Sulla natura del debito pubblico consiglio
di leggere in via preliminare l’ articolo di Paul KRUGMAN sul NYT del
1.1.2012.
LINK della traduzione in italiano:
DIFFERENZA SOSTANZIALE TRA DEBITO
PUBBLICO E DEBITO PRIVATO
A ) Tra due privati il debitore è
tenuto a saldare il debito contratto, alla sua scadenza, interamente. In più
dovrà pagare gli interessi stabiliti. Il debitore – a parte possibili manovre
sostanzialmente contabili tra due entità economiche detenute dallo stesso soggetto
– è sempre diverso dal creditore. Abbiamo a che fare con due entità di
eguale natura, esterne l’ una all’ altra, che entrano in un rapporto di
reciprocità.
B ) 1 ) Nel caso del debito pubblico, un’ entità
pubblica contrae debiti con tante entità private (che di solito, per una parte
più o meno grande , sono materialmente delle sotto-entità ovvero
istanze atomistiche dell’ entità pubblica).
2 ) Il debito pubblico (DP) non viene
saldato in toto ad un’ unica scadenza. Le scadenze sono sempre parziali ed
i creditori sono più unità differenti. Ad esempio lo Stato prende in prestito
la somma X da (a), eroga per la durata del prestito gli interessi pattuiti nei
tempi previsti, alla fine restituisce X ad (a), spesso o normalmente emettendo
nuovo debito, che può essere <X, =X o >X.
Nulla vieta che sia di nuovo (a) a erogare
il nuovo credito. Il tutto funziona in rapporto a differenti entità, in
tempi differenti.
Quando ci si occupa del DP di un Paese la
domanda fondamentale non è se lo Stato sarà in grado di restituire ad un’ unica
data prefissata tutto il debito contratto. Anche l’idea che, se una generazione
si sarà troppo indebitata, sarà quella successiva a dover saldare il conto, è in
buona parte falsa. Questo può sì accadere, ma non accade necessariamente.
( I )
Un primo gruppo di domande
fondamentali da porre quanto al DP è questo:
Quel DP è
sostenibile per lo stato che lo ha emesso? Con “sostenibile” non si
intende – scusate se sono ridondante – la sua estinzione ad una certa data,
come per i crediti privati.
Il quesito va
naturalmente posto per il breve, per il medio e per il lungo periodo. E qui le
riposte possono essere differenti.
Ulteriore
specificazione: l’ economia di quel paese è strutturalmente in grado di
sostenerlo?
Ancora: l’
economia di quel paese è congiunturalmente in grado di sostenerlo? Qui
entrano in gioco il contesto economico generale, che può essere recessivo o espansivo,
inflattivo, non inflattivo, deflattivo ecc.
La sostenibilità
viene misurata a ) sulla capacità di quell’ economia di continuare a servire il
debito, rinnovandolo senza rischi per i creditori, o b ) sulla capacità di
abbassarlo mediante un aumento di entrate allo stato (con la crescita, che, a
parità di tassazione, o addirittura a tassazione inferiore, può fornire un
maggior gettito fiscale, oppure con un aumento della tassazione ecc.) oppure
mediante tagli della spesa pubblica.
( II )
Il secondo gruppo di domande
fondamentali è questo: che effetti provoca quel debito sull’ economia di
quel paese? La appesantisce, la azzoppa, la stimola? Provoca distorsioni,
allocazioni sbagliate o giuste? Per chi? Nel lungo o nel breve periodo?
SULLA SOSTENIBILITÀ DEL
DEBITO PUBBLICO
Di solito si considera
la sostenibilità del DP nel rapporto DP / PIL. Questo non è di certo un
indicatore da trascurare, ma può non essere quello decisivo. In realtà andrebbe
messo in rapporto il DP con la ricchezza accumulata di un paese (RAP // scusate
la sigla, di mio conio, ma non conosco quella usata dagli economisti), che si
compone di patrimonio degli enti pubblici, riserve auree e delle risorse mobili
e immobili detenute privatamente dalla popolazione. [ DP / RAP ].
Un esempio dell’
inaffidabilità di DP / PIL è questo: all’ inizio della crisi europea la Spagna
aveva un DP / PIL decisamente migliore di quello italiano. Se si fosse preso in
considerazione il DP / RAP la situazione sarebbe stata invece l’ inversa e
sarebbero balzate agli occhi di tutti le storture della crescita spagnola, così
come lo stato di pericolosità dell’ economia di quel paese. Per inverso, l’ anomalo
allargamento dello spread italiano rispetto a paesi come la Germania o la
Francia non si sarebbe verificato. Naturalmente gli italiani ci hanno messo del
loro, a causa della grave crisi politica e non sono affatto stati aiutati né
dalle agenzie di rating né dai loro ‘partner’ europei. Sta di fatto che il
problema della sostenibilità del DP italiano è stato eccessivamente
drammatizzato, con una pericolosissima ricaduta politica ed un suo aggravamento
pericolosissimo.
