domenica 9 novembre 2014

UCRAINA, UNA CRISI EUROPEA




              di Beppe Vandai 
         per VOLTA LA CARTA!! 







Do per scontata la conoscenza degli avvenimenti degli ultimi mesi:
come si sono sviluppate la protesta di piazza Maidan, con il corollario della
fuga di Janukowicz, com’ è nata la ribellione russofona nell’ Ucraina dell’ est,
come si è giunti agli aspri combattimenti tra separatisti e truppe ucraine, al
sostegno militare russo ai separatisti, al probabile abbattimento da parte di
questi dell’ aereo malese con quasi trecento civili a bordo. Vorrei invece
fornire una serie di informazioni e riflessioni che spero utili a capire il
contesto della grave crisi ucraina.





  
UN PO’ DI GEOGRAFIA



L’ Ucraina ha una superficie di 603.700 km2, una linea di confine di 
4.663 km, una popolazione di poco più di 45 milioni di abitanti. Circa i due 
terzi parlano l’ ucraino, quasi un terzo è invece russofono (in parte anche con 
radici russe abbastanza recenti).  
La zona più industrializzata e più ricca di miniere è nell’ Ucraina 
orientale, la zona più russofona. Vi è attiva soprattutto l’ industria pesante, 
fortemente integrata con l’ economia russa. Si tratta soprattutto di industria 
carbonifera, metallurgica, meccanica, chimica e degli armamenti.

L’ Ucraina è nell’ insieme abbastanza ricca di risorse naturali. Notevoli 
riserve e produzione di carbone (ma in via di esaurimento), ferro (il 10% dell’ 
estrazione mondiale) e manganese. Ha poi discrete riserve di titanio, magnesio, 
caolino, nickel e mercurio. Ha sempre avuto nell’ agricoltura un enorme 
potenziale.  
La capitale Kiev ha poco meno di 3 milioni di abitanti. Con l’ 
agglomerato urbano che la circonda ha poco più di 4 milioni. Donezk ha poco 
più di un milione di abitanti. La zona di cui è capitale raggiunge quasi i 4,5 
milioni. Charkow ha circa 1,5 milioni di abitanti. Lugansk circa mezzo 
milione.  




UN PO’ DI STORIA


KIEV viene fondata, quale fusione di alcuni villaggi o come guarnigione, da 
slavi, da vichinghi o da mercenari musulmani. La cosa non è ben chiara. Il 
periodo di fondazione: tra il VI ed il VIII° secolo d. C. 

IL RUS’ DI KIEV: nel IX° secolo Kiev diventa il centro e la capitale del primo 
regno-impero che raccoglie tutti gli slavi orientali. Nel 998: conversione al 
cristianesimo bizantino. Kiev viene perciò chiamata anche la madre di tutte le 
città russe, ma anche la Gerusalemme d’ Oriente. 

Alla fine di questa fase iniziale di ecumene, quel regno si dissolve, separandosi 
in tre tronconi: Russia, Bielorussia e Ucraina. 

Dal XIV° secolo l’ Ucraina appartiene, in fasi alterne, e per lo più ‘a brandelli’, 
a Lituania, Polonia, Russia, Austria o Turchia.   

Il primo stato nazionale ucraino vede la luce solo il 22 gennaio del 1918. Con il 
tracollo russo può infatti nascere questo stato unitario, sorto sotto l’ egida del 
Reich tedesco. Questo stato ha però vita brevissima. Con la sconfitta tedesca 
alla fine della I° Guerra mondiale, crolla. 

Dal 1919 la parte orientale dell’ Ucraina diventa una Repubblica Sovietica, 
imitando l’ esperienza russa. Nel 1922 la repubblica sovietica dell’ Ucraina 
orientale entra a far parte dell’ URSS. L’ Ucraina occidentale diventa in  parte 
polacca, in parte cecoslovacca.  

Nel periodo staliniano l’ Ucraina orientale è teatro di turbolenze e crimini: 
purghe staliniane, deportazioni, anche e soprattutto di russofoni. Diventa anche 
terra di nuovi insediamenti di russi.  

Durante la II° Guerra mondiale molti ucraini, soprattutto dell’ Ovest 
appoggiano l’ espansionismo tedesco e la politica di sterminio nazista (rivolta 
agli ebrei ed in parte ai russofoni). 

Dal 1945 tutta l’ Ucraina entra a far parte dell’ URSS. Fino al 1953 (morte di 
Stalin) ha luogo una russificazione forzata. Il russo è l’unica lingua ufficiale. 
Nella parte occidentale: purghe e caccia ai “fascisti”.  

Dal 1954 al 1964: il nuovo segretario generale del Partito comunista sovietico, 
Chruscev, dà agli ucraini  più autonomia. Ferma la russificazione. Dà più 
spazio alla cultura e alla lingua ucraina. Dona la Crimea alla Repubblica 
Socialista Ucraina. 

Dal 1964 al 1984:  Breznev, il nuovo segretario generale che ha spodestato 
Cruschev, pur essendo ucraino, blocca le aperture, senza però tornare alla 
repressione. 

