dello Statuto dei lavoratori
Il lavoro di
Luca Amendola „Dimensioni delle imprese e
Statuto dei lavoratori” è breve, ma ad alto peso specifico. Va preso molto
sul serio. Mi pare infatti che confuti in un sol colpo tutta la letteratura
economica che in questi anni ha sostenuto, con dati alla mano, la tesi dell’
irrilevanza dell’ articolo 18 dello statuto dei lavoratori quanto alle
dimensioni delle ditte in Italia.
Questa
letteratura argomenta pressappoco così. Se l’ Art. 18, che entra in vigore per
tutte le imprese non agricole con almeno 15 dipendenti, fosse veramente un peso
per le imprese ed un ostacolo ad assumere, si noterebbe una presenza
sovradimensionata di ditte con un numero di addetti fino a 14 ed una quantità
sottodimensionata di ditte tra i 15 ed i 20/25 dipendenti. Infatti gli imprenditori
tenderebbero a stare il più possibile sotto la soglia dei 15 addetti. Ma dai
grafici costruiti sulla base dei dati raccolti dall’ Istat non si nota nessuno
scalino brusco che segnali discontinuità. Ergo: l’ Art. 18 non frena in alcun
modo la scelta degli imprenditori nel dare la dimensione giusta alla propria
azienda.
Luca
si è occupato esclusivamente dell’ aspetto matematico degli studi economici in
merito. Ha preso tali e quali i dati su cui hanno lavorato gli economisti e ha cercato
di vedere se la distribuzione decrescente del numero delle ditte dai 5 ai 10
dipendenti corrispondesse ad una distribuzione probabilistica regolare. Ha
constatato che era così e non ha fatto altro che costruire una curva che proiettasse
anche per il resto della serie (numero delle ditte da 11 a 25 dipendenti) la
regolarità che aveva scoperto. Fino alla soglia di 14 la regolarità è
rispettata. Dopo, non più.
Per
costruire la serie il nostro Luca si è servito del principio delle leggi
di potenza. Che è ‘sta roba? È uno strumento matematico molto utile in
economia, in sociologia, ma pure in scienze dure come la fisica e l’ astronomia,
per prevedere la distribuzione della frequenza di fenomeni omogenei. Provo a
spiegarmi con un esempio, da me costruito, ma che riguarda proprio il tema a
partire da cui Vilfredo Pareto introdusse questo tipo di analisi in economia:
la distribuzione della ricchezza.
Nella
città Alfa vivono circa 1.285.000
abitanti, suddivisi in circa 367.000 nuclei famigliari (anche i singles sono da considerarsi tali). Cerchiamo
di capire come è distribuita la ricchezza e costruiamo cinque classi di reddito
annuo: ( A ) le classi dei meno abbienti / fino a 20.000€, ( B ) i ceti medi / da
20.000€ a 40.000€, ( C ) i ceti benestanti / da 40.000€ a 80.000€, ( D ) i ricchi
/ da 80.000€ a 160.000€, ( E ) i ricconi / oltre i 160.000€.
Orbene,
se scopriamo che il 65% degli nuclei familiari di Alfa appartiene alla classe di reddito (A), ed inoltre scopriamo
che il numero di quelli appartenenti alla classe (B) è uguale a sua volta al 35%
degli appartenenti alla classe (A), allora, proseguendo con questa proporzione,
sapremo in anticipo quanti apparterranno alle classi (C), (D) ed (E). Ecco
dunque tutti gli ingredienti per produrre una legge di distribuzione
probabilistica da cui sarà facile calcolare quante persone e quanti nuclei
familiari, all’ incirca (siamo sempre nel campo delle probabilità), appartengono
alle differenti classi di reddito.
A me risulta ad
esempio che i nuclei familiari dei ricconi saranno un po’ meno dell’ 1% del
totale. Quelli dei ricchi saranno all’ incirca il 2,8% ed quelli dei benestanti
circa l’ 8%. Quelli del ceto medio: un po’ meno del 23%. Una volta ottenute
tutte le percentuali potremo anche sapere quanti abitanti di Alfa apparterranno alle varie classi di
reddito. Ognuno può divertirsi a controllare le mie percentuali e a calcolare
il numero degli abitanti di Alfa per
classi di reddito.
Torniamo a noi.
Luca, una volta calcolata la distribuzione numerica delle ditte che ci si
dovrebbe aspettare a seconda delle loro dimensioni, ha costruito una
retta usando assi cartesiani a scala logaritmica. Permettetemi di sorvolare
su come li si ottengano perché ci complicheremmo la vita, ed il sottoscritto,
da non-matematico, scriverebbe di certo qualche strafalcione. L’importante è
capire che assi cartesiani di questo tipo permettono di rappresentare la nostra
distribuzione lungo una retta, dotata di una bella ed evidente inclinazione
regolare.
Fatto
questo, risulta che, a partire dalla soglia dei 15 dipendenti e fino a quella
dei 25, il numero effettivo delle ditte e degli addetti di queste ditte è
inferiore rispetto a quello che ci si dovrebbe attendere grazie alla legge di
potenza. Dall’ articolo di Luca si desume infine, secondo differenti
ipotesi, la quantità di occupazione che si genererebbe se l’ Art. 18 fosse
cancellato o modificato in modo sostanziale.
