Alla
fine del ‘700 non esistono in Italia
a
) né
una borghesia sufficientemente diffusa che funga da spina dorsale
dello Stato né da centro della società civile, che sia omogenea dal
punto di vista ideologico o dotata di un programma di trasformazione
della società, cioè che, in poche parole, sia da considerare quale
borghesia nazionale,
né di fatto né in nuce;
b )
né una
borghesia di tipo manifatturiero
abbastanza ampia.
L’ unica manifattura abbastanza forte, perché trovava sbocchi
nell’ esportazione, era l’ industria serica. La regione leader
era la Lombardia. Attorno a questa industria ruotava tutto un mondo
di fornitori agricoli, di commercianti, di mediatori, di artigiani.
Il perno era però costituito dai capitalisti, in qualche caso di
origine nobile. Questa industria era collocata nelle zone agricole,
appresso alla fonte: le coltivazioni dei gelsi. Essa occupava quasi
esclusivamente manodopera femminile ed infantile. Gli uomini adulti
continuavano ad essere contadini a tempo pieno. Non c’ era dunque
la minima traccia di concentrazioni operaie.
L´agricoltura
avanzata e a conduzione capitalistica, dotata anche delle tecniche
migliori, era diffusa quasi solo nella pianura padana. Era allocata
nelle grandi affittanze, gestite per lo più a mezzadria. La
produzione che fruttava di più era la coltivazione del riso. Grazie
ad essa si ebbe una forte spinta alle irrigazioni e alle bonifiche.
La situazione nel resto d’ Italia, soprattutto nel sud, era ben
peggiore. Va però detto che, anche per l’ angustia del mercato,
per la pochezza dei prodotti che vi trovavano collocazione, la
circolazione monetaria era nell’ insieme ancora piuttosto ridotta.
Insomma, nelle campagne e nei piccoli centri la situazione era
questa: pochi consumatori sul mercato ed economia di mercato
asfittica.
Si
può dunque affermare che, essendo quasi inesistente la borghesia
industriale, rara quella agraria, e non molto numeroso il ceto
mercantile:
c )
i ranghi più numerosi della borghesia erano costituiti dai
professionisti delle arti liberali:
avvocati, medici, insegnanti, farmacisti, funzionari pubblici di un
certo rango, notai, giudici ecc. Ovviamente risiedevano quasi
soprattutto nelle città.
La
borghesia produttiva trovò un humus favorevole per stabilizzarsi e
crescere nell’ opera dell’ assolutismo illuminato. Va ribadito
che gli iniziatori delle riforme furono esclusivamente i principi
regnanti stranieri ( Asburgo a Milano e Firenze; Borboni nel Regno
delle Due Sicilie ) che volevano rendere più efficiente lo stato e
disporre di maggiori risorse.
Questi
si fecero promotori ed ebbero cura dell’ ‘economia nazionale’
soprattutto a partire da quel che esisteva. Si concentrarono cioè
sull’ agricoltura, sulla sua modernizzazione. Quel che di nuovo e
dinamico trovavano in agricoltura era opera di grandi fittavoli, di
intraprendenti amministratori di grandi patrimoni, di vecchi e nuovi
proprietari innovatori e di veri agrari capitalisti.
I
governi intrapresero una nuova rilevazione e classificazione
catastale, lo scioglimento del regime fedecommissario e la
liberalizzazione del commercio dei generi agricoli, la riduzione dei
dazi e dei pedaggi. Il senso del riformismo asburgico (
Lombardo-Veneto e Toscana ) fu di eliminare antichi lacci feudali e
indebolire il particolarismo nobiliare. La cosa fu meno sentita e
praticata nel Regno delle due Sicilie, dove fu invece soprattutto
attaccato il ruolo della Chiesa e delle proprietà ecclesiastiche.
* * *
L’
Illuminismo italiano è stato in gran parte un fenomeno
aristocratico-nobiliare. Il perno era un’ aristocrazia ben
informata degli sviluppi culturali in Europa, che guardava con favore
alle riforme dell’ assolutismo illuminato, che lo auspicava nelle
realtà statuali italiane, anche se non metteva ancora la questione
nazionale all’ ordine del giorno. L’ aristocrazia progressista
trovò poi come interlocutori nell’ opera di rinnovamento i ceti
borghesi di cui parlavamo sopra. Sia la borghesia del denaro che
quella del sapere speravano nelle liberalizzazioni economiche e nella
modernizzazione delle infrastrutture.