Dal 1985 al 1989: Gorbachov avvia il processo della Prestroja e della Glasnot
I comunisti ucraini sono molto reticenti e conservatori. Nella popolazione 
crescono le speranze di autonomia e autodeterminazione.  

Dal 1989: risveglio nazionale a tutti gli effetti.  

24 agosto 1991: Dichiarazione di indipendenza nazionale, accettata dalla 
Russia nel contesto dello scioglimento dell’ URSS.  




UN PO’ DI ATTUALITÀ


Fase KRATSCHUK ( 1992 – 1993 ) 
Il primo presidente è KRATSCHUK, che avvia un corso filooccidentale. 

Fase KUTSCHMA ( 1994 – 2004 ) 
KUTSCHMA è il secondo presidente, che segue un corso più equilibrato (o da 
equilibrista, se si vuole). In economia accelera la decostruzione dell’ apparato 
economico socialista ed il passaggio all’economia di mercato. È però molto 
attento a non irritare la Russia, anche se cerca sempre di tenere le distanze: ad 
esempio ha sempre evitato che l’ Ucraina entrasse a far parte della Comunità di 
Stati Indipendenti creata da Mosca per tenere assieme gli stati ex-sovietici. Il 
periodo è di crescita economica ed aumento del benessere. 

Crisi del DICEMBRE 2004. I candidati alla presidenza sono Yanukovich e 
Juschtschenko. Il primo filo-russo, il secondo filo-occidentale. Kutschma 
appoggia Yanukovich. Juschtschenko gode invece del favore e di una forte 
attenzione occidentale. Putin commette un errore enorme: si schiera 
apertamente a favore di Yanukovich dando l’ impressione di voler 
condizionare pesantemente la decisione degli ucraini. Al ballottaggio sembra 
averla spuntata Yanukovich, ma quasi certamente con brogli elettorali. Forti 
manifestazioni di piazza a Kiev. Rivoluzione arancione. Juschtschenko gioca 
apertamente la carta di una futura entrata dell’ Ucraina nell’ UE: una mossa 
che gli garantirà la vittoria. Infatti, ripetuto il ballottaggio, vince con circa il 
52% dei voti.  

Fase JUTSCHENKO ( presidente dall’inizio del 2005 all’ inizio del 2010 ) 
Juschtschenko è subito attivo a Bruxelles e a Strasburgo dove vuole procedere 
a tappe forzate per l’ integrazione nell’ UE. L’ accoglienza è per lo più molto 
positiva, anche se non mancano differenze, anche sostanziali. Mentre la 
Francia vorrebbe solo un accordo di libero scambio, non molto impegnativo, la 
Germania è per avviare un vero processo di integrazione economica che porti 
all’ entrata nell’ UE. La Germania si impone. 
In patria il presidente ha però presto delle difficoltà. Nel 2006, alle elezioni 
parlamentari, è il partito di Yanukovich ad ottenere la maggioranza relativa dei 
voti. Dal ‘blocco arancione’ – costituito dai seguaci di Juschtschenko, della 
pasionaria Timoschenko e del partito socialdemocratico – si staccano i 
socialdemocratici. Nasce una coalizione che riunisce i seguaci del presidente, i 
socialdemocratici ed il partito di Yanukovich, che è il ‘socio di maggioranza’. 
La Timoschenko viene isolata. Yanukovich diventa il primo ministro.  
Nel dicembre del  2007, dopo la rottura della coalizione a tre, grazie all’ 
enorme popolarità, dovuta anche all’ appoggio dei media privati, la 
Timoschenko ribalta la situazione e Juschtschenko la nomina a capo del 
governo. 

Fase YANUKOVICH ( 2010 – febbraio 2014 ) 
Alle elezioni presidenziali arrivano al ballottaggio Timoschenko e Yanukovich. 
Quest’ ultimo la spunta. È presidente. Il suo corso è a dir poco complesso. 
Mentre continua a dialogare con al UE e lascia che avanzi il processo di 
associazione con l’ occidente, bada molto a non inimicarsi Putin. Dal 2011 si 
apre un processo a Julia Timoschenko per corruzione. Di certo c’ è lo zampino 
di Yanukovich, anche se la biografia della Timoschenko è piuttosto 
‘movimentata’. La UE ne prende le difese a spada tratta e congela il processo 
di associazione, facendo così involontariamente un favore a Putin e a 
Yanukovich. Alla fine però, seppur con ritardo, si giunge al dunque. A questo 
punto il doppio gioco del presidente non regge più. Dietro pressione russa, 
Yanukovich decide di non sottoscrivere il protocollo di associazione. Il “no” 
non è definitivo, ma suona molto male. A Kiev la piazza insorge. Yanukovich 
spera dapprima che la protesta si attenui spontaneamente. Poi gioca la carta 
della repressione. La cosa non funziona anche perché settori dei manifestanti si 
sono armati. Ci sono tentativi di mediazione, che però falliscono. Il 21 febbraio 
del 2014 Yanukovich lascia il campo e fugge nell’ Ucraina dell’ est. Il resto è 
cronaca dei nostri giorni.  



