venerdì 16 dicembre 2016

SULL’ESITO DEL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE 2016



[Riflessioni di Beppe Vandai]



         Anche se non si vede, queste riflessioni sono listate a lutto, il lutto per una buona riforma costituzionale bocciata dall’elettorato. Niente paura però, si tratta di un lutto già elaborato… di chi già guarda avanti. 

Scrivo queste note dopo la discussione di mercoledì sera in Volta La Carta!!, seguendo la falsariga della mia relazione e recependo anche alcune interessanti osservazioni fatte da altri voltacartisti. Cercherò anche di suddividere nel modo più chiaro possibile il mio ragionamento.


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A ) Un dramma democratico si è consumato. Il corpo elettorale ha pronunciato un verdetto inequivocabile, contrario a quello espresso dalla maggioranza parlamentare. Siamo cioè di fronte ad una delegittimazione di fatto del Parlamento, oltre che del Governo. Le dimissioni di Renzi sono dunque una logica conseguenza, nel gioco democratico. Si pone però anche la questione di come questo parlamento possa restare in carica.

Non sono un costituzionalista, tanto meno un comparatista del diritto costituzionale. Credo però che, ora, dopo il referendum, la questione della legittimità di questo parlamento vada sollevata. Infatti, una riforma costituzionale di un notevole portata, votata per tre volte sia dalla Camera che dal Senato, è stata sonoramente bocciata dal corpo elettorale. Le dimensioni del NO suonano come un vero ceffone.


Non abbiamo mai sperimentato qualcosa di simile. Infatti la bocciatura della riforma costituzionale del 2006 avvenne dopo il termine della XIV legislatura, quella in cui era stata proposta la modifica costituzionale berlusconiano-bossiana-finiana. Non sussisteva più la questione della legittimità di un parlamento in carica.

So anche che la Costituzione non prevede affatto lo scioglimento del Parlamento in caso di bocciatura referendaria di una riforma costituzionale. Penso però che il contesto politico in cui questa è avvenuta il problema lo ponga. Faccio un esempio dall’estero. Quando in Francia l’assemblea costituente, eletta nell’ottobre del 1945, propose all’elettorato di approvare la nuova Costituzione al referendum del maggio 1946, questo la bocciò. In seguito, nel settembre dello stesso anno, venne eletta dal popolo una seconda Assemblea costituente, che elaborò un nuovo testo, che fu invece approvato, nell’ottobre del 1946. D’accordo, si trattava di assemblee costituenti. Ma i francesi furono assai cartesiani e conseguenti. Non rimisero la formulazione della nuova costituzione nelle mani della stessa Assemblea. Il corpo elettorale fu chiamato ad eleggerne una nuova. Non sarebbe saggio, pur in un contesto diverso, che noi facessimo altrettanto?

A mio avviso, il quadro parlamentare andrebbe resettato, anche se il senso complessivo del verdetto referendario è ben più complesso della bocciatura della riforma costituzionale. Mi pare che ci sia anche dell’altro. E visto che c’è un ammassarsi di problemi irrisolti, a maggior ragione, una cesura mi pare necessaria. Ma su questo tornerò fra poco.

