martedì 3 dicembre 2013

Scheda sul "Principe" di Machiavelli


di Beppe Vandai

( I )

Abbiamo sottolineato più volte, sia in chiacchierate tra di noi che nel corso della SERATA MACHIAVELLI del 14 novembre 2013, in occasione della conferenza del Prof. A. Prosperi, che il Principe può essere solo frainteso se si prescinde dalla contingenza storica in cui fu scritto e dalla biografia del suo autore. Quest’ opera non è un nuovo tentativo di fondazione della sfera politica, né dal punto di vista filosofico ( vedi Aristotele, Tommaso d’ Aquino, Hobbes ecc. ), né dal punto di vista giuridico ( vedi Marsilio da Padova o J. Bodin ). È piuttosto una riflessione sui momenti ineludibili e costitutivi della pratica politica, una riflessione finalizzata alla comprensione di quali sono i pilastri su cui edificare uno stato monarchico nuovo ( principato nuovo o misto ), sufficientemente robusto e radicato nel popolo da poter sussistere nel lungo periodo e in grado di perseguire gli obiettivi di conquista ritenuti di volta in volta necessari. 
 
Per di più questa analisi sbocca nella proposta di arginare in tempi rapidi le invasioni straniere, impedendo che l’ Italia divenisse il terreno di scontro privilegiato tra gli egemonismi francese e spagnolo, o che divenisse stabilmente il satellite di una di quelle due potenza straniere.
Come vedete, la posta in gioco era altissima, in quello scorcio iniziale del ‘500. Machiavelli tentò di giocare l’ ultima, disperata carta che a suo avviso si potesse giocare: solleticare le grandi ambizioni dei Medici affinché questi, partendo dalla Toscana, con il beneplacito del nuovo papa, Leone X – alias Giovanni de Medici, salito al soglio pontificio l’ 11 marzo 1513 – si mettessero a tappe forzate sulla via di un principato capace, prima, di dominare l’ Italia Centrale, e poi, tutto il Paese.
Ma come mai un repubblicano convinto, fedele servitore della Repubblica Fiorentina dal 1498 fino alla sua caduta, avvenuta nell’ autunno del 1512, da sempre avversario dei magnati e dei Medici, da loro imprigionato dopo la caduta della Repubblica, torturato, esiliato in suo piccolo possedimento di campagna, concepisce una svolta simile? Spesso si legge che, con il Principe, Machiavelli volesse ingraziarsi i nuovi padroni, volesse tornare ad avere qualche incarico politico o diplomatico, così da poter tornare a contare, o quanto meno da potersi guadagnare la pagnotta. Questa tesi testimonia solo della pochezza di chi la formula. Se così fosse stato, ‘ser Niccoló avrebbe scritto un trattato di ampollosa retorica, un tipo d’ opera che egli stigmatizza esplicitamente nella dedica al Principe.
No, Machiavelli scrive qualcosa che è esso stesso un atto politico nel senso più eminente del termine, qualcosa che ci dice come egli si era ormai convinto che i tempi non fossero adatti per una repubblica. Le forze messe in campo dai primi due stati nazionali assoluti (Francia e Spagna) erano tanto soverchianti da non lasciare alcuna chance alle repubbliche nostrane, soprattutto se queste non si erano preparate a sostenere i loro attacchi. L’ epoca repubblicana si era chiusa per chissà quanto tempo. Questa era la sua convinzione, anche se in cuor suo continuava a pensare che quella repubblicana fosse la miglior forma di stato, in quanto tale, e per il popolo. A testimoniarlo è il lungo lavoro a cui attese in seguito, per parecchi anni, ad un’ opera divenuta altrettanto famosa: I Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio.
Anche nei confronti del Papato Machiavelli sembra aver mutato linea. Come mai l’ uomo che scriverà pagine al vetriolo (vedi Discorsi, Libro I, cap. XII) sul ruolo, fatale per l’ Italia, che il Papato svolse e svolgeva, ora spera che un Papato “medicizzato“ possa essere d’ aiuto alla causa italiana? Forse che non avesse ancora maturato la posizione dei Discorsi? Su queste domanda vale la pena di soffermarsi. Nello stesso Principe Machiavelli non può essere tacciato di essere tenero o acritico sul Papato. Basta leggerne le ironie sullo strano costrutto rappresentato dai principati ecclesiastici (vedi Principe, cap. XI) per capire che aveva già compreso a pieno quell’ anomalia pericolosissima.
O forse che Machiavelli fosse un acceso anticlericale di principio, ma tanto amorale da non aver problemi a ‘farsela con i nemici’? Niente ce lo fa pensare. Piuttosto vale la pena sapere come si comportò nel decennio precedente, da ambasciatore o segretario della Repubblica di Firenze.
Nel 1503, non appena Giulio II della Rovere divenne papa, Machiavelli, inviato a Roma per sondarne gli umori e per esprimere i desiderata dei fiorentini, gli suggerisce di intervenire il più in fretta possibile contro Venezia, i cui successi espansionistici nella penisola facevano intendere come la Serenissima avesse mire sul Centro Italia e forse sull’ Italia intera. In quel frangente il Segretario fiorentino non ebbe nulla da eccepire sul ricorso agli stranieri (francesi in testa) affinché sventassero il pericolo veneziano. Allora non si sognava nemmeno lontanamente di che pasta fosse quello che passerà alla storia come “il papa guerriero“. Del resto Machiavelli non era un veggente.
Sette anni dopo, nel 1510, quando vede che il papa, messa in ginocchio Venezia, soprattutto grazie all’ aiuto francese, rovescia le alleanze e intende dar vita a quella che sarà chiamata la “Lega Santa”, coalizzando la Spagna, l’ Impero, Venezia e i mercenari svizzeri contro la Francia, capisce qual’ è la perenne strategia del Papato: impedire che in Italia sorga uno stato potente, governato da italiani. Machiavelli vede in questa costante della politica temporale del Papato qualcosa di inaccettabile ed esiziale. E questo sarà un punto di non ritorno nel suo pensiero.
Eppure, nella primavera del 1513, sceglie quello che considera il male minore. E non esita a puntare sui Medici. Avendo adesso ‘in famiglia’ un alleato così potente ed influente sullo scacchiere europeo, i Medici potrebbero muoversi così da creare una situazione di patta tra le grandi potenze e tenerle lontane dalla penisola. A quel punto i signori di Firenze avrebbero potuto diventare stabilmente la forza egemone in Italia.
Machiavelli sapeva anche benissimo quanto in politica l’ agire con i tempi giusti fosse essenziale, sapeva, per esperienza, che certe occasioni offerte dalla sorte non si possono lasciar scappare, ché non si sa quando torneranno. Allora, nell’ estate del 1513, decide di agire, con l’ unico mezzo che gli rimane: lo scrivere.
Il Principe non è un’ opera di lunga gestazione, anzi, fu steso di getto nell’ estate-autunno del 1513. Ai primi di dicembre era sicuramente già finito. Del resto il suo linguaggio tradisce l’ impulso dell’ autore, che deve fare presto ed essere il più efficace possibile nel convincere.