IL POMO DELLA DISCORDIA:
L’ ACCORDO DI ASSOCIAZIONE con l’ UE


Come già detto, il pomo della discordia del conflitto che si è scatenato dall’ 
autunno scorso è l’ Accordo di Associazione dell’ Ucraina all’ Unione 
Europea. Un accordo che è in incubazione dall’ inizio del 2005. In che 
consiste? 

Consta, in breve, di corposi adeguamenti da parte ucraina che ruotano attorno a 
due assi: uno strettamente economico e l’ altro di carattere politico-giuridico- 
strategico.  
A ) L’ accordo economico prevede il libero scambio di merci, ma consta anche 
di una grossa parte che potremmo dire normativa (ad esempio l’ assunzione e 
la messa in pratica da parte Ucraina delle normative europee riguardo alla 
concorrenza, ai diritti di proprietà, ai brevetti, delle norme igieniche e 
lavorative nella produzione, di standard ecologici, merceologici ecc.). 
B ) L’ altra parte dell’ accordo riguarda invece la cooperazione in merito alla 
politica estera, alla giustizia, ai principi e ai diritti democratici fondamentali.  


Come ben si vede, non si tratta come spesso sostenuto da più parti, di un 
accordo di carattere meramente commerciale, ma del primo passo perché l’ 
Ucraina possa poi candidarsi ad entrare nella UE. Subito, si avrebbe sì l’ 
abbattimento dei dazi doganali per quasi tutti i prodotti, ma in prospettiva, una 
volta realizzati certi standard, sarebbe logica l’ apertura del processo che 
porterebbe l’ Ucraina nella UE.  

Orbene, Janukovicz non lo volle sottoscrivere nel novembre del 2013. Poi 
montò la protesta che si fece rivolta, alla fine il presidente abbandonò Kiev. Ma 
dopo, che è accaduto sul fronte dell’ accordo? Il 21 marzo del 2014 la parte 
politico-giuridico-strategica è stata sottoscritta (a Bruxelles) dall’ Ucraina e 
dalla UE. Quella economica invece è stata parafata il 27 giugno scorso. Infine, 
il 16 settembre scorso, l’ intero accordo è stato approvato contemporaneamente 
dal Parlamento europeo e da quello ucraino. Con un particolare: il libero 
scambio non entrerà in vigore il 1° gennaio, bensì il 31 dicembre del 2015. 
Questo per gettare acquea sul fuoco e ammorbidire la posizione russa.  



IL CESSATE IL FUOCO ed IL FUTURO
ISTITUZIONALE dell’ UCRAINA


Il cessate il fuoco tra il governo di Kiev ed i ribelli dei due maggiori centri 
dell’ Ucraina orientale su cui è stata trovata l’ intesa il 19 settembre a Minsk 
prevede:  
* che le armi tacciano,    **che lungo la linea del fronte si crei una zona 
smilitarizzata da cui evacuare tutte le armi pesanti, *** che il rispetto della 
tregua e la smilitarizzazione della zona-cuscinetto sia controllato dall’OSCE 
(Organisation for Security and Cooperation in Europe), **** che tutte le truppe 
straniere (mercenarie o meno) vengano ritirate assieme alle loro attrezzature 
militari. 

Alla tregua di Minsk, in cui ha avuto come mediatore un ruolo essenziale l’ ex- 
presidente Kutschma, si è giunti dopo il grave peggioramento della situazione 
militare per le truppe governative, causato soprattutto dall’ infiltrazione di 
truppe russe. La tregua è stata la presa d’ atto che per l’ Ucraina non era più 
possibile non tenere conto degli interessi e del punto di vista strategico russo. 
La conferma di questa interpretazione viene dalle ultime proposte di assetto 
istituzionale avanzate dal nuovo presidente ucraino Poroschenko. Kiev si è 
infatti detta pronta a garantire, per tre anni, alla regione del Donbass una 
completa autonomia. Il che equivale al riconoscimento dei ribelli e la rinuncia 
ad ingerire nella regione. Un grosso rospo da ingoiare per il governo di Kiev, 
che sempre aveva respinto la proposta di Putin di trasformare l’ Ucraina in una 
repubblica federale. Anzi, a guardare fino in fondo: una vittoria di Putin su 
tutta la linea. Infatti siamo di fronte né più né meno che alla presa d’ atto che 
l´attuale assetto istituzionale ucraino va ridefinito. Se poi le zone russofone del 
Paese avranno anche diritto di veto in politica estera l’ Accordo di 
Associazione all’ UE si dovrebbe rivelare una vittoria di Pirro.  


Alcuni storici ed esperti dell’ Europa Orientale prevedono per l’ Ucraina una 
situazione analoga a quella della Bosnia, una federazione articolata in regioni 
culturalmente diverse e in differenti sfere di influenza.   



IL PUNTO DI VISTA RUSSO


La Russia attuale è il precipitato di un impero che si è formato a partire dalla 
metà del XVI° secolo. Con Ivan IV (detto il terribile) Mosca diventa il centro 
propulsore del progetto imperiale. Ovviamente un progetto di potenza, ma 
anche fortemente connotato da motivi religiosi. Non è un caso che, agli occhi 
degli zar, Mosca era la “Terza Roma”. Grandi impulsi espansionistici si ebbero 
soprattutto nel ‘700. Ma non è tutto. A metà dell’ ottocento si ebbe una grande 
espansione in Siberia, che portò l’ impero fino all’ Oceano Pacifico. 
Espansione ai danni di chi? Soprattutto della Cina, alle prese con la fase più 
virulenta della sua lunga e grande crisi. 

