[Riflessioni di Beppe
Vandai]
Anche se non si vede, queste riflessioni sono
listate a lutto, il lutto per una buona riforma costituzionale bocciata dall’elettorato.
Niente paura però, si tratta di un lutto già elaborato… di chi già guarda
avanti.
Scrivo queste
note dopo la discussione di mercoledì sera in Volta La Carta!!, seguendo la
falsariga della mia relazione e recependo anche alcune interessanti osservazioni
fatte da altri voltacartisti. Cercherò
anche di suddividere nel modo più chiaro possibile il mio ragionamento.
* * *
A ) Un dramma
democratico si è consumato. Il corpo elettorale ha pronunciato un verdetto
inequivocabile, contrario a quello espresso dalla maggioranza parlamentare.
Siamo cioè di fronte ad una delegittimazione di fatto del Parlamento, oltre che
del Governo. Le dimissioni di Renzi sono dunque una logica conseguenza, nel
gioco democratico. Si pone però anche la questione di come questo parlamento
possa restare in carica.
Non sono un
costituzionalista, tanto meno un comparatista del diritto costituzionale. Credo
però che, ora, dopo il referendum, la questione della legittimità di questo
parlamento vada sollevata. Infatti, una riforma costituzionale di un notevole
portata, votata per tre volte sia dalla Camera che dal Senato, è stata
sonoramente bocciata dal corpo elettorale. Le dimensioni del NO suonano come un
vero ceffone.
Non abbiamo mai
sperimentato qualcosa di simile. Infatti la bocciatura della riforma
costituzionale del 2006 avvenne dopo il termine della XIV legislatura, quella
in cui era stata proposta la modifica costituzionale
berlusconiano-bossiana-finiana. Non sussisteva più la questione della
legittimità di un parlamento in carica.
So anche che la
Costituzione non prevede affatto lo scioglimento del Parlamento in caso di
bocciatura referendaria di una riforma costituzionale. Penso però che il
contesto politico in cui questa è avvenuta il problema lo ponga. Faccio un
esempio dall’estero. Quando in Francia l’assemblea costituente, eletta
nell’ottobre del 1945, propose all’elettorato di approvare la nuova
Costituzione al referendum del maggio 1946, questo la bocciò. In seguito, nel
settembre dello stesso anno, venne eletta dal popolo una seconda Assemblea
costituente, che elaborò un nuovo testo, che fu invece approvato, nell’ottobre
del 1946. D’accordo, si trattava di assemblee costituenti. Ma i francesi furono
assai cartesiani e conseguenti. Non rimisero la formulazione della nuova
costituzione nelle mani della stessa Assemblea. Il corpo elettorale fu chiamato
ad eleggerne una nuova. Non sarebbe saggio, pur in un contesto diverso, che noi
facessimo altrettanto?
A mio avviso, il
quadro parlamentare andrebbe resettato, anche se il senso complessivo del verdetto
referendario è ben più complesso della bocciatura della riforma costituzionale.
Mi pare che ci sia anche dell’altro. E visto che c’è un ammassarsi di problemi
irrisolti, a maggior ragione, una cesura mi pare necessaria. Ma su questo
tornerò fra poco.
B ) Non entro
troppo nel merito sul modo in cui è stata condotta la campagna referendaria.
Due cose indigeribili però mi sono rimaste sul gozzo. Due cose serviteci da
tanti sostenitori del NO.
Sul
voto estero sono state espresse insinuazioni e dubbi degni dei
bassifondi della politica. Si è messa in dubbio la legittimità del voto degli
italiani all’estero. Molte persone apparentemente intelligenti si sono chieste
perché gli italiani residenti all’estero abbiano il diritto di decidere anche per
gli indigeni. Risposta: perché così vuole la Costituzione repubblicana nata
dalla Resistenza. Ogni cittadino italiano ha sempre avuto questo diritto. Un
tempo, per decenni, l’elettore doveva rientrare in Italia, nel paese d’origine.
Il viaggio dal confine italiano alla circoscrizione elettorale era perciò a
carico dello Stato. Da alcune elezioni invece si esprime il voto per posta,
inviando la scheda al consolato competente. Anche se proposta da Mirko
Tremaglia, noto neofascista, questo modo di esprimere il voto corrisponde agli
standard ormai in vigore in tanti paesi occidentali.