( II )

Togliere il Principe dal contesto storico significa invece indebolirlo e non capirlo a pieno. E così è successo spesso. Quanti interpreti si sono soffermati su alcune parti, lo hanno visto come un trattato, come un’ opera filosofica! Di certo, è tanto ricco di acutissime osservazioni, è tanto nuovo e radicale nel trattare la prassi politica senza gli ‘ occhiali del dover-essere ‘, è così efficace nel mettere a nudo le costanti antropologiche dell´agire umano, che tanti non hanno resistito alla tentazione di farne il luogo d’ origine della modernità. Eppure, se ben si guarda, nel Principe sono altri momenti concettuali a dominarne l’ architettura:
a ) Messer Niccoló ha capito per primo la portata dei mutamenti avvenuti in Francia ed in Spagna. Anche per via delle sue ricognizioni diplomatiche in Francia, sa già che d’ ora in poi sarà la dimensione nazionale a dominare.
b ) Ha già in testa quali devono essere le grandi linee per costituire stati moderni stabili e in positiva simbiosi con il popolo: un forte potere centrale, controbilanciato da élites libere di articolarsi, a loro volta controbilanciate da istituzioni in cui il popolo possa dire la sua, un esercito ‘di leva’ professionalizzato.
c ) Spiega e ribadisce che la politica, come la prassi umana in generale, è per sua natura situativa – per dirla con un termine filosofico che si spiega da sé. Nessuna regola può prevedere e formulare l’ imponderabile. La agire politico deve badare a lasciare il segno, ad essere efficace, ma visto che la realtà umana ed interumana ha in sé enormi spazi di indeterminazione, che cosa sia efficace va deciso caso per caso, al tempo giusto.
d ) Invitando il suo candidato-principe ad agire, ad usare tutti gli strumenti che gli ha messo a disposizione con il pamphlet, Machiavelli compie un atto politico. L’ esortazione finale a liberare l’ Italia dagli stranieri non giunge dunque affatto inaspettata. Non solo, riprende pari pari il climax analitico dell’ opera: il cap. XXIV. Il finale non è né posticcio, né contraddice il resto, dà invece uno sbocco pratico a tutta l’ opera.