         B ) Non entro troppo nel merito sul modo in cui è stata condotta la campagna referendaria. Due cose indigeribili però mi sono rimaste sul gozzo. Due cose serviteci da tanti sostenitori del NO.
            Sul voto estero sono state espresse insinuazioni e dubbi degni dei bassifondi della politica. Si è messa in dubbio la legittimità del voto degli italiani all’estero. Molte persone apparentemente intelligenti si sono chieste perché gli italiani residenti all’estero abbiano il diritto di decidere anche per gli indigeni. Risposta: perché così vuole la Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Ogni cittadino italiano ha sempre avuto questo diritto. Un tempo, per decenni, l’elettore doveva rientrare in Italia, nel paese d’origine. Il viaggio dal confine italiano alla circoscrizione elettorale era perciò a carico dello Stato. Da alcune elezioni invece si esprime il voto per posta, inviando la scheda al consolato competente. Anche se proposta da Mirko Tremaglia, noto neofascista, questo modo di esprimere il voto corrisponde agli standard ormai in vigore in tanti paesi occidentali.
            Particolarmente disgustoso è stato anche il fatto che a mettere in dubbio questa legittimità siano state persone che invece, nel 2006, avevano salutato con gioia il voto degli italiani all’estero, allorché diede una maggioranza, seppur risicata, al centro-sinistra di Prodi. Ora, però, contrordine compagni! Siccome il voto all’estero poteva essere sfavorevole, si è cercato di demonizzarlo. Che dire di questo? È un esempio eclatante di immaturità democratica. Si sa, i bambini tendono a contraddirsi. Adulti che fanno lo stesso, hanno qualcosa di bambinesco. Beati loro!
            Ma non è ancora tutto. Sono girate voci che la famosa lettera di Renzi fosse stata spedita dentro ai plichi elettorali, o assieme ad essi, e che le spese di spedizione fossero a carico dello Stato. Pure falsità entrambe. Che dire? Vedi sopra.
            Un’ulteriore annotazione: si è gridato che il voto sarebbe stato influenzato da strane camarille. Non conosco la situazione né in Sud né in Nord America, parlo di quel che conosco abbastanza, cioè per l’Europa. Credo che non ci sia stato nulla di irregolare. Non solo. Il voto ha rispecchiato grosso modo, a mio avviso, il tipo di elettorato che si è stratificato nei decenni. Gli elettori italiani sono ancora in buona parte quanti sono emigrati nella prima ondata degli anni sessanta e settanta, con l’annesso importante dei loro discendenti.
Uno spaccato di questa realtà l’ho conosciuto ad un’assemblea tenuta a Mannheim il 24 novembre scorso. I partecipanti erano quasi tutti pensionati, assieme ai loro familiari, tutti di origine meridionale, per lo più ex dipendenti della John Deer (trattori) o della Daimler-Benz (sezione motori per i camion) o ex edili. A questi si aggiungevano lavoratori più giovani, occupati nel settore manifatturiero. Ebbene, il discorso prevalente tra di loro era questo: qui in Germania abbiamo potuto apprezzare il valore aggiunto che la continuità di governo e la conseguente efficienza può dare alla democrazia. Alcuni dicevano con orgoglio di avere fatto la tessera del PCI verso la fine degli anni cinquanta, e di tenerla ancora nel cassetto, ma che i tempi erano cambiati da allora, che l’Italia, per come stanno le cose in Europa, doveva fare sentire la sua voce diventando più autorevole ed efficiente. Perciò erano per il SÌ.
            Un ex operaio della John Deer se la prendeva, usando parole anche forti, con il senatore Micheloni, deputato del PD, originario di Zurigo, eletto nella circoscrizione europea che accorpa Svizzera e Germania, che aveva preso posizione e faceva campagna per il NO.
            Ora sappiamo come è andata in Svizzera. Al referendum ha votato circa il 40% degli aventi diritto (niente male) ed il SÌ ha ottenuto il 64,25% dei suffragi. Micheloni può salutare il suo seggio nella prossima legislatura, anche se il Senato resterà.
            A parte tutto questo. In Europa il SÍ ha raccolto il 62,54% dei suffragi. Come mai un risultato tanto in controtendenza rispetto all’esito nella Penisola? Credo per due motivi: a ) all’estero gli italiani hanno votato soprattutto nel merito della riforma, non per la sua valenza politica, b ) gli italiani all’estero avevano e hanno come termine di paragone le altre democrazie europee, di certo dotate di istituzioni più razionali ed efficienti. Anche per questo altri paesi dell’UE ci fanno regolarmente le scarpe.