Le dimensioni imperiali permasero anche con l’ Unione Sovietica. Con cui 
avanzò anche la russificazione ed  il tentativo di omogeneizzazione dell’ 
enorme territorio: circa 22,5 milioni di km2. Popolazione al momento della 
dissoluzione dell’ URSS: quasi 300 milioni di cittadini. 

Con il dissolvimento dell’ URSS (nel 1991) alla Russia è rimasta ‘solo’ una 
superficie di circa 17 milioni di km2. La popolazione è scesa a poco più di 150 
milioni di cittadini. Con la nascita della Federazione russa (composta da 83 
regioni) c’ è stato un calo demografico piuttosto pronunciato. Ora i russi sono 
poco più di 143 milioni. Soprattutto nelle zone siberiane si è avuta una 
pronunciata tendenza allo spopolamento.  

Si sono inoltre verificate grosse tensioni con le regioni musulmane che nel 
1991 non vollero o non poterono staccarsi da Mosca. La Cecenia è stata la 
punta dell’ iceberg di quelle tensioni. Ma oltre al Caucaso, anche nell’ Asia 
centrale e nella Siberia orientale, forti sono i timori dei russofoni che quel che 
resta dell’ impero si sfilacci ulteriormente. Il momento di massimo pericolo 
coincise con la gestione di Jeltzin, quando le forze centrifughe sembravano 
poter prendere il sopravvento. 

Le cose sono radicalmente cambiate con Putin, il cui programma ha al primo 
posto la stabilizzazione dell’ intera Federazione russa, al secondo il rilancio 
dell’ orgoglio nazionale, al terzo lo sviluppo economico. Gli strumenti 
principali per realizzarli: un esercito coeso, il miglioramento degli standard di 
vita dei russi, all’ esterno il mantenimento dell’ influenza russa sui punti 
strategici, una buona coesione con le repubbliche centro-asiatiche sorte nel 
1991, l’ arresto del calo demografico in generale e dello spopolamento della 
Siberia orientale. Le leve principali per questo ambizioso programma di 
stabilizzazione:  
a ) la valorizzazione sul mercato mondiale delle enormi riserve naturali,  
b ) un potere centrale forte capace di legare a sé e di dirigere anche le più 
lontane regioni, 
c ) un efficace controllo sull’ opinione pubblica (soprattutto tramite i media di 
stato) 
d ) una gestione autocratica del potere che limiti fortemente la democrazia.  

Se si guarda bene e fino in fondo, l’ attuale situazione politico-strategica della 
federazione russa è ancora di grande vulnerabilità. Anche le puntate offensive 
di Putin sono sempre inscritte in un quadro di contenimento dei pericoli e di 
mantenimento dell’ unità del Paese. E comunque, gran parte dei russi così 
percepiscono la loro situazione. E credo che non sbaglino. Le dimensioni stesse 
del Paese ne fanno un impero a rischio di sfilacciamento o di sfaldamento. Se a 
ciò si aggiunge la debolezza strutturale dell’ economia russa ed il declino 
demografico, il quadro è completo. [ Nota a margine: mutatis mutandis anche 
nella classe dirigente cinese è sempre forte la preoccupazione che il proprio 
impero entri in crisi alla periferia (vedi: popolazioni musulmane nello Xinjian, 
il caso Tibet, quello Taiwan) e che qualcuno giochi a destabilizzarlo. Questo 
rende i dirigenti cinesi al tempo stesso cauti, vigili e usi alla mano forte ].  

A tutte queste preoccupazioni va aggiunto – per i russi – l’ enorme smacco per 
l’ estensione della Nato nell’ Europa orientale. Un allargamento avvenuto 
nonostante le promesse fatte, nella fase 1989-1991, da parte degli USA e delle 
nazioni della UE, che non ci sarebbe stata estensione della Nato e che anzi 
sarebbe iniziata una fase di collaborazione tra Nato e Russia.  

In questo contesto va letta la politica di Putin nei confronti dell’ Ucraina. Ai 
suoi occhi, e per gran parte dei russi, l’ Ucraina è la linea rossa che non può 
essere superata, costi quel che costi. Putin non si sente affatto l’ aggressore né 
un destabilizzatore della scena politica mondiale. Pensa, anzi sa, di avere 
ottenuto grandi successi nel mantenere l’ integrità del proprio Paese. Ha 
fermato l’ emorragia di fiducia del suo popolo. Gli ha ridato orgoglio e spirito 
nazionale. Ha tolto all’ estrema periferia la paura di essere abbandonata a se 
stessa. Ha combattuto e sconfitto il separatismo-terrorismo ceceno, a forte 
connotazione islamica. Ha usato le risorse naturali per migliorare lo standard di 
vita dei russi e finanziare l’apparato statale. Con la politica energetica ha 
ottenuto ‘maggior rispetto’ all’ estero, soprattutto in Europa. Ha cercato, anche 
con un discreto successo, di attrarre investimenti e tecnologie dall’ Europa, 
soprattutto dalla Germania. Ha cercato più volte il dialogo con la Nato e con l’ 
UE, anche se presto ha capito che non volevano aprire un discorso sulle sue 
proposte. Ha accettato a denti stretti l’ ampliamento della Nato nell’ Europa 
orientale, cercando, dal suo punto di vista, di ‘limitare i danni’, cioè impedendo 
che sistemi missilistici a lunga gittata venissero installati in Polonia. Ha 
bloccato con la forza il tentativo della Georgia di entrare rapidamente nella 
Nato.  