I
“progressisti“ (compresi gli aristocratici) furono presi alla
sprovvista dai fatti di Francia, dalla Rivoluzione prima, e poi dalla
fase napoleonica. Ci fu entusiasmo, una volgia di fare. Si ebbe un
effetto imitativo che si concretizzò soprattutto in un’ improvvisa
e improvvisata radicalizzazione in senso giacobino ( seppure senza il
fenomeno del sanculotti ). I “progressisti“ vennero subito
chiamati i “giacobini”, con un uso del termine assai impreciso.
Nelle loro fila il ceto più rappresentato era quello
cittadino-borghese delle professioni e dei commerci. I “giacobini”
si dividevano poi in moderati (liberisti e liberali) e in radicali
(democratici, egualitari, propugnatori della democrazia diretta).
Il
programma politico ed economico dei rivoluzionari fu questo: libertà
di stampa, espressione e riunione, liberalizzazione del commercio,
eliminazione dei privilegi feudali, libera proprietà agricola,
esproprio della proprietà ecclesiastica. Questo spaventò non solo
la nobiltà terriera, ma anche i contadini, che temettero che le
terre demaniali venissero soppresse e privatizzate. Ma a soffiare sul
fuoco si aggiunse presto la propaganda antirivoluzionaria sanfedista.
Le
liberalizzazioni furono subito identificate con la presunta volontà
“giacobina“ di eliminare gli usi comuni e gli usi civici. Per di
più il clero li tacciava di ateismo. Furono dunque i contadini
subito pronti a opporsi al nuovo corso. I rivoluzionari furono
grandemente sorpresi, visto che contavano sull’appoggio delle masse
contadine, come era per lo più accaduto in Francia.
Il
ruolo della Chiesa Cattolica fu determinante nella reazione e
restaurazione. Fu la Chiesa a garantire la presa sul popolo e a
sostenere e assorbire meglio la forza d’ urto
rivoluzionario-giacobina e ad assicurare il consenso all’ Ancien
Règime. Così essa, da protetta ne divenne la protettrice. Era l’
unica realtà che conosceva a fondo la realtà e la psicologia delle
masse contadine, che ovviamente avevano coordinate mentali e morali
plasmate dall’ etica cattolica stessa. Fu allora che si formò l’
alleanza di trono e altare.
(
Bibliografia di riferimento: G.
GALASSO,
Potere e
istituzioni in Italia, Dalla caduta dell’ Impero Romano a oggi,
Einaudi 1974, capitolo VIII, pp.141-159 )
* * *
La
nuova borghesia
Tranne
che a Milano la B. italiana è poca cosa e non si presenta come una
classe conscia del proprio ruolo né dotata di un programma
riformatore. Mancano sia una vera integrazione tra borghesia del
denaro e borghesia del sapere, che obiettivi comuni e punti di
riferimento istituzionali su cui far convergere istanze riformatrici.
La
particolarità di Milano si spiega così: L’ aristocrazia
illuministica aveva lasciato il segno ed era diventata un punto di
riferimento anche per la borghesia professionale, burocratica e
commerciale. Gli aristocratici illuminati avevano inoltre trovato
degli interessati interlocutori nella monarchia asburgica. Avevano
avanzato progetti di riforma. Di converso, i rappresentanti imperiali
cercavano la consulenza e l’ appoggio dei riformatori. Restava però
un ostacolo notevole: i governanti erano stranieri. Mancava la spinta
che viene dall’ agire in proprio, si guardava con diffidenza alla
tassazione, si sospettava un carico fiscale superiore alle altre
regioni dell’ Impero Asburgico. La Lombardia era la regione più
ricca ed era di grande rilevanza per il bilancio statale nel suo
insieme. La diffidenza dei milanesi aumentò poi sotto il figlio e
successore di Maria Teresa, Giuseppe II, un imperatore che agiva in
modo più rozzo, che faceva sentire ai lombardi il fiato sul collo.