( III )

Il Principe si chiude con l’ esortazione a liberare l’ Italia dai barbari, anzi, il titolo del capitolo conclusivo suona così: “Exortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam” (“ Esortazione a prendersi l’ Italia e, sbarazzandola dai barbari, ridarle la libertà”). Più chiari di così non si potrebbe essere. Non è l’ appello al popolo a ribellarsi, è l’ invito ad un principe italiano a prendersi il Paese, togliendolo dalle mani degli stranieri, dominatori o aspiranti tali. Machiavelli non usa termini neutrali come “ab externis” o “ ab exteris” o “ab alienis”, bensì “a barbaris”, cioè si pone e pone i suoi copatrioti dal punto di vista dei Romani. Riflettiamoci un poco: un autore latino usando il termine “barbarus“, si serviva di un termine più o meno sinonimo degli altri. L’ uso medievale o rinascimentale di “barbarus” contiene invece certamente il richiamo alla forte contrapposizione tra la civiltà romana e le culture estranee all’ Impero. Il che equivale a stabilire una continuità tra gli italiani del proprio tempo e la terra-madre della romanità nel mondo antico.
Come se non bastasse, Machiavelli chiude l’ opera citando quattro versi del Canzoniere del Petrarca (CXXVIII): “Virtù contro al furore / prenderà l’ arme; e fia el combatter corto, / ché l’ antico valore / nell’ italici cor non è ancor morto”. La contrapposizione “virtù” e “valore” vs. “furore” riecheggia la contrapposizione “italici” (discendenti dei Romani) vs. “barbari” (discendenti di popoli non ancora civilizzati, o non del tutto civilizzati). L’ appello machiavelliano è pieno di pathos. Oltre che convincere, vuole commuovere e muovere la volontà.
Ma non ci avevano detto che l’ Italia era da considerarsi a quel tempo una mera entità geografica? Passate le estasi risorgimentali, passata la sbornia fascista, presi dalla paura di peccare di anacronismo, tanto carichi di coscienza storica, da alcuni decenni quasi non osiamo credere che all’ inizio del ‘500 qualcuno potesse parlare seriamente di “ popolo italiano” a proposito di un’ entità reale. Così il Machiavelli passa per un visionario o un nostalgico di un passato lontano. E di solito si usa liquidare la questione affermando che queste erano ardite proiezioni di letterati. Non erano forse della stessa pasta anche Dante e Petrarca?
Per rincarare la dose critica circa l’ uso inaccettabile del concetto di popolo e di identità nazionale quanto all’ Italia dell’ epoca, potremmo portare ad esempio le uniche nazioni dotate di confini certi, di monarchie solide, così pure dei primordi di apparati statali: Francia, Spagna, Inghilterra. Questo è vero. Lo scarto tra questi paesi e l’ Italia o la Germania di allora era enorme. Ma non dimentichiamo che in Spagna e Francia, quelle identità forti e moderne erano diventate tali solo nella seconda metà del ‘400, addirittura, ad essere più precisi, verso la fine di quel secolo.
E dobbiamo forse attribuire solo ai popoli di quei tre paesi i galloni dell’ omogeneità e della consapevolezza di sé, mentre le altre realtà geografiche sarebbero stati solo bacini di etnie disomogenee e prive di una loro identità culturale? Parimenti, quando Machiavelli fa degli schizzi precisi sul carattere nazionale dei francesi e dei tedeschi, cercandone pure le radici in un antico passato, sta per caso vaneggiando?
Chi la pensa così si sbaglia di grosso. Basta leggersi i racconti di viaggio di mercanti, di alti dignitari o di alti prelati, anche medievali, per capire che anche allora le differenti etnie e culture avevano immagini precise delle diversità, vere o deformate, tra i popoli europei.