            Passo all’altro rospo in gola. Il fronte del NO ha strumentalizzato l’ANPI (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Personalmente, questa cosa non gliela perdonerò  m  a  i .
Infatti, il Comitato nazionale, presieduto dal prof. Smuraglia, ha preso posizione per il NO, creando di fatto un’analogia tra il fronte fascismo / antifascismo e quello tra favorevoli alla riforma costituzionale / avversari della stessa. Questo ha dato la stura ad una narrazione non solo falsa, ma anche idiota sul referendum costituzionale: quella secondo la quale si doveva bloccare una svolta autoritaria. Così si è visto un pullulare su vari siti locali dell’ANPI di discorsi che avevano il tono della contrapposizione amico/nemico tanto cara a quel semi-nazista di Carl Schmitt (a sua volta tanto caro a quel confusionario di Cacciari) per il quale proprio quella contrapposizione è il succo ed il senso della politica.
            Facciamo invece mente locale. La lotta partigiana ha avuto sì una forte impronta di sinistra, settore politico in cui mi identifico, ma è stata condotta da uno spettro assai variegato di tendenze politiche. Questo, Smuraglia dovrebbe saperlo. Vedere comunque a questo link dell’ANPI. 
Non solo. Campioni dell’antifascismo come Piero Calamanderi (un azionista) proposero all’Assemblea costituente il modello presidenziale, poi bocciato. Un modello che, secondo il metro dei neo-garibaldini alla Smuraglia, dovrebbe essere iper-autoritario. Attenzione a non mandare in acqua il cervello!




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Detto questo, torniamo alla valutazione dell’esito del referendum.

C ) Il risultato è piuttosto chiaro. *Una parte dell’elettorato ha votato nel merito, **un’altra esprimendo un voto di partito, ***una terza parte ha dato voce alla rabbia, alla  protesta politica o sociale, ha voluto bocciare la politica del governo, Renzi in persona, il PD, la classe dirigente italiana ed europea. Per alcuni elettori, poi le tre motivazioni si sono pure sovrapposte.
            Perché dico questo? Perché nella distribuzione regionale o provinciale del voto si legge in qualche misura l’influenza di una certa fedeltà di indirizzo politico. Basti pensare al fatto che in Toscana, Emilia Romagna, in Umbria e nelle Marche, anche se in misura diversa, il peso elettorale del PD è evidente. Di converso, sul voto nel Veneto o in Lombardia si nota l’influenza della Lega Nord e di Forza Italia. In Piemonte, in Liguria, in Sicilia si nota a mio avviso l’impronta dei recenti successi del M5Stelle.
            L’enorme consenso al NO nel Sud Italia, nelle periferie delle città, nelle zone con emergenze sociali, con livelli di disoccupazione giovanile particolarmente alti, porta invece a mio parere il segno della rabbia e della protesta contro il peggioramento delle condizioni e delle chance di vita.
Non so quantificare bene le componenti di cui ho appena parlato, ma a spostare decisamente l’ago delle bilancia è stata, a mio avviso, la terza componente o, se si vuole, la terza  motivazione elettorale.  
Quanto al fatto che quello del 4 dicembre sia stato un chiaro voto di protesta rinvio a due articoli comparsi, rispettivamente sul sole24ore e su Goofynomics. Qui i link 1 e 2