L’ ingresso dell’ Ucraina nella sfera di influenza della Nato e la sua entrata 
nella UE sono per lui inaccettabili. Più volte lo ha fatto capire all’ Occidente. 
L´Occidente ha fatto orecchio da mercante con l’ argomento che le regole 
democratiche di autodeterminazione dei popoli sono intoccabili. Anche 
ammettendo, per ipotesi controfattuale, che Putin riconoscesse la validità di tali 
 regole, ad esse anteporrebbe la necessità di salvare l’ integrità del suo Paese e 
del suo popolo, ora e nel lungo periodo. Dalla metà dell’ ‘800 questo 
atteggiamento lo si chiama con un termine tedesco: Realpolitik.  



MA L’ OCCIDENTE CHE FA ?


Gli USA praticano, almeno dalla caduta del Muro di Berlino, con una notevole 
spregiudicatezza, la linea della democratizzazione spinta e della diffusione 
accelerata della libertà nel mondo. In genere con scarsi risultati, addirittura con 
esiti paradossali. Facciamo mente locale su qualche esempio. Hanno rovesciato, 
facendo carte false, il regime di Saddam per portarvi la democrazia, ( oltre che 
per mettere un piede su grandi risorse petrolifere ), salvo poi ‘scoprire’ che in 
Iraq convivono etnie e religioni ferocemente nemiche fra loro e che non esiste 
un tessuto sociale nazionale, bensì una galassia di tribù e clan che da secoli 
contrattano tra di loro una difficile convivenza. Così, dopo più di dieci anni di 
guerra, guerriglia, stragi e lacrime nel Paese, ci sono tutte le premesse per un 
suo sfaldamento. Non solo. Il Paese che più ha tratto vantaggio e più si 
avvantaggerà dalla strategia americana è stato e sarà l’ Iran: il maggior pericolo 
per Israele e per gli USA nella regione. 

In Egitto, come in Libia, gli americani hanno ‘cavalcato’ le ribellioni che 
hanno portato alla destituzione di Mubarak e di Gheddafi. Il risultato in Egitto: 
la vittoria democratica dei Fratelli musulmani ( i maggiori sostenitori di Hamas 
e dell’ opposizione armata in Siria ). Sempre in Egitto, varata una costituzione 
contaminata da principi islamici – non si capisce come una carta costituzionale 
democratica possa conviverci – di fronte ad un Paese sull’ orlo della guerra 
civile, sono intervenuti i militari. Chi di noi non ha tirato un respiro di 
sollievo? Forse meglio una ritirata strategica della democrazia che una guerra 
civile. No? 

In Siria gli americani hanno contribuito a destabilizzare il regime dittatoriale di 
Assad, stretto alleato degli ayatollah, foraggiando l’ opposizione laica, salvo 
poi scoprire che le forze sunnite erano di gran lunga soverchianti. Come se non 
bastasse, la Siria è diventata la mecca dell’ estremismo islamico attirando 
combattenti da tutta la regione e persino dall’ Europa. Nonostante questo, per il 
fatto che Assad, messo alle strette dalle forze sunnite, aveva usato armi 
chimiche, gli USA hanno minacciato un pesante intervento militare. Israele ha 
sempre guardato con grande preoccupazione ai rivolgimenti in Siria, ritenendo 
preferibile avere a che fare con Assad, che conoscono bene, piuttosto che con 
un Paese dominato da forze antiisraeliane dai metodi e dagli obiettivi 
incontrollabili. Anche i cristiani siriani hanno sempre dichiarato di preferire 
Assad, visto che non li ha mai perseguitati. Perché allora gli USA si sono a 
lungo accaniti con Assad, che pare il male minore? L’unica spiegazione che mi 
salta in mente è questa: in Siria la Russia ha la base per la flotta nel 
Mediterraneo e fa conto che il partito Baath rimanga a lungo al potere. Mesi fa 
siamo arrivati vicinissimi al risultato paradossale che gli USA e le potenze 
occidentali avrebbero causato il tracollo di Assad e la vittoria degli islamisti  
sunniti. Giusto sull’ orlo dell’ abisso è stato Putin a salvarci e a salvare l’ 
improvvido presidente americano, costruendo la mediazione che ha portato al 
piano di distruzione della armi chimiche detenute da Assad e offrendo agli 
americani una via d’ uscita dal vicolo cieco in cui si erano cacciati. Una 
provvidenziale beffa per gli USA.  