Particolarmente
disgustoso è stato anche il fatto che a mettere in dubbio questa legittimità
siano state persone che invece, nel 2006, avevano salutato con gioia il voto
degli italiani all’estero, allorché diede una maggioranza, seppur risicata, al
centro-sinistra di Prodi. Ora, però, contrordine compagni! Siccome il voto
all’estero poteva essere sfavorevole, si è cercato di demonizzarlo. Che dire di
questo? È un esempio eclatante di immaturità democratica. Si sa, i bambini
tendono a contraddirsi. Adulti che fanno lo stesso, hanno qualcosa di
bambinesco. Beati loro!
Ma
non è ancora tutto. Sono girate voci che la famosa lettera di Renzi fosse stata
spedita dentro ai plichi elettorali, o assieme ad essi, e che le spese di
spedizione fossero a carico dello Stato. Pure falsità entrambe. Che dire? Vedi
sopra.
Un’ulteriore
annotazione: si è gridato che il voto sarebbe stato influenzato da strane
camarille. Non conosco la situazione né in Sud né in Nord America, parlo di
quel che conosco abbastanza, cioè per l’Europa. Credo che non ci sia stato
nulla di irregolare. Non solo. Il voto ha rispecchiato grosso modo, a mio
avviso, il tipo di elettorato che si è stratificato nei decenni. Gli elettori
italiani sono ancora in buona parte quanti sono emigrati nella prima ondata
degli anni sessanta e settanta, con l’annesso importante dei loro discendenti.
Uno spaccato di
questa realtà l’ho conosciuto ad un’assemblea tenuta a Mannheim il 24 novembre
scorso. I partecipanti erano quasi tutti pensionati, assieme ai loro familiari,
tutti di origine meridionale, per lo più ex dipendenti della John Deer (trattori)
o della Daimler-Benz (sezione motori per i camion) o ex edili. A questi si
aggiungevano lavoratori più giovani, occupati nel settore manifatturiero. Ebbene,
il discorso prevalente tra di loro era questo: qui in Germania abbiamo potuto
apprezzare il valore aggiunto che la continuità di governo e la conseguente
efficienza può dare alla democrazia. Alcuni dicevano con orgoglio di avere
fatto la tessera del PCI verso la fine degli anni cinquanta, e di tenerla
ancora nel cassetto, ma che i tempi erano cambiati da allora, che l’Italia, per
come stanno le cose in Europa, doveva fare sentire la sua voce diventando più
autorevole ed efficiente. Perciò erano per il SÌ.
Un
ex operaio della John Deer se la prendeva, usando parole anche forti, con il
senatore Micheloni, deputato del PD, originario di Zurigo, eletto nella
circoscrizione europea che accorpa Svizzera e Germania, che aveva preso
posizione e faceva campagna per il NO.
Ora
sappiamo come è andata in Svizzera. Al referendum ha votato circa il 40% degli
aventi diritto (niente male) ed il SÌ ha ottenuto il 64,25% dei suffragi. Micheloni
può salutare il suo seggio nella prossima legislatura, anche se il Senato
resterà.
A
parte tutto questo. In Europa il SÍ ha raccolto il 62,54% dei suffragi.
Come mai un risultato tanto in controtendenza rispetto all’esito nella
Penisola? Credo per due motivi: a ) all’estero gli italiani hanno votato
soprattutto nel merito della riforma, non per la sua valenza politica, b ) gli
italiani all’estero avevano e hanno come termine di paragone le altre democrazie
europee, di certo dotate di istituzioni più razionali ed efficienti. Anche per
questo altri paesi dell’UE ci fanno regolarmente le scarpe.
Passo
all’altro rospo in gola. Il fronte del NO ha strumentalizzato l’ANPI (Associazione
nazionale partigiani d’Italia). Personalmente, questa cosa non gliela
perdonerò m a i .
