Italia e,
sbarazzandola dai barbari, ridarle la libertà”). Più chiari di
così non si potrebbe essere. Non è l’ appello al popolo a
ribellarsi, è l’ invito ad un principe italiano a prendersi il
Paese, togliendolo dalle mani degli stranieri, dominatori o aspiranti
tali. Machiavelli non usa termini neutrali come “ab externis” o “
ab exteris” o “ab alienis”, bensì “a barbaris”, cioè si
pone e pone i suoi copatrioti dal punto di vista dei Romani.
Riflettiamoci un poco: un autore latino usando il termine “barbarus“,
si serviva di un termine più o meno sinonimo degli altri. L’ uso
medievale o rinascimentale di “barbarus” contiene invece
certamente il richiamo alla forte contrapposizione tra la civiltà
romana e le culture estranee all’ Impero. Il che equivale a
stabilire una continuità tra gli italiani del proprio tempo e la
terra-madre della romanità nel mondo antico.
Come
se non bastasse, Machiavelli chiude l’ opera citando quattro versi
del Canzoniere del Petrarca (CXXVIII): “Virtù contro al furore /
prenderà l’ arme; e fia el combatter corto, / ché l’ antico
valore / nell’ italici cor non è ancor morto”. La
contrapposizione “virtù” e “valore” vs. “furore”
riecheggia la contrapposizione “italici” (discendenti dei Romani)
vs. “barbari” (discendenti di popoli non ancora civilizzati, o
non del tutto civilizzati). L’ appello machiavelliano è pieno di
pathos. Oltre che convincere, vuole commuovere e muovere la volontà.
Ma
non ci avevano detto che l’ Italia era da considerarsi a quel tempo
una mera entità geografica? Passate le estasi risorgimentali,
passata la sbornia fascista, presi dalla paura di peccare di
anacronismo, tanto carichi di coscienza storica, da alcuni decenni
quasi non osiamo credere che all’ inizio del ‘500 qualcuno
potesse parlare seriamente di “ popolo italiano” a proposito di
un’ entità reale. Così il Machiavelli passa per un visionario o
un nostalgico di un passato lontano. E di solito si usa liquidare la
questione affermando che queste erano ardite proiezioni di letterati.
Non erano forse della stessa pasta anche Dante e Petrarca?
Per
rincarare la dose critica circa l’ uso inaccettabile del concetto
di popolo e di identità nazionale quanto all’ Italia dell’
epoca, potremmo portare ad esempio le uniche nazioni dotate di
confini certi, di monarchie solide, così pure dei primordi di
apparati statali: Francia, Spagna, Inghilterra. Questo è vero. Lo
scarto tra questi paesi e l’ Italia o la Germania di allora era
enorme. Ma non dimentichiamo che in Spagna e Francia, quelle identità
forti e moderne erano diventate tali solo nella seconda metà del
‘400, addirittura, ad essere più precisi, verso la fine di quel
secolo.
E
dobbiamo forse attribuire solo ai popoli di quei tre paesi i galloni
dell’ omogeneità e della consapevolezza di sé, mentre le altre
realtà geografiche sarebbero stati solo bacini di etnie disomogenee
e prive di una loro identità culturale? Parimenti, quando
Machiavelli fa degli schizzi precisi sul carattere nazionale dei
francesi e dei tedeschi, cercandone pure le radici in un antico
passato, sta per caso vaneggiando?
Chi
la pensa così si sbaglia di grosso. Basta leggersi i racconti di
viaggio di mercanti, di alti dignitari o di alti prelati, anche
medievali, per capire che anche allora le differenti etnie e culture
avevano immagini precise delle diversità, vere o deformate, tra i
popoli europei.
Non
è difficile dimostrare che per gli europei d’Oltralpe gli italiani
rispondevano a un archetipo ben preciso. Gli stranieri entravano per
lo più in contatto con gli italiani del centro-nord, che loro
chiamavano indistintamente “lombardi“. E questo era per loro il
popolo delle città-stato, un popolo di mercanti, banchieri,
artigiani e artisti, un popolo raffinato in cui le strutture feudali
non avevano inciso a fondo e contavano molto di meno che da loro.