Non è difficile dimostrare che per gli europei d’Oltralpe gli italiani rispondevano a un archetipo ben preciso. Gli stranieri entravano per lo più in contatto con gli italiani del centro-nord, che loro chiamavano indistintamente “lombardi“. E questo era per loro il popolo delle città-stato, un popolo di mercanti, banchieri, artigiani e artisti, un popolo raffinato in cui le strutture feudali non avevano inciso a fondo e contavano molto di meno che da loro. Otto von Freising, vescovo di quella città e zio del Barbarossa scriveva in modo preoccupato e perentorio che in Italia regnava il popolo, intendendo con questo i ceti borghesi. Per gli europei ultramontani l’ Italia era anche e soprattutto il piedistallo del Papato ed il paese da cui era partita la cristianizzazione del continente. Per i più colti, l’ Italia era anche la patria del diritto, laico e canonico. Non poco si stupivano del fatto che in quel paese ogni accordo doveva essere scritto e soddisfare certi requisiti formali. Il nostro era dunque il paese dei giuristi, dei notai, degli avvocati.
E tutto questo è forse poco? Direi proprio di no. Se manco ci si poteva immaginare l’ identità politica di questo popolo, venivano invece dati per scontati forti legami etnici, sorti dalla omogeneizzazione romana, così come un’ unità linguistica, civile, culturale e letteraria. Non era forse questo che autorizzava Dante, Petrarca e Machiavelli a “parlare al Paese”, ad invitarlo a liberarsi delle feroci divisioni politiche interne, a liberarsi dell’ influenza straniera? Mi sembra pure assai sintomatico che nessuno di loro sentisse la necessità di giustificare l’ appello all’ identità di questo popolo, segno che la davano per scontata.
Machiavelli compie poi anche un decisivo passo in avanti. Proprio perché scrive all’ inizio del ‘500, il suo orizzonte ha perso qualsiasi connotazione e preoccupazione universalistica, connaturata ai discorsi di Dante o di Marsilio da Padova. Per lui, all’ identità del popolo italiano deve assolutamente aggiungersi un’ identità politica nazionale. Va detto che a questa conclusione lo portò la sua esperienza politica, di dimensione europea e italiana. E come accennavo sopra, la svolta si completò nel 1510, allorché capì quale ostacolo e quale focolaio di disordine e di soggezione fosse stato e fosse il Papato.
Proprio il suo ‘programma politico italiano’, la necessità e l’ impellenza di seguire assolutamente l’ esempio francese e spagnolo lo separava da miriadi di suoi contemporanei che, nelle varie città, repubbliche, signorie o principati, pensavano solo in termini locali. Nemmeno loro negavano l’ esistenza di forti radici comuni. Soltanto, non ne traevano delle conseguenze politiche. Loro badavano piuttosto a non essere sopraffatti dalla potenza (o ‘impotenza’) confinante, o a sopraffarla. E da ciò nasceva una fitta rete di inimicizie e alleanze, che la Penelope che era in loro tesseva e disfaceva.
Il dato dominante era, lo sanno tutti, il particolarismo, conseguenza e rovescio della medaglia della mancanza di uno stato sovraordinato ai poteri locali, uno stato che corrispondesse agli standard migliori di allora: caratterizzato ancora da un’ intelaiatura feudale e cetuale, dalla trasmissione dall’ alto del potere, connotato ancora da fortissimi legami personali, dotato solo dei primi embrioni di centralizzazione e di burocrazia.
Orbene, a Machiavelli era chiarissimo che il particolarismo, ed il suo universo mentale, impediva alle varie classi dirigenti locali di pensare in termini unitari e globali. Per quel ceto dirigente, l’ unica e ovvia autorità centrale erano la Chiesa cattolica ed il papato. E quasi nessuno metteva in discussione questa ovvietà. Così le grandi famiglie italiane si adeguavano, entravano massicciamente negli alti ranghi della Chiesa per promuovere i propri interessi domestico-territoriali e le loro carriere. Non furono pochi i “grandi“, come li chiamava ‘ser Niccoló, che grazie a queste scalate allargavano le loro zone d’ influenza