Spero di aver dimostrato che spesso la politica estera americana è un impasto 
pericoloso e malriuscito di Realpolitik e di Prinzipienpolitik. Quanto all’ 
Europa, nei confronti della Russia, vorrei essere più preciso. Quella americana 
è una Realpolitik che si apre il varco con i mezzi e le idee della 
Prinzipienpolitik. Un vero controsenso, se ci riflettiamo a fondo. La Realpolitik 
di una grande potenza come quella americana ( e ben venga una grande 
potenza democratica ) non può che essere politica di potenza. È logico che si 
badi cioè ai rapporti di forza e si configuri una politica di allargamento della 
propria sfera di influenza. Purtroppo a questo punto, troppo spesso, per gli 
americani, entra in campo la Prinzipienpolitik, cioè l’ appello ai valori e ai 
principi fondativi della democrazia americana e la pretesa di una loro rapida 
applicazione, senza alcuna mediazione che tenga conto dei dati storici che si 
sono sedimentati nel Paese di cui si stanno occupando. Ecco, manca la seconda 
parte della Realpolitik, che dovrebbe suggerire quali sono gli obiettivi realistici 
e quali non lo sono, che cosa danneggia e favorisce gli altri giocatori sul campo, 
che forze hanno questi giocatori, quali resteranno nel lungo periodo, e quali no. 
La Prinzipienpolitik rende ciechi su queste cose, e per di più ha anche lo 
svantaggio di legare le mani, di darti poco spazio di manovra. Di più: ha anche 
il difetto di rendere prevedibili le tue mosse. Insomma, uno schema disastroso.  

In Europa assistiamo, dunque, almeno da due decenni, al pervicace tentativo 
americano di estendere la Nato fino a ridosso della Russia e ad ignorare i 
segnali che questo enorme Paese aveva dato per una collaborazione. Il cavallo 
di Troia che gli americani usano, o meglio, ci fanno usare, è l’ allargamento 
della UE. A loro non interessa che l’ Europa democratica approfondisca la 
propria integrazione. A loro basta che si estenda al massimo come zona di 
libero scambio, che sia solo la vil moneta a dettare legge. Per questo hanno 
spinto come matti qualche anno fa affinché la Turchia entrasse nell’ UE. A 
sponsorizzarli in Europa un’ alleanza strana: Schröder, Berlusconi, Blair. Ecco, 
nel momento in cui sia i sani principi che il realismo, separatamente e in 
sintonia, avrebbe suggerito di evitare una deleteria estensione della UE alla 
Turchia, si ebbe invece un corto circuito tra Realpolitik e Prinzipienpolitik. A 
quel tempo erano Angela Merkel e Wolfgang Schäuble ad avere la ragione 
dalla loro parte. Non si capisce perché le cose, ora, nel caso dell’ Ucraina, 
stiano tanto diversamente. Così anche loro due stanno al gioco americano.  

Un altro esempio increscioso. All’ inizio del secolo Bush catapultava in 
Georgia un ricco avventuriero georgiano residente negli USA: Mikheil 
Saakashvili. La sua missione: diventare presidente del Paese per portarlo nella 
UE e nella Nato. Ebbene, grazie a tante promesse, molti soldi e populismo di 
bassa lega, spodestato con le brutte dalla presidenza il prestigioso Sevardnadze 
– l’ ex ministro degli esteri sovietico a fianco di Gorbaciov, l’ architetto dello 
scioglimento pacifico del blocco comunista, uno che si guadagnò grandi meriti 
per l’ unificazione tedesca – Saakashvili riuscì a diventare presidente della 
Gorgia. E che fece? Riuscì a dividere ancor di più il Paese, poi cercò di piegare 
manu militari due regioni russofone e filorusse, confinati con la Russia. Cosa 
che provocò l’ intervento dell’ esercito russo a difesa delle due regioni. Infatti 
il buon Saakashvili aveva mandato l’ esercito contro le regioni ribelli. Allora l’ 
Occidente parlò subito di invasione russa premeditata e di reazione georgiana, 
anche se era vero il contrario. Ora Saakashvili vive di nuovo negli USA, per 
sfuggire a dei procedimenti giudiziari per gravi casi di corruzione e per abuso 
di potere. Eppure la Georgia ambisce ad entrare nell’ UE. E le si è dato ascolto, 
tant’ è che si è giunti quest’anno alla firma congiunta di un accordo si 
associazione analogo a quello firmato con l’ Ucraina. Dal mio punto di vista, 
niente di più deleterio per l’ UE. Solo adesso mi accorgo che “deleterio” deriva 
dal latino e significa “distruttivo”. Per essere più precisi: autodistruttivo.  


