sabato 1 marzo 2014

Debito pubblico e altro (scheda per Volta La Carta!!)

Sulla natura del debito pubblico consiglio di leggere in via preliminare l’ articolo di Paul KRUGMAN sul NYT del 1.1.2012. 
LINK della traduzione in italiano:


DIFFERENZA SOSTANZIALE TRA DEBITO
PUBBLICO E DEBITO PRIVATO


A ) Tra due privati il debitore è tenuto a saldare il debito contratto, alla sua scadenza, interamente. In più dovrà pagare gli interessi stabiliti. Il debitore – a parte possibili manovre sostanzialmente contabili tra due entità economiche detenute dallo stesso soggetto – è sempre diverso dal creditore. Abbiamo a che fare con due entità di eguale natura, esterne l’ una all’ altra, che entrano in un rapporto di reciprocità.

B ) 1 ) Nel caso del debito pubblico, un’ entità pubblica contrae debiti con tante entità private (che di solito, per una parte più o meno grande , sono materialmente delle sotto-entità ovvero istanze atomistiche dell’ entità pubblica).
2 ) Il debito pubblico (DP) non viene saldato in toto ad un’ unica scadenza. Le scadenze sono sempre parziali ed i creditori sono più unità differenti. Ad esempio lo Stato prende in prestito la somma X da (a), eroga per la durata del prestito gli interessi pattuiti nei tempi previsti, alla fine restituisce X ad (a), spesso o normalmente emettendo nuovo debito, che può essere <X, =X o >X.
Nulla vieta che sia di nuovo (a) a erogare il nuovo credito. Il tutto funziona in rapporto a differenti entità, in tempi differenti.

Quando ci si occupa del DP di un Paese la domanda fondamentale non è se lo Stato sarà in grado di restituire ad un’ unica data prefissata tutto il debito contratto. Anche l’idea che, se una generazione si sarà troppo indebitata, sarà quella successiva a dover saldare il conto, è in buona parte falsa. Questo può sì accadere, ma non accade necessariamente.

( I )

Un primo gruppo di domande fondamentali da porre quanto al DP è questo:
Quel DP è sostenibile per lo stato che lo ha emesso? Con “sostenibile” non si intende – scusate se sono ridondante – la sua estinzione ad una certa data, come per i crediti privati.
Il quesito va naturalmente posto per il breve, per il medio e per il lungo periodo. E qui le riposte possono essere differenti.
Ulteriore specificazione: l’ economia di quel paese è strutturalmente in grado di sostenerlo?
Ancora: l’ economia di quel paese è congiunturalmente in grado di sostenerlo? Qui entrano in gioco il contesto economico generale, che può essere recessivo o espansivo, inflattivo, non inflattivo, deflattivo ecc.
La sostenibilità viene misurata a ) sulla capacità di quell’ economia di continuare a servire il debito, rinnovandolo senza rischi per i creditori, o b ) sulla capacità di abbassarlo mediante un aumento di entrate allo stato (con la crescita, che, a parità di tassazione, o addirittura a tassazione inferiore, può fornire un maggior gettito fiscale, oppure con un aumento della tassazione ecc.) oppure mediante tagli della spesa pubblica.

( II )

Il secondo gruppo di domande fondamentali è questo: che effetti provoca quel debito sull’ economia di quel paese? La appesantisce, la azzoppa, la stimola? Provoca distorsioni, allocazioni sbagliate o giuste? Per chi? Nel lungo o nel breve periodo?


SULLA SOSTENIBILITÀ DEL
DEBITO PUBBLICO


Di solito si considera la sostenibilità del DP nel rapporto DP / PIL. Questo non è di certo un indicatore da trascurare, ma può non essere quello decisivo. In realtà andrebbe messo in rapporto il DP con la ricchezza accumulata di un paese (RAP // scusate la sigla, di mio conio, ma non conosco quella usata dagli economisti), che si compone di patrimonio degli enti pubblici, riserve auree e delle risorse mobili e immobili detenute privatamente dalla popolazione. [ DP / RAP ].
Un esempio dell’ inaffidabilità di DP / PIL è questo: all’ inizio della crisi europea la Spagna aveva un DP / PIL decisamente migliore di quello italiano. Se si fosse preso in considerazione il DP / RAP la situazione sarebbe stata invece l’ inversa e sarebbero balzate agli occhi di tutti le storture della crescita spagnola, così come lo stato di pericolosità dell’ economia di quel paese. Per inverso, l’ anomalo allargamento dello spread italiano rispetto a paesi come la Germania o la Francia non si sarebbe verificato. Naturalmente gli italiani ci hanno messo del loro, a causa della grave crisi politica e non sono affatto stati aiutati né dalle agenzie di rating né dai loro ‘partner’ europei. Sta di fatto che il problema della sostenibilità del DP italiano è stato eccessivamente drammatizzato, con una pericolosissima ricaduta politica ed un suo aggravamento pericolosissimo.

