[ vedi
anche le 15 TESI ESTRATTE ]
OSSERVAZIONI
PRELIMINARI
Il
saggio di Carlo Levi Un volto che ci
somiglia, di cui trovate riprodotto in
allegato il primo paragrafo ( L’ umile
Italia ), fu scritto, e tradotto in
tedesco, nel 1959, come testo di accompagnamento di un volume di
fotografie di János Reismann. Fotografie per lo più in bianco e
nero, scattate da questi negli anni cinquanta. Il libro apparve lo
stesso anno, dapprima in tedesco, per i tipi dell’ editore Belser
di Stoccarda. Il titolo era appropriatamente: “ ITALIEN: Alles ist
gewesen, alles ist Gegenwart “
[
“Italia: tutto vi è avvenuto, tutto è presenza” ]. Vi si vedono
noti monumenti del nostro Paese, reliquie dell’ antichità, del
medioevo, della prima età moderna, a volte immersi nel paesaggio, a
volte attorniati e ‘vissuti’ dai nostri connazionali di allora.
Ma vi si vedono anche marine, siluette di villaggi appollaiati su dei
colli, oppure visti dal mare. E poi molti scorci dei quartieri
popolari di Roma e Napoli. Scugnizzi in strada, gente in vespa, molti
bambini, contadini, pescatori. Insomma tanta umanità che popola le
vestigia del nostro passato, vestigia che sono la loro ‘casa’.
L´anno
seguente il saggio venne pubblicato in italiano da Einaudi (credo
senza foto), così intitolato: Un volto
che ci somiglia.
Ritratto dell’ Italia. Nel 2000
Goffredo Fofi ne curò la riedizione, assieme a due altri testi più
brevi, presso le Edizioni e/o.
Stavolta il titolo era: Un volto che ci
somiglia. L’ Italia com’ era. La
seconda parte del titolo suggerisce quantomeno che le riflessioni di
Levi si riferiscano ad un nostro passato che non c’ è più. Una
cosa abbastanza singolare per un lavoro che doveva descrivere la
presenza perenne del passato in Italia. Forse l’ aggiunta L’
Italia com’ era non va tanto
imputata a Fofi, quanto all’ editore stesso. Infatti, all’
interno, il titolo torna ad essere: Un
volto che ci somiglia. Ritratto dell’ Italia.
Facendovi
notare questi dettagli non prendetemi per un pedante. Piuttosto
vorrei segnalare un problema, porre fin dall’ inizio una domanda:
secondo voi che leggerete o avete letto il testo, le osservazioni di
Levi sono sorpassate o ci riguardano ancora ? Di certo, se avesse
ragione l’ ultimo editore, il saggio di Levi verrebbe eo
ipso confutato.
L ‘
autore avrebbe avuto la pretesa di fare la diagnosi di una civiltà
di lunghissima durata e di trovarne i tratti perenni… ed eccolo
smentito nel giro di 40 anni. Sia come sia, lasciatemi tratteggiarne,
a mo’ d’ introduzione, alcune caratteristiche e di fare alcune
sottolineature.
Il
testo di Levi va ben oltre le immagini, è un vero e proprio saggio
autonomo. In fondo, si tratta di immagini a noi familiari, viste in
tanti altri volumi fotografici, belle, interessanti, ma un po’
scontate per un italiano. Diversamente stavano le cose per un lettore
tedesco del 1959. Ci si può immaginare come sia andata la cosa. L’
editore di Stoccarda propone a Levi di scrivere un commento alle
immagini. Con questo vuole dare peso e lustro al volume. Levi è
infatti al colmo della sua popolarità. Cristo
si è fermato a Eboli è stato tradotto
in tutte le lingue principali del pianeta. Ha avuto enormi consensi
di critica. Non solo. Dal neorealismo in poi il cinema italiano si è
imposto all’ attenzione in tutte le culture. E Levi che fa ?