Infatti, il
Comitato nazionale, presieduto dal prof. Smuraglia, ha preso posizione per il
NO, creando di fatto un’analogia tra il fronte fascismo / antifascismo e quello
tra favorevoli alla riforma costituzionale / avversari della stessa. Questo ha
dato la stura ad una narrazione non solo falsa, ma anche idiota sul referendum
costituzionale: quella secondo la quale si doveva bloccare una svolta autoritaria.
Così si è visto un pullulare su vari siti locali dell’ANPI di discorsi che
avevano il tono della contrapposizione amico/nemico tanto cara a quel
semi-nazista di Carl Schmitt (a sua volta tanto caro a quel confusionario di
Cacciari) per il quale proprio quella contrapposizione è il succo ed il senso
della politica.
Facciamo
invece mente locale. La lotta partigiana ha avuto sì una forte impronta di
sinistra, settore politico in cui mi identifico, ma è stata condotta da uno
spettro assai variegato di tendenze politiche. Questo, Smuraglia dovrebbe
saperlo. Vedere comunque a questo link dell’ANPI.
Non solo. Campioni
dell’antifascismo come Piero Calamanderi (un azionista) proposero all’Assemblea
costituente il modello presidenziale, poi bocciato. Un modello che, secondo il
metro dei neo-garibaldini alla Smuraglia, dovrebbe essere iper-autoritario.
Attenzione a non mandare in acqua il cervello!
* * *
Detto questo, torniamo
alla valutazione dell’esito del referendum.
C ) Il risultato
è piuttosto chiaro. *Una parte dell’elettorato ha votato nel merito, **un’altra
esprimendo un voto di partito, ***una terza parte ha dato voce alla rabbia,
alla protesta politica o sociale, ha
voluto bocciare la politica del governo, Renzi in persona, il PD, la classe
dirigente italiana ed europea. Per alcuni elettori, poi le tre motivazioni si
sono pure sovrapposte.
Perché
dico questo? Perché nella distribuzione regionale o provinciale del voto si
legge in qualche misura l’influenza di una certa fedeltà di indirizzo politico.
Basti pensare al fatto che in Toscana, Emilia Romagna, in Umbria e nelle
Marche, anche se in misura diversa, il peso elettorale del PD è evidente. Di
converso, sul voto nel Veneto o in Lombardia si nota l’influenza della Lega
Nord e di Forza Italia. In Piemonte, in Liguria, in Sicilia si nota a mio
avviso l’impronta dei recenti successi del M5Stelle.
L’enorme
consenso al NO nel Sud Italia, nelle periferie delle città, nelle zone con
emergenze sociali, con livelli di disoccupazione giovanile particolarmente
alti, porta invece a mio parere il segno della rabbia e della protesta contro
il peggioramento delle condizioni e delle chance di vita.
Non so
quantificare bene le componenti di cui ho appena parlato, ma a spostare
decisamente l’ago delle bilancia è stata, a mio avviso, la terza componente o,
se si vuole, la terza motivazione
elettorale.
Quanto al fatto
che quello del 4 dicembre sia stato un chiaro voto di protesta rinvio a due
articoli comparsi, rispettivamente sul sole24ore
e su Goofynomics. Qui i link 1 e 2.
D
) Quello del 4 dicembre è stato anche, certamente, un referendum di svolta,
sebbene sui generis. Cosa intendo con
questo?
Innanzitutto,
ha in buona parte le caratteristiche di altri referendum che hanno segnato
cesure sia in politica che nel sentire della gente. Penso a referendum come
quello sul divorzio o sulla depenalizzazione dell’aborto, che hanno segnato un
netto cambio di passo sulla strada della secolarizzazione nel nostro Paese.
Penso però anche
al referendum del 1985 sull’abolizione della scala mobile (ovvero
dell’adeguamento automatico di stipendi e salari al tasso d’inflazione,
mediante il punto unico di contingenza). Secondo i punti di vista: una dolorosa
perdita di influenza dei sindacati sulla politica e nella società italiana,
oppure un avvicinamento agli standard europei nelle relazioni sociali, ovvero
un colpo decisivo nella lotta all’inflazione in Italia.
Altro
referendum-cesura fu quello sul nucleare, che sancì l’abbandono definitivo di
questo modo per ottenere l’energia nel nostro Paese.