Non stupisce dunque che buona parte dell’ aristocrazia e tutta la
borghesia guardarono subito con grande interesse alla Rivoluzione
Francese. Proprio questi ceti fornirono l’ ossatura, la classe
dirigente alla Repubblica Cisalpina.
Nel
resto d’ Italia non c’ erano queste condizioni. Sia nel resto del
Nord che al Centro la borghesia non si sentiva affatto classe
dirigente o aspirante tale. Anche i legami tra borghesia agraria e
cittadina erano troppo deboli. Al Sud poi non c’ era altro che
borghesia del sapere, allocata nelle città. Ma il suo sistema di
coordinate non era affatto autonomo, essendo subalterno a quello
della nobiltà. I borghesi cercavano di imitarne lo stile di vita ed
erano succubi dei valori aristocratici. I ceti borghesi di Napoli e
di Roma si trovarono poi, quasi d’ improvviso, a seguire la parte
illuminata della nobiltà che salutò con entusiasmo la Rivoluzione
Francese e diede vita alle sfortunate esperienze repubblicane di fine
secolo.
Ciononostante
si era ormai aperta una nuova fase storica, per la prima volta
favorevole allo sviluppo della borghesia in Italia. Stavano infatti
per irrompere le armate napoleoniche. Laddove le forze rivoluzionari
italiane, nonostante il notevole slancio, non riuscirono per esiguità
di forze ed impreparazione, riuscirono le truppe francesi. In un modo
o nell’ altro il Paese si trovò portato d’ improvviso all’
altezza dello sviluppo storico europeo. Questa fase rappresenta per
l’ Italia una cesura epocale. In essa si pongono i germi del
risveglio nazionale. Non solo. La borghesia cittadina, la borghesia
del sapere, sarà la forza trainante dei moti e delle guerre d’
indipendenza, quella che fornirà la parte numericamente più
consistente dei quadri del movimento risorgimentale.
Occupiamoci
ora però di un’ altra questione, che diverrà più rilevante una
volta raggiunta l’ unità nazionale. Che sviluppi ebbe la borghesia
del denaro nel periodo napoleonico ? Si ingrossarono i ranghi della
borghesia del denaro? Se sì, come ? Le risposte non sono difficili
da trovare. Gli storici sono concordi e parlano della nascita e della
rapida ascesa di una neo-borghesia, una borghesia improvvisata e d’
assalto. Per farcene un’ idea diamo la parola a Nello Quilici, che
in uno studio del 1942, ancora oggi apprezzato, analizzò acutamente
il fenomeno.
Da La
borghesia italiana, origini, sviluppo e insufficienza,
di Nello
QUILICI,
Roma 1942
(
… ) veri profittatori della guerra e della rivoluzione, erano
proprio i più audaci borghesi. Nell' Alta Italia si formavano nuove
ricchezze attraverso le forniture dell'esercito, le spese generali
delle campagne napoleoniche, le prestazioni lecite o illecite verso
gli invasori: nell'Italia meridionale i borghesi correvano alle
vendite di terreni soggetti da secoli agli ecclesiastici e alle
manomorte e ora suddivisi con molto semplicismo tra coloro che li
volevano comperare all'asta o a trattativa privata. Spesso si fanno
avanti le genti stesse dei campi, i contadini sfruttati fino a pochi
anni prima dai feudatari, e in mancanza di capitali ottengono le
terre per mezzo di mutui ipotecari che il nuovo governo garantisce a
un tasso relativamente mite. Ma più spesso sono i borghesi
delle città e soprattutto di Napoli, che realizzano il sogno di una
piccola proprietà terriera di campagna ottenuta a condizioni
vantaggiose.
(
op. cit. pag. 120 )
I
mezzi, di cui si serve la pattuglia conquistatrice per infoltire le
proprie schiere e impinguare sempre più i propri patrimoni durante
l'epoca imperiale in Italia, si possono definire con sufficiente
precisione: ( … ) l' appalto dei lavori pubblici, che sotto
l'impero presero uno straordinario sviluppo e permisero a umili
artigiani, capomastri, sterratori, manovali di far quattrini con
vertiginosa rapidità non appena con un po' d'audacia usarono
assumere di seconda, terza e quarta mano, la costruzione di un tronco
stradale, di un ponte, chi un campo fortificato, di un palazzo; le
forniture militari, a cui tutti si buttarono con ingordigia,
mangiandosi vivi gli uni con gli altri, per poi divorare insieme i
denari delle cassette imperiali; l' acquisto a vil prezzo delle
proprietà delle Chiese, dei Conventi, nelle Opere Pie. Ma allo scopo
servì più ancora la gestione dei livelli e delle decime, che
Napoleone aveva incamerato depauperandone gli enti ecclesiastici ( …
) Al governo dell'imperatore premeva trarre dalle
decine incamerate un profitto certo, quantunque inferiore al reale:
perciò le mercanteggiò, le diede in gestione o le rivendette a uno
stormo di speculatori privati, che garantirono un minimo all'erario
imperiale e intascarono il resto.