o ne ottenevano delle nuove (basti pensare ai Farnese, ai Medici, ai Fieschi, ai Borghese, ai Carafa). E che dire ad esempio, del fatto che Giovanni de Medici, ultimo figlio del Magnifico, colui che diverrà Leone X, fu fatto cardinale a 13 anni? Il Papato era pure un’ occasione unica per la piccola nobiltà per compiere un’ascesa di grado (vedi i Della Rovere). Non è un mistero che l’ alto clero era in gran parte di origini aristocratiche, oppure, in piccola parte di origini umili, per lo più contadine. Grande assente era il popolo, formato dalla borghesia cittadina mercantile, dal ceto degli artigiani, dalla borghesia del sapere di allora, costituita in buona sostanza da chi praticava le arti liberali.
Intellettuali e politici come Machiavelli sapevano che in Paesi come la Francia, la Spagna e l’ Inghilterra le cose stavano diversamente. I popoli di quei Paesi si identificano fortemente con il potere regio. Soprattutto Francia e Spagna avevano appena compiuto un salto di qualità: la prima dopo la lunghissima guerra anti-inglese e dopo essersi espansa fino quasi a raggiungere i confini che oggi conosciamo, la seconda dopo essere appena uscita rafforzata dalla ri-cattolicizzazione di gran parte della penisola ( la “reconquista”) e dall’ unione delle dinastie castigliana e aragonese.
Ciò non impediva ad intellettuali come Machiavelli di vedere, in modo plastico, l’ identità italiana, anzi li spronava a proporre che in Italia si compisse quel salto di qualità riuscito altrove. Parlare all’ Italia e dell’ Italia non significava fantasticare o inventare – con un artificio intellettuale – alcunché. L´eredità romana, lo specifico culturale, la lingua erano più che sufficienti a farne un popolo. Piuttosto erano le élites e le classi dirigenti localistiche di allora a non essere in grado di fare altrettanto. Queste pensavano alla loro particolare respublica, a rafforzarne le basi economiche, a brillare mediante le corti (centri di esternazione della loro potenza, centri di cultura e dell’ amministrazione pubblica, gangli di enormi e complesse clientele), a istituzionalizzare le fazioni distribuendo loro in modo appropriato cariche e fette di potere.
Se per Machiavelli la parola “Italia“ non era semplicemente flatus vocis, per costoro invece lo era. Ma chi aveva ragione? I realisti di allora o il ‘visionario’ che vedeva arrivare l’ uragano? Gli eventi storici hanno chiarito, senza possibilità di appello, la questione. Era quel diavolo del “vecchio nick” ad avere ragione. La grande crisi del ‘600 avrebbe dimostrato la giustezza della sua analisi e delle sue proposte. Tra l´altro lui aveva già capito quali errori avevano compiuto e stavano compiendo le classi dirigenti italiane. Basti leggere le pagine delle Istorie Fiorentine in cui parla del caso-Genova ed in cui si meraviglia, in modo sarcastico, di quel modello. Modello in cui il privatismo era penetrato nel cuore dello stato. Modello di una Repubblica in cui il nocciolo duro della classe dirigente altro non era che un consiglio di amministrazione. Si legga ad esempio questo brano: “ San Giorgio [ il pool dei creditori della città, ndr ] (…) si ha posto sotto la amministrazione la maggiore parte delle terre e città sottoposte allo imperio genovese; le quali e governa e difende, e ciascuno anno, per publici suffragi vi manda suoi rettori, sanza che il comune in alcuna parte se ne travagli. Da questo è nato che quelli cittadini hanno levato lo amore al comune, come cosa tiranneggiata, e postolo a San Giorgio (…) [ Istorie Fiorentine, libro VIII, capitolo XXIX, vedi ad esempio l’ edizione economica Utet, TO 2007, pp. 744-745 ]. Machiavelli non aveva alcuno dubbio su quale modello avrebbe vinto, se quello francese o spagnolo, o quello genovese. Perciò proponeva un’ alternativa tutta italica.