Qui
finiscono però, credo, le analogie. Emerge invece lo specifico di questo
referendum. Non credo infatti che la lettura strettamente contenutistica, un
pronunciamento in merito ad un certo quesito, sia quella giusta. Se
indulgessimo a questa interpretazione, perderemmo di vista invece la lezione
principale, che è a mio avviso riassumibile, forse in modo un po’ paradossale,
così: si è chiesto qualcosa al popolo e questo ha risposto parlando d’altro,
tirando fuori la rabbia per altre faccende, punendo il governo per promesse non
mantenute, per esprimere diffidenza e un forte disagio, non vago, ma non del
tutto chiaro. Non so se l’intenzione di delegittimare il Parlamento ed il
Governo fosse esplicito o implicito in quelli che hanno fatto pendere il
braccio della bilancia decisamente sul NO. Ma di fatto il risultato è quello.
Aggiungo
infine quello che credo sia un dato ancora più rilevante. Il NO è stato un voto
ad altissima valenza politica europea, destinato addirittura a sconvolgere
l’intero quadro politico europeo.
Tanti
sottolineano, dicendo tutto il male possibile di Renzi, che la gente ha
cominciato ad odiarlo perché è o sarebbe un gaglioffo, un fanfarone, un
decisionista che con arroganza scompagina il modo di fare politica. Forse c’è
del vero in questo. Ma chiediamoci perché il Paese sarebbe passato rapidamente
dal nutrire una certa speranza in lui ad aborrirlo? Il “rapidamente” è quel che
mi interessa di più. Non viviamo in tempi normali, bensì siamo nell’anno sesto
di recessione-stagnazione dell’economia del Paese. La nostra manifattura si è
ridotta di quasi il 25% rispetto al 2007. L’Europa a trazione, ad egemonia
tedesca, è giustamente sempre più percepita come nemica e causa o concausa di
questi guai.
Ebbene,
in questo contesto, un giovanotto arrembante inizia a dire che con degli
sforzi, con creatività e sacrifici (vedi Jobs act) è possibile rimettere la
barca in sesto. Dopo un po’ inizia a dire che la barca ha già preso l’abbrivio
ed incomincia a navigare bene. E fa questo quasi come se la narrazione sia un
evento che si autorealizza. Il giovanotto non sa quasi nulla di economia e si
affida ad una serie di economisti a cui personalmente mai mi rivolgerei, non
perché siano degli incapaci, ma semplicemente perché sono dei sacerdoti di una
pseudo-scienza: penso ai Perotti, ai Cottarelli, ai Padoan, ai Boeri. Sullo
sfondo, poi, si stagliano le siluette, pretenziose e stupide, di un Giavazzi o
di un Alesina. Tutta gente mainstream
che ha contribuito a giustificare uno dei maggiori fallimenti nella storia
economica, il ritorno alle regole di funzionamento del capitalismo di 100 anni
fa, rinverdite e formulate in tanti bei modellini econometrici fallaci, cose
con cui giocare come con i trenini in miniatura e a fare ciuf ciuf.
Che
fa la gente? Confronta la narrazione con la realtà. E lo fa con una certa
impazienza. In fondo ne ha avuta fin troppa di pazienza, finora. Insomma, non
dà più tempo al giovanotto e tira subito le somme. Il giovanotto resta vittima
delle sue illusioni, ma anche degli errori o delle infingardaggini di quelli
che lo hanno preceduto. Così si becca in faccia un bel 60% di NO. Forse circa
un terzo di questo 60% è proprio da addebitare al recente fallimento della
narrazione ottimistica. Questo è a mio avviso il dato più rilevante.
Oggettivamente, prima facie quel NO
non ha nulla a che fare con il progetto di riforma; soggettivamente ha a che
fare con Renzi. Oggettivamente, ma nel profondo, ha a che vedere con l’Europa
germanizzata, quella che per interessi a corto raggio, per ideologia, per
pregiudizio o per arroganza, non solo ci offende e impoverisce, ma mette anche a
repentaglio la nostra democrazia.