            D ) Quello del 4 dicembre è stato anche, certamente, un referendum di svolta, sebbene sui generis. Cosa intendo con questo?
            Innanzitutto, ha in buona parte le caratteristiche di altri referendum che hanno segnato cesure sia in politica che nel sentire della gente. Penso a referendum come quello sul divorzio o sulla depenalizzazione dell’aborto, che hanno segnato un netto cambio di passo sulla strada della secolarizzazione nel nostro Paese.
Penso però anche al referendum del 1985 sull’abolizione della scala mobile (ovvero dell’adeguamento automatico di stipendi e salari al tasso d’inflazione, mediante il punto unico di contingenza). Secondo i punti di vista: una dolorosa perdita di influenza dei sindacati sulla politica e nella società italiana, oppure un avvicinamento agli standard europei nelle relazioni sociali, ovvero un colpo decisivo nella lotta all’inflazione in Italia.
Altro referendum-cesura fu quello sul nucleare, che sancì l’abbandono definitivo di questo modo per ottenere l’energia nel nostro Paese.
         Qui finiscono però, credo, le analogie. Emerge invece lo specifico di questo referendum. Non credo infatti che la lettura strettamente contenutistica, un pronunciamento in merito ad un certo quesito, sia quella giusta. Se indulgessimo a questa interpretazione, perderemmo di vista invece la lezione principale, che è a mio avviso riassumibile, forse in modo un po’ paradossale, così: si è chiesto qualcosa al popolo e questo ha risposto parlando d’altro, tirando fuori la rabbia per altre faccende, punendo il governo per promesse non mantenute, per esprimere diffidenza e un forte disagio, non vago, ma non del tutto chiaro. Non so se l’intenzione di delegittimare il Parlamento ed il Governo fosse esplicito o implicito in quelli che hanno fatto pendere il braccio della bilancia decisamente sul NO. Ma di fatto il risultato è quello.
            Aggiungo infine quello che credo sia un dato ancora più rilevante. Il NO è stato un voto ad altissima valenza politica europea, destinato addirittura a sconvolgere l’intero quadro politico europeo.
            Tanti sottolineano, dicendo tutto il male possibile di Renzi, che la gente ha cominciato ad odiarlo perché è o sarebbe un gaglioffo, un fanfarone, un decisionista che con arroganza scompagina il modo di fare politica. Forse c’è del vero in questo. Ma chiediamoci perché il Paese sarebbe passato rapidamente dal nutrire una certa speranza in lui ad aborrirlo? Il “rapidamente” è quel che mi interessa di più. Non viviamo in tempi normali, bensì siamo nell’anno sesto di recessione-stagnazione dell’economia del Paese. La nostra manifattura si è ridotta di quasi il 25% rispetto al 2007. L’Europa a trazione, ad egemonia tedesca, è giustamente sempre più percepita come nemica e causa o concausa di questi guai.
            Ebbene, in questo contesto, un giovanotto arrembante inizia a dire che con degli sforzi, con creatività e sacrifici (vedi Jobs act) è possibile rimettere la barca in sesto. Dopo un po’ inizia a dire che la barca ha già preso l’abbrivio ed incomincia a navigare bene. E fa questo quasi come se la narrazione sia un evento che si autorealizza. Il giovanotto non sa quasi nulla di economia e si affida ad una serie di economisti a cui personalmente mai mi rivolgerei, non perché siano degli incapaci, ma semplicemente perché sono dei sacerdoti di una pseudo-scienza: penso ai Perotti, ai Cottarelli, ai Padoan, ai Boeri. Sullo sfondo, poi, si stagliano le siluette, pretenziose e stupide, di un Giavazzi o di un Alesina. Tutta gente mainstream che ha contribuito a giustificare uno dei maggiori fallimenti nella storia economica, il ritorno alle regole di funzionamento del capitalismo di 100 anni fa, rinverdite e formulate in tanti bei modellini econometrici fallaci, cose con cui giocare come con i trenini in miniatura e a fare ciuf ciuf.
            Che fa la gente? Confronta la narrazione con la realtà. E lo fa con una certa impazienza. In fondo ne ha avuta fin troppa di pazienza, finora. Insomma, non dà più tempo al giovanotto e tira subito le somme. Il giovanotto resta vittima delle sue illusioni, ma anche degli errori o delle infingardaggini di quelli che lo hanno preceduto. Così si becca in faccia un bel 60% di NO. Forse circa un terzo di questo 60% è proprio da addebitare al recente fallimento della narrazione ottimistica. Questo è a mio avviso il dato più rilevante. Oggettivamente, prima facie quel NO non ha nulla a che fare con il progetto di riforma; soggettivamente ha a che fare con Renzi. Oggettivamente, ma nel profondo, ha a che vedere con l’Europa germanizzata, quella che per interessi a corto raggio, per ideologia, per pregiudizio o per arroganza, non solo ci offende e impoverisce, ma mette anche a repentaglio la nostra democrazia.

