al FORUM
DELLA BCE sul CENTRAL BANKING
(cioè sul ruolo delle banche centrali)
–
SINTRA 26/27 MAGGIO 2014 –
SCHEDA di BEPPE VANDAI
per
VOLTA LA CARTA!! e. V. Heidelberg
–
KRUGMAN ha argomentato pressappoco così:
( I )
L’ obiettivo del 2% di inflazione, su cui
convergeva e converge il consenso di tutti i banchieri centrali e della maggior
parte degli economisti è troppo basso, perché non lascia alle banche centrali
abbastanza spazio di manovra per gestire crisi recessive e/o deflattive. È
infatti troppo vicino allo zero e conduce troppo facilmente un’ economia al
livello in cui cade nella trappola della liquidità.
La zona-zero nei tassi di interesse è
infatti assai pericolosa perché blocca il credito. Non c’ è infatti interesse a
prestare a tasso zero, o quasi; si preferisce cioè tenersi la liquidità. Se poi
si entra in deflazione, anche il semplice tenere il denaro incamerato produce
un guadagno, in quanto ne aumenta il valore reale con certezza e senza alcun
rischio.
Un’ inflazione controllata a bassi livelli
fa parte del Quantitative Easing, che vuole mettere a disposizione del sistema
economico crediti a prezzi bassi. Ma se già il livello di inflazione è troppo
basso (come nel caso del 2%) il QE di una banca centrale raggiunge presto la
soglia zero, o vicina allo zero. Così si entra nella trappola della liquidità.
Forse in fasi precedenti il 2% era un
livello giusto, che funzionava, ma da un bel po’ di tempo si arriva sempre più
spesso a zero-lower bound (ZLB), cioè a tassi d’ interesse minimi vicini alla
soglia zero. Ad esempio: negli ultimi 30 anni ben 7 erano segnati dal ZLB.
( II )
L’ obiettivo del 2% di inflazione ha un
altro inconveniente, non permette di far scendere i salari reali, aumentando
così per le imprese la produttività del lavoro; cosa che a sua volta innesca la
riduzione degli investimenti e genera disoccupazione. Il motivo per cui sarebbe
bene aver più inflazione è presto detto: è difficilissimo ottenere riduzioni
del salario nominale, cosa spesso auspicabile in fasi di grave recessione. I
salari mantengono un alto grado di rigidità presumibilmente per questi due
fattori: l’ evidente opposizione dei dipendenti a tagli salariali e la
giustificata riluttanza dei datori di lavoro, dovuta al timore che tagli
salariali peggiorino l’impegno nel lavoro.
* * *
Se già ci sono forti motivi per auspicare
un maggior livello di inflazione, se cioè il livello del 2% va ritenuto
inadeguato a far fronte ad una crisi recessiva, allora una politica economica
di deleveraging (riduzione delle
posizioni debitorie) – una politica effettivamente seguita nella zona-euro – è
ancor più criticabile.
Ma non è tutto. Ci sono due dati che ci
fanno pensare che la tendenza ad asfittici aumenti o a riduzioni del PIL (cioè
una tendenza recessiva) nell’ ultimo decennio non solo sia fortemente
aumentata, ma che possa avere radici strutturali. Infatti,
A ) Già il ciclo economico 2001–2007 (cioè
prima dell’ inizio di quella che ormai comunemente chiamiamo “Grande
Recessione”) tendeva in maniera endemica alla depressione. Ma anche prima, come
ha rilevato Lawrence Summers, la tendenza recessiva veniva `superata’, ovvero
mascherata, grazie a bolle speculative.
B ) Il calo demografico nei paesi
industriali più sviluppati è un dato certo.
Per questo c’ è da pensare che anche
l’interruzione della politica di consolidamento e di austerità, di per sé, non
sarà sufficiente a farci ritornare ai livelli di crescita del PIL degli ultimi
decenni del XX° secolo.
* * *
Non si potrà tornare alla relativa
tranquillità della fase della Grande Moderazione (metà anni ’80 fino al 2007).
Perché? Perché questa fase di bassa volatilità, di bassa inflazione e di
crescita costante e a buoni livelli, è stata ‘comperata’ con livelli di
indebitamento pubblico insostenibili. Vedi la crescita media annuale del debito
pari al 3,9% del PIL. Questo doping (che però non si è tradotto in un sensibile
aumento dell’ inflazione) non può continuare. Lo stesso abbandono tattico del deleveraging non potrà più trovare il
debito pubblico come ammortizzatore. Perciò il ciclo economico sarà assai
fiacco. E una politica economica di puro consolidamento (pur senza deleveraging) comprimerebbe
necessariamente i tassi d’ interesse al di sotto dell’amato 2% di inflazione.
Perciò si scivolerebbe di nuovo verso lo ZLB!!
Data poi la rigidità salariale, si avrà un
combinato di forte disoccupazione e sottooccupazione, che a sua volta spingerà
verso una bassissima inflazione o addirittura verso la deflazione. Così la
rigidità salariale diverrà ancor più perniciosa. Infatti, in congiunture di
zero-inflazione o deflazione, se i salari nominali restano fermi, si ha nel
primo caso il mantenimento del loro potere d’ acquisto, nel secondo caso un
aumento dello stesso. E così ci si avviterebbe in una spirale depressiva.
Facendo mente locale sulla situazione
dell’ eurozona, si può invertire la rotta se e solo se la fase di ‘svalutazione
interna’ (leggi: recessione, salari fermi e riaggiustamento della bilancia
commerciale) nei paesi della cosiddetta periferia è fiancheggiata da una lunga
fase di aumenti salariali e quindi di spinta inflazionistica nei paesi del
centro-nocciolo economico della stessa zona economica.
Citazione di Krugman (pag. 11 del paper): “ (…) in an imperfectly integrated concurrency area – one that lacks the fiscal
integration and high labor mobility that the traditional theories of optimal
currency areas call for – moderate inflation can be a crucial aid to the
adjustment mechanism, and low inflation can impose significant losses “.
Paul Krugman è d’ accordo con O. Blanchard
che un’ inflazione europea tra il 3% ed il 4% sarebbe una condizione necessaria
per uscire dalla trappola in cui l’ eurozona si è cacciata. E dai toni del
discorso di Krugman, lui sembra preferire il 4% al 3%.
Heidelberg, 29 / 10 / 2014
Beppe Vandai
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