E ) Il referendum
è stato indubbiamente anche una grande prova di democrazia e, in questo caso,
della bontà dell’istituto referendario. Affermandolo, non mi unisco con un
inchino acritico ai tanti retori dell’ovvio. Non credo affatto che la nostra
democrazia sia così pura e sana come i nostri cantori dell’ idea platonica di
democrazia ci vogliono far credere. No, la nostra democrazia per molti aspetti
è già degenerata in oclocrazia.
Nel nostro
sistema politico ed istituzionale, così come nella costituzione materiale del
nostro Paese, nel modo in cui si articola l’opinione pubblica, in cui lavorano i media, convivono democrazia,
oclocrazia e oligarchia. Non è una novità. Semmai il problema è che gli ultimi due
momenti hanno accresciuto maledettamente il loro peso. I due fenomeni più
evidenti: la cagnara, amplificata dai media, con cui, nella babele dei
linguaggi, troppe voci si levano a discettare, litigare, a propalare analisi e
ricette facili (il perfetto terreno di cultura dell’oclocrazia); dal lato
opposto, la museruola imposta ai media dai grandi finanzieri che li possiedono,
circa la crisi della zona euro e più in generale dell’UE (oligarchia pura). Mai
si è letto, ad esempio, in questi anni, negli organi del complesso
finanziario-editoriale, un solo articolo che facesse una critica articolata ed
esaustiva dell’euro quale moneta intrinsecamente votata a favorire certi paesi
e a sfavorirne altri, ad arricchire certi ceti e ad impoverirne altri. Al
massimo si sono sentite critiche alla cosiddetta governance dell’eurozona. Per leggere qualcosa di buono e veritiero
si è dovuto ricorrere a blog e a riviste online.
Invece, questo
referendum è stato un momento schiettamente democratico. Che altro è stato,
aldilà della strumentalizzazione del tema, il referendum se non l’occasione,
per ampi strati della popolazione, di articolare il proprio malcontento
profondo per come stanno le cose? L’esito va interpretato come uno scossone al
sistema politico per cambiare rotta. Non si può nemmeno pretendere che tutti
quelli che hanno dato lo scossone, abbiano espresso la stessa posizione. Le
posizioni politiche di tanta parte del NO mi ripugnano. A me interessa invece,
nel referendum, il voto come protesta sociale, come invito a non farsi più guidare
dalla tecnocrazia eurista, a riprendersi la sovranità nazionale.
Dobbiamo anche
essere soddisfatti dell’esistenza dell’istituto referendario, un momento
importante della nostra democrazia. In questo siamo ad esempio in buona
compagnia con i francesi, che lo hanno sperimentato abbondantemente prima di
noi, prima in contesti populistico-plebiscitari (nell’ ottocento) e poi nel
contesto della democrazia prima parlamentare e poi presidenziale. Le ultime
costituzioni in Francia sono sempre state sottoposte a referendum popolare. Da
noi non fu così, ma la Costituzione stessa ha previsto questo istituto, per
abrogare leggi o per confermare, o cassare, modifiche della stessa
Costituzione, qualora non votate da una maggioranza qualificata.
F ) Insisto
ancora sull’aspetto sociale del referendum. Dobbiamo riconoscere nella protesta
la voce dei giovani che si vedono defraudati di chance che i loro genitori
hanno avuto, dei disoccupati, dei precari a vita, dei lavoratori i cui salari sono
calati in termini reali. È un dato di fatto che dalla metà degli anni novanta
la quota dei redditi da lavoro dipendente è rapidamente calata la bellezza del
9% di PIL e non è più risalita. È pure un dato di fatto che tanti piccoli e
medi imprenditori sono falliti o si sono trovati a vivacchiare, senza più la
forza finanziaria per investire. Sono tanti disagi e malumori diversi, ma
collegati da un Leitmotiv: l’impatto dell’Euro e dell’austerità sulla nostra
economia.
Sono stato un
convintissimo assertore del SÌ. È stata persa un’occasione per una buona riforma,
ma registro che un giusto malcontento e una giusta rabbia sono emersi. E visto
come stanno le cose, è bene che siano emersi tutti in una volta, con un
risultato non risicato. Il bubbone è scoppiato. Non ci sono più alibi per
trovare soluzioni minimaliste o rabberciate, basate su compromessi fatti con il
bilancino. Il referendum ha scompaginato le carte e può imprimere una svolta
alla crisi del nostro Paese, così come al quadro europeo. Vanno fatte anche
scelte rapide perché si è perso fin troppo tempo.