Accetta, vede le immagini ed inizia in piena libertà a fare una
riflessione complessa sul rapporto tra passato e presente nel nostro
Paese, sulle radici della nostra cultura, sui suoi caratteri
distintivi. Né più né meno. Non pensa nemmeno un minuto a scrivere
delle didascalie alle foto. Vuole scrivere un testo al tempo stesso
organico e impressionistico, solido ma anche poetico, articolato in
una serie di aperçus. Il suo non è un trattato paludato, ma è a
tutti gli effetti un testo impegnativo, che chiede molto al lettore.
Non sappiamo se l’ editore di Stoccarda sia rimasto soddisfatto. Di
certo, il normale lettore straniero, se si basa sulle immagini e non
ha un vasto bagaglio culturale, viene letteralmente ‘strapazzato’.
Il
paragrafo più lungo è il primo ( che trovate per intero in allegato
). ‘Apre’ la strada a tutti gli altri e ne fa da fondamento. È
quello più articolato e argomentato, ha una struttura forte, ben
ragionata, anche se il linguaggio tende al poetico e non ha nulla di
deduttivo. Gli altri paragrafi sono più brevi e descrittivi, offrono
a volte delle ‘vedute’ autonome, a volte degli approfondimenti,
degli arricchimenti al primo.
Nell’ insieme, Un
volto che ci somiglia è un testo
ricco di pathos e di coinvolgimento. Ha momenti poetici, ma paga
troppo spesso un certo eccesso di trasporto. Se vogliamo, il suo
difetto maggiore sta in una certa tendenza al barocco, a volte
addirittura indulge all’ apologia. In certi momenti avrebbe
sicuramente giovato un po’ più di controllo, di spirito dialettico
( nel trovare l’ incaglio, il rovescio della medaglia ).
Ciononostante è un lavoro di grande valore concettuale, offre degli
scorci illuminanti, perfino geniali sulla natura della civiltà
italiana. È il testo di un artista vero, di razza, che ‘lavora di
prima mano’, che sa vedere ( non passi inosservata la distinzione
leviana tra “vedere“ e “guardare“ ), che sa cogliere l’
umano nel profondo. Questo non fa meraviglia perché Levi fu anche un
grande pittore, un osservatore acutissimo, dotato di una vasta e
profonda cultura. Aveva dato già grandi prove di queste sue qualità
in Fuga dalla libertà, Cristo si è
fermato a Eboli e
L´orologio.
ALCUNE
SOLLECITAZIONI ALLA LETTURA
A )
Levi pone a volte l’ accento sulla differenza
tra popoli ‘giovani’ e popoli ‘vecchi’.
Non sviluppa il tema, occupandosi solo dell’ Italia. Resta però
implicito che l’ italiano è un popolo vecchio mentre i popoli
dell’ Europa del Nord e del Nord Ovest sono popoli giovani.
B ) La
trama su cui Levi intesse il saggio consiste nell’ idea che nessuna
cultura, nessuna civiltà, nessuna società umana è pensabile senza
il processo che rende oggettiva la
soggettività. Senza antropizzare il
suo ambiente, senza rendere oggettivi gli stili di vita, senza
formare e trasformare le cose, senza produrre artefatti, mai l’
umano può sedimentarsi né trasmettersi. Hegel chiama questo
processo la formazione dello ‘spirito oggettivo’. Popper, con una
scelta terminologica meno felice parla di ‘ terzo mondo ‘.
Ben si
capisce che quello dell’ oggettivazione, nel caso di una etnia, di
una nazione, di una civiltà, è un processo, ed è parimenti
evidente, se solo si riflette un poco, che ogni civiltà è un’
entità diacronica, che si forma per accumulo.