            Torniamo però al rapporto DP / PIL. Se il DP ha in sé una dinamica propria, una tendenza all’ aumento e questa dinamica toglie risorse all’ economia, cioè rallenta la possibile crescita del PIL o addirittura ne provoca la stasi o la diminuzione, è evidente che quel rapporto DP / PIL a lungo andare non è sostenibile.
Ancora, se delle iniziative tese a ridurre DP ( mediante pesanti tasse e bruschi tagli di spesa ) portano il paese in recessione per un lungo periodo, allora si avrà una riduzione del PIL, che magari alla fine lascerà inalterato il rapporto DP / PIL o addirittura lo peggiorerà. Così la strategia tesa a migliorare quel rapporto comporterebbe invece un peggioramento. Ergo: passo indietro sulla via della sostenibilità.
Storicamente, soprattutto dopo la Grande Depressione e la fine della 2° Guerra Mondiale, la via maestra per migliorare quel rapporto è stata quella di stimolare la crescita (con misure di tipo keynesiano: aumento della spesa pubblica per fare d avolano allo sviluppo del PIL, oppure sgravi fiscali, oppure entrambe le misure).

            Per tantissimo tempo l’ alto rapporto tra DP e PIL italiano è stato ritenuto sostenibile. Il nostro veniva anzi considerato il caso paradigmatico di un alto rapporto che non pregiudicava il benessere di una nazione. Ma perché era sostenibile e sembrava non essere dannoso per l’ economia nazionale?
            Fino al 1992 il DP italiano si era fissato per lungo tempo quasi al 100%. Questa al sua particolarità: il DP generava uno scambio di questo tipo: lo stato si indebitava per garantire ai suoi cittadini servizi sociali a basso costo, gratuiti o dare generosi aiuti: vedi sanità, trasporti, istruzione, assistenza e previdenza, clientele ecc.
Così restavano in tasca ai cittadini più risorse per consumi di altri beni (durevoli o no), ad esempio per acquistarsi l’ appartamento in cui si abitava. Quel che avanzava veniva risparmiato e investito per lo più in titoli di stato, permettendo di rifinanziare il debito e garantendo un ulteriore gettito ai cittadini. Lo scambio funzionava a ciclo chiuso ed il debito non danneggiava troppo la crescita. Che poi producesse distorsioni macroeconomiche, che quello schema indebolisse il Paese in prospettiva di scenari ad una alto tasso di concorrenzialità, è un altro paio di maniche. Sia come sia, per lunghi periodi si navigò in acque tranquille.
            Le cose sono radicalmente cambiate da quando si è avviato il processo che avrebbe portato all’ euro. Il mercato estero dei capitali si aprì anche per gli italiani, che diversificarono il loro portafoglio-titoli ( con più azioni, fondi, titoli esteri ecc. ). Ma anche capitali stranieri affluirono. Dunque il debito da allora si è internazionalizzato. Tra le altre cose, lo stimolo oggettivo che il DP dava all’ economia italiana si  infiacchì notevolmente. I rendimenti in termini di interessi da allora non sono più automaticamente e interamente rifluiti nel sistema economico italiano. Non solo. Per soddisfare certi criteri di disciplina sull’ indebitamento – per preparare il vare dell’ euro – si è ridotta la spesa statale e si sono aumentate le tasse.  È anche sempre stato più difficile mantenere un welfare decoroso. Ma, cosa ancor più rilevante, l’ interruzione del   ‘circolo  virtuoso’ che sembrava governare l’ economia del Paese ha reso meno sostenibile il DP italiano.
Infatti, nel tentativo di metterci delle pezze e di centrare i criteri richiesti dal progetto Euro si è aumentato il gravame fiscale, a detrimento soprattutto dei settori manifatturiero e dei servizi. Già l’ apertura dei mercati mostrava dei ritardi del nostro sistema produttivo, in più si caricavano i produttori di ulteriore zavorra. Di più, non avendo un sistema fiscale equo, si aumentavano pericolosi squilibri. Se a questo aggiungiamo l’ ideologia berlusconiana e leghista che dava il via libera all’ evasione fiscale e l’ incapacità del sistema di darsi una politica industriale, vediamo che quel rapporto DP / PIL non solo era diventato meno sostenibile, ma diventava sempre meno sostenibile sul lungo periodo.
            Ma non è finita. Da quando non c’ è più la lira, da quando si è ceduta la sovranità monetaria, è venuto meno il sistema di difesa dei cambi flessibili. Dunque: quasi più nessuna possibilità di manovra.
            Ecco che, alla prima grave crisi della zona euro ci si è trovati in trappola, in balia dei mercati. Ma la lista dei guai non è finita. Non avevamo messo in conto i dogmi e gli interessi nazionali dei paesi e delle economie leader nella zona euro. 