Registro
anche un’altra cosa, qui in Germania. Si sta ingrossando a vista d’occhio il
partito di quanti, nella classe dirigente, e poco alla volta anche nella
popolazione, affermano che l’economia italiana sia di per sé inadatta
all’eurozona, avendo, così la tesi, bisogno di una moneta debole per vendere le
proprie merci. Hanno iniziato a dirlo chiaro, un paio di mesi fa, economisti di
gran peso come Thomas Meyer, H.W. Sinn, Ottmar Issing, preceduti dall’ineffabile
e inossidabile Olaf Henkel. Così la pensano pure alla Bundesbank, così la pensa
un influente consulente economico della Merkel come Lars Feld. In questi giorni
si è unito al coro Clemens Fuest, successore di H.W. Sinn all’Ifo-Institut di
Monaco. Le loro voci incominciano a trovare eco, in modo ancora un poco
criptico, nei telegiornali. Tra l’altro, da mesi, quando i grandi giornali o i
telegiornali scrivono o parlano del Quantitative
easing di Draghi, non dicono semplicemente “Q.E.” ma “der umstrittene Q.E.”,
cioè “il controverso (o contestato) Q.E.”. Questa è diventata ormai una formula
di rito. E siccome hanno l’ipocrisia nel sangue, non dicono che è contestato
dalla sola Germania, ma fanno intendere che nell’intera BCE ci siano grandi
dissidi. Aggiungono poi, come giusto ieri sera, al Telegiornale delle 20:00,
sul principale canale pubblico, che il senso di tutto ciò è la protezione di
alcuni paesi fortemente indebitati. Non dicono nulla del tentativo di riportare
l’inflazione al 2%, tacciono anche sul fatto che l’inflazione zero o la
deflazione sono la conseguenza di troppa austerità. Insomma: gli spettatori
vengono tenuti in un buio ideologico.
Tutti
costoro nascondono ovviamente anche la verità sul dumping salariale tedesco,
santificato pure dai sindacati dei settori industriali, dumping che ha messo in
ginocchio, in termini di competitività, tanta parte dell’industria francese e
italiana. La loro supponenza, mascherata da ossequio alle pretese regole
bronzee della loro religione ordo-liberista, li porta a concludere che i rischi
per il risparmiatore ed il contribuente tedesco, le vere vacche sacre in questo
Paese, sono troppo grossi con la presenza italiana nell’eurozona. Così alzano
la posta. Ad esempio, suggeriscono in modo sempre più pressante che il nostro
Paese si affidi alla Troika, oppure propongono di valutare in modo differente i
titoli di stato dei vari paesi dell’€Z. Grosso modo, quelli tedeschi, al 100%,
quelli italiani al 75% del loro valore nominale. Non solo. Hanno anche avanzato
la proposta di mettere un tetto alla quota che le banche possono tenere di
titoli del proprio Paese. Il tutto vien condito da un vera e propria
disinformazione sullo stato delle nostre banche, che vengono sempre definite
con il termine “marode” (“in rovina”)
senza mai tematizzare da quando e perché lo sono o lo sarebbero. Non viene mai
detto che all’inizio della crisi finanziaria le nostre banche non dovettero
essere salvate, mentre ora, dopo sei anni di recessione, per la catena di
insolvenze e le difficoltà del sistema produttivo, hanno in pancia tanti
crediti deteriorati. Questo popolo di ricercatori e pensatori, di giornalisti
così “gründlich” (“scrupolosi”, “che
vanno al fondo delle cose”) non riesce nemmeno a porre la domanda del perché.
Così si abusa della storia del Monte dei Paschi per condannare tutto il sistema
bancario italiano, in quanto italiano. Ah se i tedeschi avessero almeno qualche
grammo di cosmopolitismo nelle vene!