Mi
preme pure sottolineare che il processo di formazione di questa
entità, così come lo tratteggia Levi, è sì assai variegato, ma
ruota su due cardini:
( i )
La trasmissione-trasposizione
comunicativa diretta, orale e non
orale. Si pensi al momento dell’ educazione, del ‘dare l’
esempio’, o al momento del trasmettere un know how, un
atteggiamento. Ma si rifletta anche sui momenti imprescindibili del
mostrare e della comunicazione non verbale che accompagnano la
comunicazione verbale.
( ii )
La oggettivazione
di dati umani, estetici, di vita, in cose, in oggetti, che poi ci
staranno di fronte, o che saranno usati. Il lavoro cumulativo sulla e
nella natura, la costruzione di agglomerati urbani, la trasformazione
dell’ambiente in generale. La fabbricazione di strumenti, ma anche
la creazione di opere d’ arte o di culto fanno parte di questo
aspetto. Ma anche la ‘cosificazione’ del sapere in strumenti di
studio, di informazione e di trasmissione sono componenti di questo
lavoro. E si faccia mente locale su questo: solo le cose possono
durare, sopravvivere al loro autore, trasmettere e dare stabilità ad
una cultura, o civiltà che dir si voglia.
C )
Levi è ben conscio di questi dati e, senza però offrirci una
teoria, li usa sapientemente per giungere alla conclusione che l’
Italia è un volto che ci somiglia.
Questo vale, anzi può valere per ogni popolo o etnia o entità
nazionale. Ma vale forse per tutti allo stesso modo, allo stesso
grado, allo stesso livello ? Io credo di no. Un conto è se un popolo
ha iniziato questo cammino (magari agglutinandosi a salti, per
inglobamenti da stadi precedenti, da suoi prodromi) da migliaia di
anni o da soli mille anni o addirittura da alcun centinaia di anni. E
poi fa molta differenza da quando
un popolo ha avuto un centro, da quando si è strutturato in città,
da quando si è creata un’ amministrazione, da quando si è dotato
di una lingua scritta, da quando ha iniziato a trasformare
radicalmente e massicciamente l’ ambiente per insediarvisi e
soddisfare i suoi crescenti bisogni. Conta molto sapere da quando
pratica tecniche raffinate di agricoltura e allevamento, da quando ha
smesso di essere un popolo ‘silvano’.
[ Ora,
sappiamo che in Italia certi processi hanno raggiunto un buon stato
di avanzamento da almeno 3.500 anni. Poi sappiamo che un processo di
unificazione culturale, prima in entità regionali o pluriregionali o
addirittura nazionale è iniziato almeno da 2.500 anni.
Penso
poi valga la pena anche riflettere su un fatto che ci è ormai
diventato estraneo. Questi processi sono avvenuti lentamente o
lentissimamente. Noi siamo ormai abituati a pensare in svolte, o
pseudo-svolte epocali, che avvengono nel corso di venti o cinquant’
anni. Ma è poi possibile un tale ritmo ? Forse ci facciamo
abbagliare dalle apparenze. In ogni caso, la lentezza dello scorrere
del tempo ha giovato ad una metabolizzazione sicura e profonda del
nuovo, ha permesso di scremare l’ effimero dal decisivo, di dare al
decisivo il tempo di diventare effettuale-razionale, ha permesso di
esperimentare le contaminazioni, ha permesso di resistere alle
sopraffazioni e di prendersi delle rivincite.
E poi
non dimentichiamo che grandi religioni come l’ Ebraismo, il
Buddismo, il Cristianesimo e l’ Islam si sono costituite tutte tra
l’ 800 a.C. ed il 500 d.C.
Ma
anche la forma-stato, come i concetti del diritto, dell’ etica e
dell’ amministrazione, così come li conosciamo in Occidente, hanno
le loro radici nell’ antichità. E che dire poi del ruolo da
attribuire al sapere ? Ebbene, l’ Italia fu coinvolta quasi fin
dall’ inizio in questi processi fondativi, poi ne fu addirittura al
centro. E tutto questo non ha coinvolto solo delle élites, ha
toccato anche le classi subalterne, sebbene queste ne fossero in gran
parte escluse. ]
D )
Levi fa di tutto per aprirci gli occhi, per farci vedere nell’
Italia e nell’ italianità i tratti dell’ arcaico
e dell’antico
che sono ancora in noi.