LA SITAUZIONE ATTUALE:
IN TRAPPOLA

A partire dalla crisi greca, nella zona euro abbiamo visto cose turche:
A ) Una gestione pro-francese e pro-tedesca della crisi greca, con costi particolarmente pesanti per l’ Italia. Infatti, invece di ristrutturare il debito greco e mettere allo scoperto gli ingenti crediti inesigibili delle banche francesi e tedesche, si è scelta la via dei fondi salva-stati a cui tutti i paesi ‘sani’ dovevano contribuire secondo la loro percentuale di PIL europeo. Solo che, mentre per finanziare il proprio contributo all’ 1,5% o 2%, come poteva fare la Germania, l’ Italia doveva farlo al 4,5%, 5% o oltre.
B ) L’ opposizione tedesca a tutte le misure non convenzionali tese a rendere più sostenibile il DP dei paesi in difficoltà ( LTRO, OMT, continue richieste della Bundesbank di aumenti del tasso di sconto, opposizione alla sua riduzione ),
C ) Chiusura totale a qualsiasi tentativo di emettere gli eurobonds; addirittura una chiusura assoluta, di principio, nemmeno condizionata a certe misure,
D ) L’ introduzione del Fiscal Compact, addirittura da mettere nelle Costituzioni degli stati dell’ Uem. Come se le norme stabilite con il trattato di Maastricht non fossero sufficienti, si è imposto lo 0,5% come massimo di deficit strutturale. Con questi ceppi si rende impossibile qualsiasi politica economica anche pallidamente keynesiana,
E ) Il tentativo da parte tedesca di impedire, poi di rallentare e depotenziare l’ UNIONE BANCARIA.

Si è così spianata scientemente la strada alla recessione nel Sud Europa. Il passo successivo, già raggiunto da Grecia e Spagna, è la depressione. L’ ultimo passo: la deflazione. Se anche questa si verificherà in tutti i paesi del sud (Italia compresa) questi dovranno ristrutturare il DP e l’ euro sarà finito.
Se, per un motivo incomprensibile, l’ euro invece non andrà in pezzi, le economie di IRL, E, P e GR, ed in parte dell’ Italia, andranno ad ingrossare la lista dei paesi a bassi salari e con basso o bassissimo welfare.
Se non avverrà un radicale e rapido cambiamento di rotta accadrà questo: il fallimento per un lungo periodo del processo di integrazione europea ed una serie di crisi democratiche. La posta in gioco è altissima, il disastro di dimensioni ragguardevoli, ma Pandora non sembra avvedersene.  

BREVE    BILANCIO    E
PROSPETTIVE PER L’ ITALIA

L’ inadeguatezza di fronte alla nuova situazione internazionale (UEM e globalizzazione) del nostro sistema macroeconomico (troppo sbilanciato a favore dei ‘Luigini’ e a sfavore dei ‘Contadini’ – per usare la metafora di Carlo Levi nel romanzo “L’orologio”, vedi voltalacartaheidelberg.blogspot.de/2012/04/luigini-contro-contadini-il-lato-oscuro.html) è diventato palese da almeno 15 anni. A questo si è aggiunto il marasma politico, che ora non vogliamo analizzare.
Nel breve periodo, dall’ esplosione della crisi economica globale ed europea, l’ impasse politica e la mancanza di un minimo consenso su riforme e aggiustamenti hanno prodotto effetti nefasti di due tipi:
a ) una tassazione troppo alta che ha azzoppato ancor di più l’ economia,
b ) l’ incapacità di imporre un minimo di interesse nazionale nelle trattative sulle misure congiunturali da prendere nell’ UEM.


L’ Italia può sfuggire al destino dei cosiddetti PIGS (salvando la sua manifattura) se e solo se:
1 ) razionalizza i costi di servizi e li rende efficienti; in più toglie i ceppi alla produzione,
2 ) risolve almeno in parte i problemi della giustizia, della normativa, della burocrazia,
3 ) riequilibra il peso fiscale in modo oculato ed equo,
4 ) stimola in modo razionale lo sviluppo economico con lavori strutturali sensati, finanziati con nuovo debito pubblico o con forti entrate fiscali drenate ai ‘Luigini’,
5 ) ottiene gli eurobonds.


Dal punto di vista temporale, penso che lo schema più favorevole, se non addirittura necessario, sia questo:
a ) uscire dal gorgo recessivo migliorando i conti pubblici con tagli di spesa pubblica e trovando risorse per ridurre il cuneo fiscale; dare la sensazione che il settore dei servizi verrà razionalizzato rapidamente; offrire un piano di lavori infrastrutturali,
b ) una volta migliorato lo scenario e data la netta sensazione che – anche senza aiuti dall’ Europa – il rapporto DP / PIL migliorerà, pestare i pungi sul tavolo nell’ UEM (assieme ad altri paesi) per ottenere gli eurobonds e per far sì che venga accettato un livello di inflazione tra il 3% ed il 4%. Se non si ottengono questi obiettivi, tornare alla lira e ristrutturare il debito pubblico, con buona pace dell’ Europa.


Heidelberg, 15 / 03 / 2014

Beppe Vandai


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