E ) Il referendum è stato indubbiamente anche una grande prova di democrazia e, in questo caso, della bontà dell’istituto referendario. Affermandolo, non mi unisco con un inchino acritico ai tanti retori dell’ovvio. Non credo affatto che la nostra democrazia sia così pura e sana come i nostri cantori dell’ idea platonica di democrazia ci vogliono far credere. No, la nostra democrazia per molti aspetti è già degenerata in oclocrazia.
Nel nostro sistema politico ed istituzionale, così come nella costituzione materiale del nostro Paese, nel modo in cui si articola l’opinione pubblica,  in cui lavorano i media, convivono democrazia, oclocrazia e oligarchia. Non è una novità. Semmai il problema è che gli ultimi due momenti hanno accresciuto maledettamente il loro peso. I due fenomeni più evidenti: la cagnara, amplificata dai media, con cui, nella babele dei linguaggi, troppe voci si levano a discettare, litigare, a propalare analisi e ricette facili (il perfetto terreno di cultura dell’oclocrazia); dal lato opposto, la museruola imposta ai media dai grandi finanzieri che li possiedono, circa la crisi della zona euro e più in generale dell’UE (oligarchia pura). Mai si è letto, ad esempio, in questi anni, negli organi del complesso finanziario-editoriale, un solo articolo che facesse una critica articolata ed esaustiva dell’euro quale moneta intrinsecamente votata a favorire certi paesi e a sfavorirne altri, ad arricchire certi ceti e ad impoverirne altri. Al massimo si sono sentite critiche alla cosiddetta governance dell’eurozona. Per leggere qualcosa di buono e veritiero si è dovuto ricorrere a blog e a riviste online.
Invece, questo referendum è stato un momento schiettamente democratico. Che altro è stato, aldilà della strumentalizzazione del tema, il referendum se non l’occasione, per ampi strati della popolazione, di articolare il proprio malcontento profondo per come stanno le cose? L’esito va interpretato come uno scossone al sistema politico per cambiare rotta. Non si può nemmeno pretendere che tutti quelli che hanno dato lo scossone, abbiano espresso la stessa posizione. Le posizioni politiche di tanta parte del NO mi ripugnano. A me interessa invece, nel referendum, il voto come protesta sociale, come invito a non farsi più guidare dalla tecnocrazia eurista, a riprendersi la sovranità nazionale.  
Dobbiamo anche essere soddisfatti dell’esistenza dell’istituto referendario, un momento importante della nostra democrazia. In questo siamo ad esempio in buona compagnia con i francesi, che lo hanno sperimentato abbondantemente prima di noi, prima in contesti populistico-plebiscitari (nell’ ottocento) e poi nel contesto della democrazia prima parlamentare e poi presidenziale. Le ultime costituzioni in Francia sono sempre state sottoposte a referendum popolare. Da noi non fu così, ma la Costituzione stessa ha previsto questo istituto, per abrogare leggi o per confermare, o cassare, modifiche della stessa Costituzione, qualora non votate da una maggioranza qualificata.