E per farceli apprezzare. E li trova in alto grado anche
nella civiltà contadina, anche in
quella che tanto spesso viene ritenuta tanto primitiva e
superstiziosa. E non lesina ad apprezzarli e onorarli. Del resto ha
mostrato quanta umanità alta e acculturata ci fosse nella Lucania
contadina. Da noi le classi subalterne, da tempo immemorabile, non
sono rozze o ottuse. L’ individuo è rispettato nella sua umanità
integrale, è inserito in comunità ricche di scambi interumani come
la famiglia, il vicinato, il villaggio, comunità che gli danno una
forte stabilità esistenziale.
E )
Levi enuclea anche i due fattori che hanno favorito lo sviluppo
complesso, ricco di accumulo e di punti di non ritorno, della civiltà
italiana: il policentrismo
ed i processi di omogeneizzazione con un
salto di livello.
Il
policentrismo ha permesso alle varie comunità etniche e regionali di
distillare lentamente la loro cultura, di darle forma, sostanza e
stabilità. Ha permesso che la popolazione vi si agglutinasse.
Ma d’
altro canto ha avuto luogo anche l’ omogeneizzazione, sempre
coatta, in misura maggiore o minore, che ha costretto le tante
comunità e etnie a fare dei salti culturali, di stile di vita, di
modo di produzione e di organizzazione, anche di religiosità. E qui
non possiamo non pensare ai due massimi momenti: l’ Impero Romano e
il Cristianesimo-Cattolicesimo. Sotto l’ egida e l’ egemonia di
queste istituzioni ha avuto luogo l’ omogeneizzazione, in entrambe
i casi con una saggia dose di tolleranza e di assimilazione dell’
arcaico, del particolare, del primigenio.
F ) In
Italia l’ arte ha
avuto un ruolo decisivo, fondante ( non solo fondamentale ) nel fare
civiltà, nel darle forma. Notare: la civiltà è stata per millenni
molto più visuale di quanto lo sia da un paio di secoli. L’ arte
ha inciso nel dare forma al paesaggio, alle città, ai palazzi, ai
monumenti, nel trasmettere miti e riti sociali e religiosi, nel dare
loro stabilità, pregnanza, nel dare loro efficacia comunicativa, e
dunque efficacia tout court. Ma ha influenzato anche il modo di
vestirsi, di comunicare. Ha offerto modelli di orientamento e di
comportamento. Ha creato e diffuso dei gusti, ed in generale una
forte sensibilità per il ‘buon gusto’. Le civiltà antica,
medievale e della prima e media età moderna hanno impresso nell’
ambiente grandi stilemi. Poi l’ utilitarismo, giunto in tempi
recenti al parossismo, il produttivismo, l’ homo oeconomicus hanno
preso il sopravvento. I risultati sono spesso raccapriccianti. Basta
guardarsi intorno. Sia come sia, fa una notevole differenza, da
questo punto di vista, quanto antico o vecchio o giovane sia un
popolo.
G ) La
civilizzazione passata ha
avuto il tempo di occuparsi del cibo,
della forma, della grazia, dell’ armonia, del modo di comportarsi e
di comunicare. Ha prodotto riti e miti dotati di un alto valore
estetico. Tutte cose che un tempo stavano in primo piano.
Anche
coloro che erano esclusi dal processo di civilizzazione urbana o
curtense, anche coloro che vivevano nella totale indigenza si erano
dotati degli strumenti per resistere, per interpretare e ammansire il
mondo, per esorcizzare il male, e vivere, in comunità, il bene loro
concesso. Qui Levi fa valere la sua esperienza lucana, in cui ha
scoperto il mondo arcaico, dei fuori-dalla-storia. Ha scoperto il
lato fortemente umano e sano di una popolazione arcaica, creatrice di
miti e di esperienze magiche che avevano contaminato il
cristianesimo.