Torniamo
però al rapporto DP / PIL. Se il DP ha in sé una dinamica propria, una tendenza
all’ aumento e questa dinamica toglie risorse all’ economia, cioè rallenta la
possibile crescita del PIL o addirittura ne provoca la stasi o la diminuzione,
è evidente che quel rapporto DP / PIL a lungo andare non è sostenibile.
Ancora, se delle
iniziative tese a ridurre DP ( mediante pesanti tasse e bruschi tagli di spesa
) portano il paese in recessione per un lungo periodo, allora si avrà una
riduzione del PIL, che magari alla fine lascerà inalterato il rapporto DP / PIL
o addirittura lo peggiorerà. Così la strategia tesa a migliorare quel rapporto comporterebbe
invece un peggioramento. Ergo: passo indietro sulla via della sostenibilità.
Storicamente,
soprattutto dopo la Grande Depressione e la fine della 2° Guerra Mondiale, la
via maestra per migliorare quel rapporto è stata quella di stimolare la crescita
(con misure di tipo keynesiano: aumento della spesa pubblica per fare d avolano
allo sviluppo del PIL, oppure sgravi fiscali, oppure entrambe le misure).
Per
tantissimo tempo l’ alto rapporto tra DP e PIL italiano è stato ritenuto
sostenibile. Il nostro veniva anzi considerato il caso paradigmatico di un alto
rapporto che non pregiudicava il benessere di una nazione. Ma perché era
sostenibile e sembrava non essere dannoso per l’ economia nazionale?
Fino
al 1992 il DP italiano si era fissato per lungo tempo quasi al 100%. Questa al
sua particolarità: il DP generava uno scambio di questo tipo: lo stato si
indebitava per garantire ai suoi cittadini servizi sociali a basso costo,
gratuiti o dare generosi aiuti: vedi sanità, trasporti, istruzione, assistenza
e previdenza, clientele ecc.
Così restavano
in tasca ai cittadini più risorse per consumi di altri beni (durevoli o no), ad
esempio per acquistarsi l’ appartamento in cui si abitava. Quel che avanzava
veniva risparmiato e investito per lo più in titoli di stato, permettendo di
rifinanziare il debito e garantendo un ulteriore gettito ai cittadini. Lo
scambio funzionava a ciclo chiuso ed il debito non danneggiava troppo la
crescita. Che poi producesse distorsioni macroeconomiche, che quello schema
indebolisse il Paese in prospettiva di scenari ad una alto tasso di
concorrenzialità, è un altro paio di maniche. Sia come sia, per lunghi periodi si
navigò in acque tranquille.
Le
cose sono radicalmente cambiate da quando si è avviato il processo che avrebbe
portato all’ euro. Il mercato estero dei capitali si aprì anche per gli
italiani, che diversificarono il loro portafoglio-titoli ( con più azioni,
fondi, titoli esteri ecc. ). Ma anche capitali stranieri affluirono. Dunque il
debito da allora si è internazionalizzato. Tra le altre cose, lo stimolo
oggettivo che il DP dava all’ economia italiana si infiacchì notevolmente. I rendimenti in
termini di interessi da allora non sono più automaticamente e interamente
rifluiti nel sistema economico italiano. Non solo. Per soddisfare certi criteri
di disciplina sull’ indebitamento – per preparare il vare dell’ euro – si è
ridotta la spesa statale e si sono aumentate le tasse. È anche sempre stato più difficile mantenere
un welfare decoroso. Ma, cosa ancor più rilevante, l’ interruzione del ‘circolo
virtuoso’ che sembrava governare l’ economia del Paese ha reso meno
sostenibile il DP italiano.
Infatti, nel
tentativo di metterci delle pezze e di centrare i criteri richiesti dal
progetto Euro si è aumentato il gravame fiscale, a detrimento soprattutto dei
settori manifatturiero e dei servizi. Già l’ apertura dei mercati mostrava dei
ritardi del nostro sistema produttivo, in più si caricavano i produttori di ulteriore
zavorra. Di più, non avendo un sistema fiscale equo, si aumentavano pericolosi
squilibri. Se a questo aggiungiamo l’ ideologia berlusconiana e leghista che
dava il via libera all’ evasione fiscale e l’ incapacità del sistema di darsi
una politica industriale, vediamo che quel rapporto DP / PIL non solo era
diventato meno sostenibile, ma diventava sempre meno sostenibile sul lungo
periodo.
Ma
non è finita. Da quando non c’ è più la lira, da quando si è ceduta la
sovranità monetaria, è venuto meno il sistema di difesa dei cambi flessibili. Dunque:
quasi più nessuna possibilità di manovra.
Ecco
che, alla prima grave crisi della zona euro ci si è trovati in trappola, in
balia dei mercati. Ma la lista dei guai non è finita. Non avevamo messo in
conto i dogmi e gli interessi nazionali dei paesi e delle economie leader nella
zona euro.