Otto von Freising, vescovo di quella città e zio del Barbarossa
scriveva in modo preoccupato e perentorio che in Italia regnava il
popolo, intendendo con questo i ceti borghesi. Per gli europei
ultramontani l’ Italia era anche e soprattutto il piedistallo del
Papato ed il paese da cui era partita la cristianizzazione del
continente. Per i più colti, l’ Italia era anche la patria del
diritto, laico e canonico. Non poco si stupivano del fatto che in
quel paese ogni accordo doveva essere scritto e soddisfare certi
requisiti formali. Il nostro era dunque il paese dei giuristi, dei
notai, degli avvocati.
E
tutto questo è forse poco? Direi proprio di no. Se manco ci si
poteva immaginare l’ identità politica di questo popolo, venivano
invece dati per scontati forti legami etnici, sorti dalla
omogeneizzazione romana, così come un’ unità linguistica, civile,
culturale e letteraria. Non era forse questo che autorizzava Dante,
Petrarca e Machiavelli a “parlare al Paese”, ad invitarlo a
liberarsi delle feroci divisioni politiche interne, a liberarsi dell’
influenza straniera? Mi sembra pure assai sintomatico che nessuno di
loro sentisse la necessità di giustificare l’ appello all’
identità di questo popolo, segno che la davano per scontata.
Machiavelli
compie poi anche un decisivo passo in avanti. Proprio perché scrive
all’ inizio del ‘500, il suo orizzonte ha perso qualsiasi
connotazione e preoccupazione universalistica, connaturata ai
discorsi di Dante o di Marsilio da Padova. Per lui, all’ identità
del popolo italiano deve assolutamente aggiungersi un’ identità
politica nazionale. Va detto che a questa conclusione lo portò la
sua esperienza politica, di dimensione europea e italiana. E come
accennavo sopra, la svolta si completò nel 1510, allorché capì
quale ostacolo e quale focolaio di disordine e di soggezione fosse
stato e fosse il Papato.
Proprio
il suo ‘programma politico italiano’, la necessità e l’
impellenza di seguire assolutamente l’ esempio francese e spagnolo
lo separava da miriadi di suoi contemporanei che, nelle varie città,
repubbliche, signorie o principati, pensavano solo in termini locali.
Nemmeno loro negavano l’ esistenza di forti radici comuni.
Soltanto, non ne traevano delle conseguenze politiche. Loro badavano
piuttosto a non essere sopraffatti dalla potenza (o ‘impotenza’)
confinante, o a sopraffarla. E da ciò nasceva una fitta rete di
inimicizie e alleanze, che la Penelope che era in loro tesseva e
disfaceva.
Il
dato dominante era, lo sanno tutti, il particolarismo, conseguenza e
rovescio della medaglia della mancanza di uno stato sovraordinato ai
poteri locali, uno stato che corrispondesse agli standard migliori di
allora: caratterizzato ancora da un’ intelaiatura feudale e
cetuale, dalla trasmissione dall’ alto del potere, connotato ancora
da fortissimi legami personali, dotato solo dei primi embrioni di
centralizzazione e di burocrazia.
Orbene,
a Machiavelli era chiarissimo che il particolarismo, ed il suo
universo mentale, impediva alle varie classi dirigenti locali di
pensare in termini unitari e globali. Per quel ceto dirigente, l’
unica e ovvia autorità centrale erano la Chiesa cattolica ed il
papato. E quasi nessuno metteva in discussione questa ovvietà. Così
le grandi famiglie italiane si adeguavano, entravano massicciamente
negli alti ranghi della Chiesa per promuovere i propri interessi
domestico-territoriali e le loro carriere. Non furono pochi i
“grandi“, come li chiamava ‘ser Niccoló, che grazie a queste
scalate allargavano le loro zone d’ influenza o ne ottenevano delle
nuove (basti pensare ai Farnese, ai Medici, ai Fieschi, ai Borghese,
ai Carafa). E che dire ad esempio, del fatto che Giovanni de Medici,
ultimo figlio del Magnifico, colui che diverrà Leone X, fu fatto
cardinale a 13 anni? Il Papato era pure un’ occasione unica per la
piccola nobiltà per compiere un’ascesa di grado (vedi i Della
Rovere). Non è un mistero che l’ alto clero era in gran parte di
origini aristocratiche, oppure, in piccola parte di origini umili,
per lo più contadine. Grande assente era il popolo, formato dalla
borghesia cittadina mercantile, dal ceto degli artigiani, dalla
borghesia del sapere di allora, costituita in buona sostanza da chi
praticava le arti liberali.