H ) Le
sue osservazioni sulla profonda
sicurezza esistenziale degli italiani
meritano molta attenzione. Sono di grande rilievo sia perché enuncia
questa tesi [ n° 10 nel mio tesario ] in modo netto, deciso, sia per
come ci è arrivato. Le parti precedenti la preparano e la rendono
plausibile. Questo tratto, che spesso ci sfugge nella sua ovvietà,
perché sappiamo che niente è più difficile da capire e afferrare
di chi ciò che ci è più vicino e quotidiano, acquista nel contesto
leviano la giusta rilevanza che gli compete e trova la sua
collocazione esatta. È un dato antropologico di primordine, un dato
non biologico, bensì culturale. È un dato non casuale, ma che si è
fatto. È un dato di lunga durata. È un dato di grande persistenza.
È un dato che Levi pone nella giusta luce. L’ idea della
compiutezza di sé, di così come si è, non ha nulla di atomistico,
del pericoloso atomismo nichilistico che rischia di minacciare l’
integrità dell’ individuo in ogni momento, di privarlo del senso
della presenza, di offrirlo all’alienazione. Questa idea nasce, si
forgia, si stabilizza nella comunità familiare, del vicinato, del
villaggio, della città. Tutti luoghi di un forte ‘agire
comunicativo’ ( inteso alla Habermas ).
I )
Ebbene, questo senso per le comunità
concrete, organiche, in un certo senso
viventi è il portato di un grande lavoro di civiltà. Ne rimane
traccia nel particolare senso delle radici, dell’attaccamento agli
amici e ai parenti, che tanto caratterizzano gli italiani. Ma questi
tratti fortemente positivi sono però stati e sono spesso un grave
impaccio rispetto alla res publica
in senso forte, verso istituzioni ben più astratte, come lo stato,
il sistema giuridico, l’ etica pubblica. E spiegano anche tanta
refrattarietà a regole universali, eque, condivise, ma giustamente
rigide, valide al di fuori di troppa libertà interpretativa.
Spiegano anche, in una parola, la forte refrattarietà italiana alla
modernità.
L )
Levi ci offre ancora una volta una spiegazione convincente di questo
habitus degli italiani.
Non nega affatto l’ importanza che l’ Italia debba fare sforzi
per adeguarsi alla tendenza immanente alla civiltà occidentale
contemporanea. Nella chiusura del primo capitolo si lascia andare a
toni ottimistici, esalta il valore fondante della Resistenza come
occasione di riscatto del popolo italiano e confida soprattutto nel
movimento operaio e contadino, nei Contadini
in senso lato [come li aveva caratterizzati nel romanzo L’
orologio (Torino 1950)]. Qui pecca
certamente di ottimismo di maniera e dimentica i toni ben più
critici, negativi e complessi de L’
orologio, un romanzo ingiustamente
dimenticato o non apprezzato nella sua grandezza, letteraria e di
pensiero.
[[
Nella riflessione che faremo in VoltaLaCarta!!
– come abbiamo precisato nella
riunione del 19 settembre scorso – vorremmo procedere su questi
assi:
a )
comprendere, interpretare il testo ‘interrogandolo’ nel suo
valore-di-verità,
b )
porre il problema della sua attualità, o meno, riferendoci
esplicitamente alla tesi pasoliniana della cosiddetta mutazione
antropologica degli italiani,
c )
raccordare il saggio di Levi con quello di Leopardi (Discorso
sullo stato presente dei costumi degli italiani)
e con gli Scritti corsari e
le Lettere luterane di
P.P. Pasolini. ]]
Giuseppe
Vandai Heidelberg,
25 / 09 / 2012
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