( IV )

Messer Niccoló aveva ben individuato il punto debole delle miserie italiane. Basti leggere questi brani del Capitolo conclusivo del Principe: “ (…) pare che sempre che in quella [l’ Italia, ndr] la virtù militare sia spenta. Questo nasce che gli ordini antiqui di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de’ nuovi: (…) e in Italia non manca materia per introdurvi forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi. (…) Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza de’ capi. “ Qui Machiavelli si occupa espressamente della questione militare. La sua critica all’ incapacità della classe dirigente era chiara ed impietosa. Ma non si può dire che il nostro non la pensasse così anche sotto altri punti di vista. Le parole su Genova ne fanno, ad esempio, fede.
Quello delle gravi carenze di élites e classi dirigenti è un filo rosso che percorre tutta la storia del nostro Paese. È un problema antico, che aspetta ancora di essere risolto. Basti pensare al ventennio che ci è… forse, quasi alle spalle, all´apoteosi dell’ approssimazione e del privatismo, alla democrazia quale potere alla suburra, a tutta una patologia che ci balla ancora davanti al naso.

( V )

Conclusa questa tirata vorrei fare una proposta di lettura del Principe, serissima, ma assai poco ortodossa. Consiglio a tutti di leggerlo così:
a ) Leggere il capitolo I , dove Machiavelli traccia una breve tassonomia dei tipi di principato, considerati dal punto di vista del loro ottenimento.
b ) Tener presente che il suo interesse va soprattutto ai principati nuovi, cioè ottenuti non per via ereditaria, ma in qualche modo conquistati. La prova di ciò è in tutto il Principe.
c ) Saltare completamente i capitoli II – XXIII, sapendo che questa parte prevalentemente analitica fornisce le prove di una conclusione pratica. Nulla vieta che questi capitoli siano studiati separatamente, com’ è stato fatto spesso. Ce n’ è abbastanza per riempire libri interi di riflessioni storiche, filologiche, di teorie della politica. Tutte cose utili, importanti e legittime. Ma non va mai perso d’ occhio a che conclusioni pratiche Machiavelli giunge. Da qui il consiglio di fare il salto proposto.
d ) Studiare con la massima attenzione il cap. XXIV, in cui M. elabora la triplice regola per la conquista ed il mantenimento del principato (in generale, e nuovo in particolare): d.1 ) dotarsi di un esercito ‘di leva’ proprio, d.2 ) avere il popolo amico, dando forti basi di consenso allo stato, d.3 ) ottenere l’ appoggio o la neutralità delle grandi potenze. Il cap. XXIV è a tutti gli effetti il climax concettuale dell’ opera.
e ) Studiarsi il giustamente famoso capitolo XXV, quello su “virtù e fortuna”, tenendo presente che non è la divagazione di un filosofo o di un chiacchierone, ma la confutazione della tesi che sia solo o principalmente il caso a reggere gli avvenimenti ed i processi umani, e quindi le disgrazie d’ Italia. Con ciò Machiavelli tarpa le ali ai fatalisti del suo tempo, ai teorici del “mannaggia”.
f ) Godersi l’ “Esortazione a prendersi e liberare l`Italia” come uno studiatissimo appello ai Medici. Infatti, Machiavelli riprende sapientemente la triplice regola per cavarne l’ invito accorato ad agire. Le tre regole ricompaiono, ma in senso inverso [ cioè: d.3, d.2 e d.1 ]. I Medici hanno ora un punto d’ appoggio internazionale di prima grandezza (il Papato). Hanno il consenso popolare e la possibilità di ottenerlo in tutta Italia. Hanno anche, nel popolo, un bacino assai vasto e diffuso di virtù da mobilitare. Non resta loro che dotarsi di “arme proprie“, adeguandole agli ultimi sviluppi della tecnica militare. Sia i termini al calor bianco usati da Machiavelli, che la disposizione inversa degli argomenti, sono prova di grande maestria retorica, quale arte del convincere. Nel capitolo si sente ribollire il sangue dell’ autore. Non è pathos vuoto il suo. Ma non servì a nulla. I Medici, questa splendida famiglia rinascimentale, tanto ammirata, avevano altro in testa.
g ) Tornare a leggere il Principe dal cap. II, seguendo l’ ordine lineare.

( VI )

A chi amasse invece il percorso convenzionale con cui si leggono i libri, spero di fare cosa utile con questa breve scaletta del libro:
A ) CAP. I – IX: Elenco e studio dei principati quanto al loro ottenimento. Strategie per il loro mantenimento.
B ) CAP. X – XIV: Osservazioni sul problema della forza.
C ) CAP. XV – XXIII: Osservazioni sul problema del consenso e dell’ articolazione dello stato.
D ) CAP. XXIV – XXVI: La triplice regola per conquistare e mantenere il principato. Ruolo della sagacia in politica. Esortazione a prendersi e liberare l’ Italia.

Heidelberg, 1. 12. 2013
Beppe Vandai

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