Intellettuali
e politici come Machiavelli sapevano che in Paesi come la Francia, la
Spagna e l’ Inghilterra le cose stavano diversamente. I popoli di
quei Paesi si identificano fortemente con il potere regio.
Soprattutto Francia e Spagna avevano appena compiuto un salto di
qualità: la prima dopo la lunghissima guerra anti-inglese e dopo
essersi espansa fino quasi a raggiungere i confini che oggi
conosciamo, la seconda dopo essere appena uscita rafforzata dalla
ri-cattolicizzazione di gran parte della penisola ( la “reconquista”)
e dall’ unione delle dinastie castigliana e aragonese.
Ciò
non impediva ad intellettuali come Machiavelli di vedere, in modo
plastico, l’ identità italiana, anzi li spronava a proporre che in
Italia si compisse quel salto di qualità riuscito altrove. Parlare
all’ Italia e dell’ Italia non significava fantasticare o
inventare – con un artificio intellettuale – alcunché. L´eredità
romana, lo specifico culturale, la lingua erano più che sufficienti
a farne un popolo. Piuttosto erano le élites e le classi dirigenti
localistiche di allora a non essere in grado di fare altrettanto.
Queste pensavano alla loro particolare respublica,
a rafforzarne le basi economiche, a brillare mediante le corti
(centri di esternazione della loro potenza, centri di cultura e dell’
amministrazione pubblica, gangli di enormi e complesse clientele), a
istituzionalizzare le fazioni distribuendo loro in modo appropriato
cariche e fette di potere.
Se
per Machiavelli la parola “Italia“ non era semplicemente flatus
vocis, per costoro
invece lo era. Ma chi aveva ragione? I realisti di allora o il
‘visionario’ che vedeva arrivare l’ uragano? Gli eventi storici
hanno chiarito, senza possibilità di appello, la questione. Era quel
diavolo del “vecchio nick” ad avere ragione. La grande crisi del
‘600 avrebbe dimostrato la giustezza della sua analisi e delle sue
proposte. Tra l´altro lui aveva già capito quali errori avevano
compiuto e stavano compiendo le classi dirigenti italiane. Basti
leggere le pagine delle Istorie
Fiorentine in cui
parla del caso-Genova ed in cui si meraviglia, in modo sarcastico, di
quel modello. Modello in cui il privatismo era penetrato nel cuore
dello stato. Modello di una Repubblica in cui il nocciolo duro della
classe dirigente altro non era che un consiglio di amministrazione.
Si legga ad esempio questo brano: “ San Giorgio [ il pool dei
creditori della città, ndr ] (…) si ha posto sotto la
amministrazione la maggiore parte delle terre e città sottoposte
allo imperio genovese; le quali e governa e difende, e ciascuno anno,
per publici suffragi vi manda suoi rettori, sanza che il comune in
alcuna parte se ne travagli. Da questo è nato che quelli cittadini
hanno levato lo amore al comune, come cosa tiranneggiata, e postolo a
San Giorgio (…) [ Istorie
Fiorentine, libro
VIII, capitolo XXIX, vedi ad esempio l’ edizione economica Utet, TO
2007, pp. 744-745 ]. Machiavelli non aveva alcuno dubbio su quale
modello avrebbe vinto, se quello francese o spagnolo, o quello
genovese. Perciò proponeva un’ alternativa tutta italica.
(
IV )
Messer
Niccoló aveva ben individuato il punto debole delle miserie
italiane. Basti leggere questi brani del Capitolo conclusivo del
Principe:
“ (…) pare che sempre che in quella [l’ Italia, ndr] la virtù
militare sia spenta. Questo nasce che gli ordini antiqui di essa non
erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de’
nuovi: (…) e in Italia non manca materia per introdurvi forma. Qui
è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi. (…)
Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E tutto procede
dalla debolezza de’ capi. “ Qui Machiavelli si occupa
espressamente della questione militare. La sua critica all’
incapacità della classe dirigente era chiara ed impietosa. Ma non si
può dire che il nostro non la pensasse così anche sotto altri punti
di vista. Le parole su Genova ne fanno, ad esempio, fede.