A parte i personaggi che si ingaggiano per ottenere certi obiettivi ed i metodi 
che questi usano, non proprio conformi al galateo democratico, ora mi pongo e 
vi pongo due domande. * Che senso ha voler forzare la mano nel 
raggiungimento di obiettivi democratici in regioni in cui, per motivi etnici, 
religiosi, geo-politici o quant’altro, è molto probabile o quasi sicuro che si 
giungerà a grandi spargimenti di sangue, grandi distruzioni, guerre civili? Tra l’ 
altro sapendo che i contendenti dovranno poi trovare un modus vivendi per 
ricucire, nei decenni, gli strappi che si sono provocati. ** Che senso ha che la 
Georgia – un Paese così lontano dal Kern-Europa tanto caro ai tedeschi (il 
“nocciolo” dell’ Europa, da cui si guarda dall’ alto in basso la periferia a cui 
apparterrebbero i cosiddetti Piigs) e per di più confinante con la Russia – entri 
fra qualche anno nella UE e nella Nato? 
A mio modo di vedere, ha senso solo se si è disposti – come Occidente – a 
rischiare una guerra con la Russia. Ha senso se si cerca lo sfaldamento o lo 
sfilacciamento della Russia stessa. Ma, nuova domanda: Putin e la Russia sono 
tanto pericolosi per gli USA o per il mondo? Non solo. Ammesso di riuscire a 
sfaldare la Russia, è cosa responsabile innescare i conflitti regionali e le guerre 
civili che sempre seguono al collasso di stati multietnici e compositi dal punto 
di vista culturale e religioso? Cosa si vuole, si vuole iraquizzare anche ampie 
regioni della Russia? E noi europei dovremmo prestarci a simili avventure 
sapendo che molto probabilmente ci coinvolgerebbero nella guerra?  

Un’ ultima nota sull’ operato degli americani. Finora, con la crisi ucraina, gli 
USA sono riusciti nell’ impresa di far riavvicinare la Russia e la Cina, due 
potenze che si guardavano in cagnesco da 50 anni. Molti osservatori 
sostengono che si tratta di un avvicinamento tattico. Credo però che si sbaglino 
di grosso. Perché? Perché anche i cinesi si sentono messi sotto pressione dagli 
americani lungo l’ arco dell’ Oceano Pacifico e Indiano. I cinesi hanno anche 
grossi timori che si ribelli la regione dello Xinjian, che tra l’ altro confina con 
la Russia ed il suo alleato Kazakistan. Mettendosi fianco a fianco con la Russia 
sarebbero sicuri che nessuno voglia destabilizzare dall’ esterno la regione. Ma 
c’ è di più: i cinesi hanno in programma la costruzione di grandi vie di 
comunicazione via terra (ferrovie e autostrade) che colleghino la Cina all’ 
Europa, ovviamente passando dalla Russia. Che interesse avrebbero allora i 
cinesi ad un indebolimento o addirittura ad uno sfaldamento della Russia? No, 
credo che stavolta il disgelo russo-cinese sia duraturo e sincero. Pensate che 
 però gli americani, con tutte le strutture di analisi strategico-militare di cui 
dispongono, non ci sono arrivati. La cosa non mi fa affatto piacere. Come non 
mi fa piacere che noi europei si debba stare al loro gioco stupido e pericoloso.  



E  L’UNIONE  EUROPEA ?


Lo stato dell’ Unione europea e della Zona euro è da troppo tempo desolante. È 
evidente che si è perso lo spirito degli anni sessanta, settanta e ottanta. È sì un 
piacere vedere quanto il nostro modello attragga nazioni uscite da poco da 
regimi dittatoriali, ma l’ allargamento accelerato dell’ Unione ha impedito l’ 
approfondimento dell’ integrazione politica, culturale ed istituzionale tra i 
paesi che hanno dato vita a questa esperienza e quelli che si sono aggiunti fino 
alla fine degli anni ottanta. Helmut Schmidt mise in guardia già molto tempo fa 
da un simile errore.  

La UE, dilatandosi troppo in fretta, ha fortemente accentuato il carattere di 
zona di libero scambio e di economie integrate. L´estensione ad est è stata 
soprattutto vista come un allargamento del mercato e come chance per produrre 
a prezzi più competitivi grazie ai bassi salari nei nuovi paesi membri. Gli altri 
aspetti sono stati  e sono invece trascurati. Il sentimento di essere parte di un’ 
ecumene europea ne è risultato gravemente danneggiato. Sono riemersi 
atteggiamenti gretti, così come i vecchi tic nazionali. Un’ EU ‘economicista’ 
come questa è sempre piaciuta agli inglesi e agli americani. E funziona a 
meraviglia come cavallo di Troia dell’ allargamento della Nato in chiave 
antirussa. Ma così non fu pensata.  

Ma la cosa più preoccupante è che la Germania abbia imboccato da almeno un 
decennio la strada dell’ egoismo nazionale. Era prevedibile che l’ estensione ad 
est la avvantaggiasse, sia per la posizione geografica e la maggiore facilità di 
intessere legami con i nuovi paesi membri, ma pure per la forza e la razionalità 
del suo apparato industriale, così come per la sua capacità di costruire sistemi 
di scala. Non da ultimo per il buon funzionamento come sistema paese. Niente 
di criticabile in sé, anzi un esempio.  

Il problema è che i tanti successi stanno dando alla testa. In Germania non c’ è 
la minima percezione della gravità della rottura che si è creata ed è stata da loro 
creata con il Sud dell’ Europa. Non c’ è abbastanza rispetto per i problemi della 
Francia né la minima attenzione per un assetto nell’ Eurozona più rispettoso 
dell’ apparato produttivo degli altri vecchi soci della ditta europea, così come 
dei disoccupati e dei lavoratori che ci vivono. Come se il tipo di politica 
economica tedesca ed europea non avesse nulla a che fare con questi problemi. 