         F ) Insisto ancora sull’aspetto sociale del referendum. Dobbiamo riconoscere nella protesta la voce dei giovani che si vedono defraudati di chance che i loro genitori hanno avuto, dei disoccupati, dei precari a vita, dei lavoratori i cui salari sono calati in termini reali. È un dato di fatto che dalla metà degli anni novanta la quota dei redditi da lavoro dipendente è rapidamente calata la bellezza del 9% di PIL e non è più risalita. È pure un dato di fatto che tanti piccoli e medi imprenditori sono falliti o si sono trovati a vivacchiare, senza più la forza finanziaria per investire. Sono tanti disagi e malumori diversi, ma collegati da un Leitmotiv: l’impatto dell’Euro e dell’austerità sulla nostra economia.  
Sono stato un convintissimo assertore del SÌ. È stata persa un’occasione per una buona riforma, ma registro che un giusto malcontento e una giusta rabbia sono emersi. E visto come stanno le cose, è bene che siano emersi tutti in una volta, con un risultato non risicato. Il bubbone è scoppiato. Non ci sono più alibi per trovare soluzioni minimaliste o rabberciate, basate su compromessi fatti con il bilancino. Il referendum ha scompaginato le carte e può imprimere una svolta alla crisi del nostro Paese, così come al quadro europeo. Vanno fatte anche scelte rapide perché si è perso fin troppo tempo.
            Registro anche un’altra cosa, qui in Germania. Si sta ingrossando a vista d’occhio il partito di quanti, nella classe dirigente, e poco alla volta anche nella popolazione, affermano che l’economia italiana sia di per sé inadatta all’eurozona, avendo, così la tesi, bisogno di una moneta debole per vendere le proprie merci. Hanno iniziato a dirlo chiaro, un paio di mesi fa, economisti di gran peso come Thomas Meyer, H.W. Sinn, Ottmar Issing, preceduti dall’ineffabile e inossidabile Olaf Henkel. Così la pensano pure alla Bundesbank, così la pensa un influente consulente economico della Merkel come Lars Feld. In questi giorni si è unito al coro Clemens Fuest, successore di H.W. Sinn all’Ifo-Institut di Monaco. Le loro voci incominciano a trovare eco, in modo ancora un poco criptico, nei telegiornali. Tra l’altro, da mesi, quando i grandi giornali o i telegiornali scrivono o parlano del Quantitative easing di Draghi, non dicono semplicemente “Q.E.” ma “der umstrittene Q.E.”, cioè “il controverso (o contestato) Q.E.”. Questa è diventata ormai una formula di rito. E siccome hanno l’ipocrisia nel sangue, non dicono che è contestato dalla sola Germania, ma fanno intendere che nell’intera BCE ci siano grandi dissidi. Aggiungono poi, come giusto ieri sera, al Telegiornale delle 20:00, sul principale canale pubblico, che il senso di tutto ciò è la protezione di alcuni paesi fortemente indebitati. Non dicono nulla del tentativo di riportare l’inflazione al 2%, tacciono anche sul fatto che l’inflazione zero o la deflazione sono la conseguenza di troppa austerità. Insomma: gli spettatori vengono tenuti in un buio ideologico.
            Tutti costoro nascondono ovviamente anche la verità sul dumping salariale tedesco, santificato pure dai sindacati dei settori industriali, dumping che ha messo in ginocchio, in termini di competitività, tanta parte dell’industria francese e italiana. La loro supponenza, mascherata da ossequio alle pretese regole bronzee della loro religione ordo-liberista, li porta a concludere che i rischi per il risparmiatore ed il contribuente tedesco, le vere vacche sacre in questo Paese, sono troppo grossi con la presenza italiana nell’eurozona. Così alzano la posta. Ad esempio, suggeriscono in modo sempre più pressante che il nostro Paese si affidi alla Troika, oppure propongono di valutare in modo differente i titoli di stato dei vari paesi dell’€Z. Grosso modo, quelli tedeschi, al 100%, quelli italiani al 75% del loro valore nominale. Non solo. Hanno anche avanzato la proposta di mettere un tetto alla quota che le banche possono tenere di titoli del proprio Paese. Il tutto vien condito da un vera e propria disinformazione sullo stato delle nostre banche, che vengono sempre definite con il termine “marode” (“in rovina”) senza mai tematizzare da quando e perché lo sono o lo sarebbero. Non viene mai detto che all’inizio della crisi finanziaria le nostre banche non dovettero essere salvate, mentre ora, dopo sei anni di recessione, per la catena di insolvenze e le difficoltà del sistema produttivo, hanno in pancia tanti crediti deteriorati. Questo popolo di ricercatori e pensatori, di giornalisti così “gründlich” (“scrupolosi”, “che vanno al fondo delle cose”) non riesce nemmeno a porre la domanda del perché. Così si abusa della storia del Monte dei Paschi per condannare tutto il sistema bancario italiano, in quanto italiano. Ah se i tedeschi avessero almeno qualche grammo di cosmopolitismo nelle vene!
Andando avanti di questo passo, fra qualche mese – li conosco bene i miei polli – la storia dell’incompatibilità dell’Italia con l’Eurozona sarà diventata senso comune. Così avranno la coscienza a posto, se ci sarà un’uscita del nostro Paese dall’Euro. Sarà stata solo colpa nostra, nonostante la generosità di politici tedeschi e francesi del passato, troppo idealisti. Saranno dunque, di nuovo, i fasti dell’ipocrisia. Ma a far compagnia all’ipocrisia c´è l’incoscienza di credere che un’uscita dell’Italia (che trascinerebbe certamente dietro, come minimo, la Grecia e il Portogallo) sarebbe senza ulteriori conseguenze. Come possa la Francia cavarsela economicamente stretta tra un’economia italiana divenuta, dopo una svalutazione della moneta, rapidamente più concorrenziale e la corazzata dell’economia tedesca, resta un mistero. Alcuni dei cardinali dell’ordo-liberismo sanno che sarebbe impossibile e spingono oltre il loro pensiero, fino a concepire un ritorno del vecchio marco tedesco. E giungono alla conclusione che l’economia tedesca supererebbe senza tragedie o scossoni sconvolgenti anche questa prova. Io non ne sarei tanto sicuro. Ma c´è poco da fare, costoro sono entrati in un modus tremendamente autoreferenziale.