Quello
delle gravi carenze di élites e classi dirigenti è un filo rosso
che percorre tutta la storia del nostro Paese. È un problema antico,
che aspetta ancora di essere risolto. Basti pensare al ventennio che
ci è… forse, quasi alle spalle, all´apoteosi dell’
approssimazione e del privatismo, alla democrazia quale potere alla
suburra, a tutta una patologia che ci balla ancora davanti al naso.
(
V )
Conclusa
questa tirata vorrei fare una proposta di lettura del Principe,
serissima, ma assai
poco ortodossa. Consiglio a tutti di leggerlo così:
a
) Leggere il capitolo I , dove Machiavelli traccia una breve
tassonomia dei tipi di principato, considerati dal punto di vista del
loro ottenimento.
b
) Tener presente che il suo interesse va soprattutto ai principati
nuovi, cioè ottenuti non per via ereditaria, ma in qualche modo
conquistati. La prova di ciò è in tutto il Principe.
c
) Saltare completamente i capitoli II – XXIII, sapendo che questa
parte prevalentemente analitica fornisce le prove di una conclusione
pratica. Nulla vieta che questi capitoli siano studiati
separatamente, com’ è stato fatto spesso. Ce n’ è abbastanza
per riempire libri interi di riflessioni storiche, filologiche, di
teorie della politica. Tutte cose utili, importanti e legittime. Ma
non va mai perso d’ occhio a che conclusioni pratiche Machiavelli
giunge. Da qui il consiglio di fare il salto proposto.
d
) Studiare con la massima attenzione il cap. XXIV, in cui M. elabora
la triplice regola
per la conquista ed il mantenimento del principato (in generale, e
nuovo in particolare): d.1 ) dotarsi di un esercito ‘di leva’
proprio, d.2 ) avere il popolo amico, dando forti basi di consenso
allo stato, d.3 ) ottenere l’ appoggio o la neutralità delle
grandi potenze. Il cap. XXIV è a tutti gli effetti il climax
concettuale dell’
opera.
e
) Studiarsi il giustamente famoso capitolo XXV, quello su “virtù e
fortuna”, tenendo presente che non è la divagazione di un filosofo
o di un chiacchierone, ma la confutazione della tesi che sia solo o
principalmente il caso a reggere gli avvenimenti ed i processi umani,
e quindi le disgrazie d’ Italia. Con ciò Machiavelli tarpa le ali
ai fatalisti del suo tempo, ai teorici del “mannaggia”.
f
) Godersi l’ “Esortazione a prendersi e liberare l`Italia” come
uno studiatissimo appello ai Medici. Infatti, Machiavelli riprende
sapientemente la triplice
regola per cavarne
l’ invito accorato ad agire. Le tre regole ricompaiono, ma in senso
inverso [ cioè: d.3, d.2 e d.1 ]. I Medici hanno ora un punto d’
appoggio internazionale di prima grandezza (il Papato). Hanno il
consenso popolare e la possibilità di ottenerlo in tutta Italia.
Hanno anche, nel popolo, un bacino assai vasto e diffuso di virtù da
mobilitare. Non resta loro che dotarsi di “arme proprie“,
adeguandole agli ultimi sviluppi della tecnica militare. Sia i
termini al calor bianco usati da Machiavelli, che la disposizione
inversa degli argomenti, sono prova di grande maestria retorica,
quale arte del convincere. Nel capitolo si sente ribollire il sangue
dell’ autore. Non è pathos vuoto il suo. Ma non servì a nulla. I
Medici, questa splendida famiglia rinascimentale, tanto ammirata,
avevano altro in testa.
g
) Tornare a leggere il Principe
dal cap. II,
seguendo l’ ordine lineare.
(
VI )
A
chi amasse invece il percorso convenzionale con cui si leggono i
libri, spero di fare cosa utile con questa breve scaletta del libro:
A
) CAP. I – IX: Elenco e studio dei principati quanto al loro
ottenimento. Strategie per il loro mantenimento.
B
) CAP. X – XIV: Osservazioni sul problema della forza.
C
) CAP. XV – XXIII: Osservazioni sul problema del consenso e dell’
articolazione dello stato.
D
) CAP. XXIV – XXVI: La triplice regola per conquistare e mantenere
il principato. Ruolo della sagacia in politica. Esortazione a
prendersi e liberare l’ Italia.
Heidelberg,
1. 12. 2013
Beppe
Vandai
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