Andando avanti
di questo passo, fra qualche mese – li conosco bene i miei polli – la storia
dell’incompatibilità dell’Italia con l’Eurozona sarà diventata senso comune. Così
avranno la coscienza a posto, se ci sarà un’uscita del nostro Paese dall’Euro. Sarà
stata solo colpa nostra, nonostante la generosità di politici tedeschi e
francesi del passato, troppo idealisti. Saranno dunque, di nuovo, i fasti
dell’ipocrisia. Ma a far compagnia all’ipocrisia c´è l’incoscienza di credere
che un’uscita dell’Italia (che trascinerebbe certamente dietro, come minimo, la
Grecia e il Portogallo) sarebbe senza ulteriori conseguenze. Come possa la
Francia cavarsela economicamente stretta tra un’economia italiana divenuta,
dopo una svalutazione della moneta, rapidamente più concorrenziale e la
corazzata dell’economia tedesca, resta un mistero. Alcuni dei cardinali
dell’ordo-liberismo sanno che sarebbe impossibile e spingono oltre il loro
pensiero, fino a concepire un ritorno del vecchio marco tedesco. E giungono
alla conclusione che l’economia tedesca supererebbe senza tragedie o scossoni
sconvolgenti anche questa prova. Io non ne sarei tanto sicuro. Ma c´è poco da
fare, costoro sono entrati in un modus
tremendamente autoreferenziale.
Ho
fatto questa lunga digressione per giungere a questa conclusione: occorre una
svolta rapida e decisa nella politica italiana. Occorre un nuovo Parlamento,
pienamente legittimato da nuove elezioni, per rappresentare meglio gli
interessi del popolo italiano, per una svolta sovranista. Non mi sembra affatto
sano lasciare che sia la classe dirigente tedesca a menare le danze. Dobbiamo
prendere l’iniziativa.
G ) Questo è un momento di scelte nette, non di governi
balneari. Va varato rapidamente un sistema elettorale dualistico, che porti
cioè alla formazione di due blocchi alternativi. Un tripartitismo, o una
contrapposizione tra tre blocchi con quasi lo stesso peso elettorale, non ce lo
possiamo permettere. Questo per due ordini di motivi. Da un lato perché dobbiamo concentrare le
forze per fermare lo scadimento della nostra classe dirigente. Dall’altro
perché le sfide sul fronte economico ed europeo sono da far tremare i polsi
anche ai più coraggiosi.
Credo che non
esistano sistemi elettorali buoni ovunque e per sempre. I sistemi elettorali
devono calzare bene in base alla contingenza storica. Il proporzionale puro,
con la frammentazione che conosciamo, ora sarebbe una follia. Anche sbarramenti
del 3%, 4% o 5% servirebbero a poco. Sbarramenti al 15% non sarebbero tanto
eleganti.
Il sistema
maggioritario a circoscrizioni uninominali ci offrirebbe di nuovo un sistema
frastagliato, con un sacco di forze minori che imporrebbero alcuni loro
candidati per sostenere a livello nazionale una determinata coalizione o un
determinato partito più grosso. Forze che, una volta entrate in Parlamento,
condizionerebbero i partiti maggiori.
Non resta che
affidarsi ad un sistema proporzionale, con degli sbarramenti all’entrata ed un
premio di maggioranza a chi ha più voti, una volta superata una certa soglia. Se
non fosse raggiunta la soglia, perché non il ballottaggio tra i due partiti o i
due blocchi meglio piazzati? Eccoci giunti dunque all’Italicum. Grillo, fino a
una settimana fa friniva fortissimo contro l’Italicum, tanto che non si sentiva
più nemmeno il grugnito della scrofa ferita. Ora però, nel corso di una notte,
ha cambiato idea, tant’è che invoca l’Italicum. Se leggesse queste righe
sarebbe contento. E io con lui, perché penso che non ce la farebbe a spuntarla.
Ma se la spuntasse, sarebbe una cosa democratica, o, se si vuole, oclocratica.
In definitiva, se così il popolo volesse, nulla da eccepire.
Heidelberg,
9 / 12 / 2016
Beppe
Vandai
per
Volta
La Carta!! e. V. – Heidelberg
http://voltalacartaheidelberg.blogspot.de
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