LA SITAUZIONE ATTUALE:
IN TRAPPOLA
A partire dalla
crisi greca, nella zona euro abbiamo visto cose turche:
A ) Una gestione
pro-francese e pro-tedesca della crisi greca, con costi particolarmente pesanti
per l’ Italia. Infatti, invece di ristrutturare il debito greco e mettere allo
scoperto gli ingenti crediti inesigibili delle banche francesi e tedesche, si è
scelta la via dei fondi salva-stati a cui tutti i paesi ‘sani’ dovevano
contribuire secondo la loro percentuale di PIL europeo. Solo che, mentre per
finanziare il proprio contributo all’ 1,5% o 2%, come poteva fare la Germania,
l’ Italia doveva farlo al 4,5%, 5% o oltre.
B ) L’
opposizione tedesca a tutte le misure non convenzionali tese a rendere più
sostenibile il DP dei paesi in difficoltà ( LTRO, OMT, continue richieste della
Bundesbank di aumenti del tasso di sconto, opposizione alla sua riduzione ),
C ) Chiusura
totale a qualsiasi tentativo di emettere gli eurobonds; addirittura una
chiusura assoluta, di principio, nemmeno condizionata a certe misure,
D ) L’
introduzione del Fiscal Compact, addirittura da mettere nelle Costituzioni
degli stati dell’ Uem. Come se le norme stabilite con il trattato di Maastricht
non fossero sufficienti, si è imposto lo 0,5% come massimo di deficit
strutturale. Con questi ceppi si rende impossibile qualsiasi politica economica
anche pallidamente keynesiana,
E ) Il tentativo
da parte tedesca di impedire, poi di rallentare e depotenziare l’ UNIONE
BANCARIA.
Si è così
spianata scientemente la strada alla recessione nel Sud Europa. Il passo
successivo, già raggiunto da Grecia e Spagna, è la depressione. L’ ultimo passo:
la deflazione. Se anche questa si verificherà in tutti i paesi del sud (Italia
compresa) questi dovranno ristrutturare il DP e l’ euro sarà finito.
Se, per un
motivo incomprensibile, l’ euro invece non andrà in pezzi, le economie di IRL,
E, P e GR, ed in parte dell’ Italia, andranno ad ingrossare la lista dei paesi
a bassi salari e con basso o bassissimo welfare.
Se non avverrà
un radicale e rapido cambiamento di rotta accadrà questo: il fallimento per un
lungo periodo del processo di integrazione europea ed una serie di crisi
democratiche. La posta in gioco è altissima, il disastro di dimensioni
ragguardevoli, ma Pandora non sembra avvedersene.
BREVE
BILANCIO E
PROSPETTIVE PER L’ ITALIA
L’ inadeguatezza
di fronte alla nuova situazione internazionale (UEM e globalizzazione) del
nostro sistema macroeconomico (troppo sbilanciato a favore dei ‘Luigini’ e a
sfavore dei ‘Contadini’ – per usare la metafora di Carlo Levi nel romanzo
“L’orologio”, vedi voltalacartaheidelberg.blogspot.de/2012/04/luigini-contro-contadini-il-lato-oscuro.html) è diventato palese da almeno 15 anni. A
questo si è aggiunto il marasma politico, che ora non vogliamo analizzare.
Nel breve periodo,
dall’ esplosione della crisi economica globale ed europea, l’ impasse politica
e la mancanza di un minimo consenso su riforme e aggiustamenti hanno prodotto
effetti nefasti di due tipi:
a ) una tassazione
troppo alta che ha azzoppato ancor di più l’ economia,
b ) l’
incapacità di imporre un minimo di interesse nazionale nelle trattative sulle
misure congiunturali da prendere nell’ UEM.
L’ Italia può
sfuggire al destino dei cosiddetti PIGS (salvando la sua manifattura) se e solo
se:
1 ) razionalizza
i costi di servizi e li rende efficienti; in più toglie i ceppi alla
produzione,
2 ) risolve
almeno in parte i problemi della giustizia, della normativa, della burocrazia,
3 ) riequilibra
il peso fiscale in modo oculato ed equo,
4 ) stimola in
modo razionale lo sviluppo economico con lavori strutturali sensati, finanziati
con nuovo debito pubblico o con forti entrate fiscali drenate ai ‘Luigini’,
5 ) ottiene gli
eurobonds.
Dal punto di
vista temporale, penso che lo schema più favorevole, se non addirittura
necessario, sia questo:
a ) uscire dal
gorgo recessivo migliorando i conti pubblici con tagli di spesa pubblica e
trovando risorse per ridurre il cuneo fiscale; dare la sensazione che il
settore dei servizi verrà razionalizzato rapidamente; offrire un piano di lavori
infrastrutturali,
b ) una volta migliorato
lo scenario e data la netta sensazione che – anche senza aiuti dall’ Europa –
il rapporto DP / PIL migliorerà, pestare i pungi sul tavolo nell’ UEM (assieme
ad altri paesi) per ottenere gli eurobonds e per far sì che venga accettato un
livello di inflazione tra il 3% ed il 4%. Se non si ottengono questi obiettivi,
tornare alla lira e ristrutturare il debito pubblico, con buona pace dell’
Europa.
Heidelberg,
15 / 03 / 2014
Beppe
Vandai
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