La verità è che quanto non fa il gioco del modello economico neo-mercantilista 
tedesco, basato su un mercato interno volutamente fiacco, su una dinamica 
salariale sempre al di sotto di quella della produttività, viene bollato come 
sbagliato, non razionale, antieconomico. Quel che piace sempre di più in 
Germania è vedere le altre economie integrarsi nella propria nel modo in cui 
sono state integrate le economie dei nuovi stati membri nella grande macchina 
dell’ economia tedesca. Molti tedeschi fanno anche i salti di gioia per il 
drenaggio di cervelli e di manodopera qualificata verso di loro. E così si 
mettono in cantiere nuovi istituti di ricerca, si potenziano le facoltà scientifiche 
e tecnologiche. Il tutto perché il mondo si stupisca sempre di più davanti agli 
Exportweltmeister (campioni del mondo nelle esportazioni), agli 
Innovationsweltmeister (campioni del mondo in innovazione), ai Bildungs- und 
Ausbildungswelmeister ( campioni mondiali della cultura e della formazione) 
quali essi sono o stanno per diventare. Questo campionismo iperbolico, questa 
sindrome da primo della classe che non dà mai da copiare al vicino di banco, 
sta diventando una vera paranoia.    

Dovunque il tono è cambiato rispetto a qualche anno fa: tra i politici, tra gli 
industriali, nei media, e di conserva, poco alla volta, anche nella popolazione. 
La Germania è sempre più interessata ad imporsi sulla scena mondiale, non 
solo come potenza economica, ma anche politica, addirittura morale. Quindi fa 
gioco che l’ Eurozona e l’ UE diventino sempre più un retroterra funzionale 
alle sue nuove mire soft-egemoniche. Quindi fa gioco che l’ UE si allarghi fino 
a perdere i suoi connotati essenziali. E c’ è una convergenza obiettiva con la 
visione americana circa il ruolo dell’ UE. Dunque ben venga l’ allargamento 
anche alla Georgia, alla Moldavia e – qui si ansimi un poco – anche all’ 
Ucraina. Perché, ripeto, i principali sponsor europei del fatidico accordo di 
associazione sono stati i tedeschi. Allora non c’ è più da meravigliarsi che l’ 
ex-ministro degli esteri Westerwelle, in carica ancora per pochi giorni, si sia 
affrettato a comparire a piazza Maidan quando la rivolta prendeva quota. E non 
c’ è da meravigliarsi che pure il nuovo ministro degli esteri Steinmeier sia 
corso due volte a Kiev in momenti ancora più caldi della rivolta, si dice per 
mediare. Ma a nome di chi, forse dell’UE? E per che cosa? E non c’ è 
nemmeno da meravigliarsi che il presidente della repubblica Gauck sia andato 
a sproloquiare a Varsavia il primo settembre scorso, settantacinquesimo 
anniversario dell’ invasione tedesca della Polonia e dell’ inizio della seconda 
guerra mondiale. È riuscito infatti a stilizzare la nuova sintonia polacco-tedesca 
in chiave antirussa. E non ha nemmeno trovato una parola per ricordare i circa 
trenta milioni di russi morti in quella guerra. Si badi, Gauck non è affatto un 
guerrafondaio, è solo un narcisista irresponsabile. Ma perché fa un simile passo 
falso? Perché in Germania l’ aria è cambiata. Ma chi l’ ha cambiata? 
Soprattutto i politici. Allora Gauck è una vittima di se stesso e del suo ‘bel 
parlare’. 


E pure non fa meraviglia che la stampa e la televisione di stato tedesca 
informino così male ed in modo così unilaterale sulla crisi ucraina. L’ unico 
quotidiano di un certo prestigio e diffusione che ha manifestato un 
atteggiamento critico è l’ Handelsblatt, giornale economico, certamente 
sensibile alle preoccupazioni degli industriali. Sull’ Ucraina i giornali italiani 
sono stati ben più equilibrati. Delle nostre tv non so invece nulla. Resta 
comunque il fatto che per avere un’ informazione veramente adeguata ci si 
deve rivolgere a giornali come il Guardian di Londra. Ma per saperne ancora 
di più è necessario sintonizzarsi su Al Jazeera. Lì si capiscono gli umori della 
gente di tutt’ e due le parti, ci si fa un’ idea della posta in gioco, della crudezza 
 delle battaglie, della dismisura tra l’ oggetto del contendere ed i mezzi 
impiegati, dell’insensatezza della guerra, della crescita esponenziale e 
incontrollata dell’ ingiustizia e della violenza, una volta che si sono innescate. 
E anche in questa crisi si tocca con mano la potenzialità distruttiva di due vizi 
sempre fatali nella storia umana: la volontà di potenza e l’ impazienza. Nel 
nostro caso, l’impazienza di quegli ucraini che vedono la superiorità del 
modello delle democrazie occidentali rispetto al regime autocratico russo ma 
non rispettano i tempi della storia e poi la volontà di potenza di quanti vogliono 
espandere la propria zona d’ influenza ad est. Perché è chiaro che, in questa 
crisi, non è la Russia ad agire, ma a reagire.  


Heidelberg, 26 settembre 2014 


Beppe Vandai 

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