(
op. cit. pp. 136-137 )
La
nuova borghesia della campagna incaricata di dare l'ultimo crollo al
feudalesimo già decrepito si appoggiò alla borghesia cittadina,
formata in gran parte non già di commercianti ed industriali, ma di
piccoli professionisti delle arti liberali: avvocati, medici,
insegnanti. Gli uni e gli altri diventarono i sostenitori più
efficaci del regime francese, e furono più tardi il nucleo centrale
del liberalismo patriottico meridionale. Questa borghesia era di data
troppo recente e lottava con ostacoli troppo grandi per essere capace
di assumere la direzione effettiva del paese. Rimase quindi una
minoranza, contro la quale si sferrò l'offensiva del popolino
ignorante e superstizioso che odiava mortalmente i francesi per
l'orrore naturale delle folle contro le novità. Più tardi, quando i
Borboni ritornarono sul trono di Napoli, codesti borghesi ebbero
contro anche la monarchia, alleata nuovamente ai baroni e alla Chiesa
per odio contro la rivoluzione. D'altra parte molti fra i borghesi
stessi degeneravano. Il Murat aveva prescritto nel 1808 che le
utilizzazioni concesse e ripartite non si potessero vendere prima di
10 anni. Ma le alienazioni avvennero ugualmente e ne approfittarono i
più ingordi. Non appena con l'industria pastorale e col risparmio i
nuovi proprietari diventavano maggiorenti, accaparravano le terre dei
vicini, ristabilivano il feudo e aspiravano a loro volta a titoli di
nobiltà, che durante la Restaurazione furono concessi in gran copia.
Codesti nuovi ricchi si alleavano così spesso ai ceti antiborghesi.
Sono i famosi “galantuomini“ che ingrosseranno le file del
sanfedismo borbonico nell'Ottocento. Resta però il fatto che
l'elemento borghese
del Mezzogiorno poté
formarsi soltanto attraverso la riforma demaniale che la politica del
Murat protesse e incoraggiò.
(
op. cit. pp. 114–115 )
Beppe
Vandai Heidelberg, 19 / 03 / 2013
BILIOGRAFIA
per le SCHEDE 2 e 3 del 19 / 03 / 2013
ASCHERI Mario,
Medioevo del potere. Le istituzioni
laiche ed ecclesiastiche, Il Mulino
2005
[citato nella nuova
edizione del 2009]
CIPOLLA Carlo
Manlio, Storia economica dell’ Europa
pre-industriale, Il Mulino, Bologna
1974; [citato nella nuova edizione del 2002]
CIPOLLA Carlo
Manlio, Istruzione e sviluppo.
Il declino dell’ analfabetismo nel mondo occidentale, Utet, Torino,
1971; [nuova edizione del 2002, Il Mulino, Bologna]
GALASSO Giuseppe,
Potere e istituzioni in Italia. Dalla
caduta dell’ Impero romano a oggi,
Einaudi, Torino 1974
JONES Philip,
Economia e società nell’ Italai
medievale: la leggenda della borghesia,
in Storia d’ Italia, Annali I, Dal
feudalesimo al capitalismo, Einaudi,
Torino, 1978
MALANIMA Paolo,
Italian Urban Population 1300-1861
http://www.paolomalanima.it/default_file/Italian%20Economy/Urban_Population.pdf
QUILICI Nello, La
borghesia italiana. Origini, sviluppo e insufficienza,
Ispi, Roma 1942
ROMANO Ruggiero, La
storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in
Storia d’ Italia, Volume II, Tomo II,
Einaudi, Torino 1974
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