            Ho fatto questa lunga digressione per giungere a questa conclusione: occorre una svolta rapida e decisa nella politica italiana. Occorre un nuovo Parlamento, pienamente legittimato da nuove elezioni, per rappresentare meglio gli interessi del popolo italiano, per una svolta sovranista. Non mi sembra affatto sano lasciare che sia la classe dirigente tedesca a menare le danze. Dobbiamo prendere l’iniziativa.

G )  Questo è un momento di scelte nette, non di governi balneari. Va varato rapidamente un sistema elettorale dualistico, che porti cioè alla formazione di due blocchi alternativi. Un tripartitismo, o una contrapposizione tra tre blocchi con quasi lo stesso peso elettorale, non ce lo possiamo permettere. Questo per due ordini di motivi.  Da un lato perché dobbiamo concentrare le forze per fermare lo scadimento della nostra classe dirigente. Dall’altro perché le sfide sul fronte economico ed europeo sono da far tremare i polsi anche ai più coraggiosi.
Credo che non esistano sistemi elettorali buoni ovunque e per sempre. I sistemi elettorali devono calzare bene in base alla contingenza storica. Il proporzionale puro, con la frammentazione che conosciamo, ora sarebbe una follia. Anche sbarramenti del 3%, 4% o 5% servirebbero a poco. Sbarramenti al 15% non sarebbero tanto eleganti.
Il sistema maggioritario a circoscrizioni uninominali ci offrirebbe di nuovo un sistema frastagliato, con un sacco di forze minori che imporrebbero alcuni loro candidati per sostenere a livello nazionale una determinata coalizione o un determinato partito più grosso. Forze che, una volta entrate in Parlamento, condizionerebbero i partiti maggiori.
Non resta che affidarsi ad un sistema proporzionale, con degli sbarramenti all’entrata ed un premio di maggioranza a chi ha più voti, una volta superata una certa soglia. Se non fosse raggiunta la soglia, perché non il ballottaggio tra i due partiti o i due blocchi meglio piazzati? Eccoci giunti dunque all’Italicum. Grillo, fino a una settimana fa friniva fortissimo contro l’Italicum, tanto che non si sentiva più nemmeno il grugnito della scrofa ferita. Ora però, nel corso di una notte, ha cambiato idea, tant’è che invoca l’Italicum. Se leggesse queste righe sarebbe contento. E io con lui, perché penso che non ce la farebbe a spuntarla. Ma se la spuntasse, sarebbe una cosa democratica, o, se si vuole, oclocratica. In definitiva, se così il popolo volesse, nulla da eccepire.


Heidelberg, 9 / 12 / 2016

Beppe Vandai


per

Volta La Carta!! e. V. – Heidelberg

http://voltalacartaheidelberg.blogspot.de




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