Luca
è molto prudente nelle sue tesi, ma non si vede altro motivo che l’ Art. 18 nel
produrre quel fenomeno anomalo di riduzione dell’ occupazione. A chi ne vedesse
altri sarei grato di segnalarmelo.
* * *
Mi permetto di riportare una
lettera, mandata nel 2003 a Pietro Ichino, e pubblicata sul Corriere della Sera del 7 agosto 2003, in cui si espone un abuso consentito dall’ Art. 18.
Si tratta di un caso-limite che si è verificato nella zona di Treviglio.
Vi prego di
leggerlo con attenzione. Agli amici trevigliesi non posso non chiedere una
verifica. Sarei loro grato se mi facessero sapere se è tutto vero quel che vi è
scritto. Se sì, mi piacerebbe anche sapere se la signora che avrebbe usato
l´Art. 18 come un grimaldello è stata sostenuta da qualche sindacato locale.
Se è tutto vero
quel che la lettera riporta, si può solo concludere che una legge che consente
un fatto del genere, è semplicemente indifendibile.
e la lettera in
pdf:
«Dal 1970 lavoro come tecnica-modellista e responsabile della qualità in
un’azienda di confezioni a conduzione familiare che occupa circa 50 dipendenti,
ditta presso la quale inizialmente ero dipendente; poi ne sono diventata socia
avendone acquisito una piccola quota di partecipazione. Nel 1990 la ditta
assunse un’operaia cucitrice che, dopo circa 6 mesi di regolare lavoro, si rese
assente dal lavoro con regolare certificazione medica per 13 mesi consecutivi:
motivo della malattia, un forte esaurimento nervoso causato dalla morte della
madre, avvenuta cinque anni prima. Allo scadere del periodo di comporto, la
dipendente, non avendo più diritto a restare assente senza perdere il posto, si
presentò al lavoro e subito ebbe una discussione con me in quanto non trovò
nello spogliatoio la propria divisa lasciata lì 13 mesi prima, giungendo a
minacciare di rovinare i capi in lavorazione. Passata una settimana, la stessa
dipendente incominciò a insultare l’amministratore accusandolo di essere un
ladro in quanto non le aveva retribuito alcuni giorni di malattia (questi le
erano stati trattenuti in quanto durante il periodo di malattia era risultata
assente dalla sua abitazione a un controllo dell’Inps). Durante questa
discussione la dipendente finse di cadere a terra come fosse stata spinta e
addirittura picchiata dal datore di lavoro, aggressione smentita da tutte le
altre dipendenti presenti alla scena. Da qui ha inizio l’odissea della nostra
azienda. Su consiglio dell’Unione industriali di Bergamo l’operaia viene
licenziata per insubordinazione; la stessa impugna il licenziamento e avvia la
causa, a seguito della quale dopo un anno il giudice del lavoro di Treviglio dà
ragione all’azienda. In appello, anche il Tribunale di Bergamo conferma la
legittimità del licenziamento. La dipendente allora propone ricorso alla
Cassazione, la quale rimanda il fascicolo al Tribunale di Brescia per appurare
alcuni punti. Il tutto si risolve nuovamente con una sentenza favorevole
all’azienda. A questo punto la dipendente propone un secondo ricorso alla
Cassazione, la quale nuovamente rimette la causa al giudice di appello. Si
arriva così alla data maledetta del 6 marzo 2003, quando il Tribunale condanna
l’azienda al reintegro della dipendente e alla corresponsione di tutte le
mensilità dalla data del licenziamento (anno 1992) sino alla data del reintegro
(2003), con interessi e rivalutazione monetaria, contributi previdenziali e
relative sanzioni per l’omissione nell’arco di undici anni, oltre a tutte le
spese processuali per i sei gradi di giudizio. Oltre a ciò- non dimenticando che
abbiamo comunque sostenuto enormi spese per l’assistenza prestata dal nostro
legale- poco dopo la sentenza la dipendente ha comunicato che rinunciava al
posto di lavoro, ottenendo così, sempre a norma dell’articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori, il pagamento di ulteriori quindici mensilità di retribuzione. E
adesso, come fare a pagare un debito così grosso, per una ditta che lavora nel
settore tessile, noto per avere margini di guadagno bassissimi? Si sono
prospettate due soluzioni: portare i libri in Tribunale e chiudere la ditta
lasciando senza lavoro cinquanta persone, oppure ipotecare i beni personali dei
soci (nel mio caso, un appartamento a uso di prima casa acquistato dopo
venticinque anni di lavoro con mutuo, lo stesso per quanto riguarda l’amministratore).
Tra le due ipotesi abbiamo scelto la seconda, perché siamo persone corrette,
che amano il proprio lavoro e la realtà che sono riuscite a costruire in oltre
trent’anni di attività; e che altrimenti si sentirebbero in colpa verso gli
altri dipendenti dell’azienda, i quali hanno anch’essi dei figli da mantenere e
il mutuo da pagare. Così mi ritrovo a 58 anni a ipotecare di nuovo il mio
appartamento per altri 15 anni, per poter pagare undici anni di retribuzioni e
contributi a una persona, che per questo periodo dice di non aver mai lavorato
(ma siamo in una zona con tasso di disoccupazione praticamente inesistente). …
Io ho sempre avuto fiducia nella giustizia, ma adesso non più. Mi scuso per lo
sfogo. Antonia Lavelli»
* * *
Heidelberg, 17 / 11 / 2014
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