A P P U N T I
tratti da Nazionalizzazione
della politica e politicizzazione della nazione ( I dilemmi della classe dirigente nell’ Italia liberale ), di
Fulvio CAMMARANO, pp. 139 – 163,
di Dalla
città alla nazione ( Borghesie
ottocentesche in Italia e Germania ) a cura di M. MERIGGI e P. SCHIERA,
Quaderno 36 degli
Annali dell’ Istituto storico italo-germanico, Bologna 1993.
–––– P. 139
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Non c’ è nazione
matura senza che si sia affermato un sistema politico sufficientemente
articolato in due sensi, cioè
a ) quale sistema
di rapporti istituzionalizzati che sia staccato dalla società civile,
b ) quale sistema
di potere legittimo ed efficace che istituzionalizzi, medi e regoli le dinamiche
e i contrasti sociali.
In una nazione
matura vige il primato indiscusso del politico, mediante il quale i
rapporti sociali e interumani della più varia specie acquistano il valore di legami
politici formali regolati da una costituzione.
Due sono i poli
attorno ai quali si svolge e si compie il processo che conduce alla nazione
matura:
I ) La nazionalizzazione della politica =
la politica ha nello stato nazionale un unico punto di riferimento istituzionale.
Integrazione del consenso nell’ ambito nazionale.
II ) La politicizzazione
della nazione = la società civile si articola politicamente e interagisce,
per tramite dei partiti politici, in modo proprio ed adeguato con lo Stato.
–––– Pp. 140 / 141 ––––
Non basta che
esistano lo stato nazionale ed il mercato unico affinché si possa
compiere il processo della politicizzazione della nazione ( ovvero: formazione
di un sistema politico che regoli le spinte ed i contrasti della società civile
nel quadro di una costituzione ).
In Italia
mancarono nel liberalismo postunitario la coscienza e la volontà di far sì che
il Paese si articolasse in modo tale da avere, nei suoi segmenti, una
rappresentatività nel sistema politico nazionale. Mancò cioè un’
effettiva volontà costituente. A tutti i liberali, in primis alla Destra
Storica, ogni istanza popolare parve un’ agitazione antisistema.
–––– P. 142
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Il dilemma in cui
si dibatteva la classe politica liberale era questo:
a ) si voleva
diffondere l’ “educazione alla libertà”, ma per far ciò bisognava includere le
masse popolari, e questo – per i nostri liberali – era un grosso guaio,
b ) si voleva
conservare il sistema politico liberale così come esso era, ma per far ciò si
dovevano escludere le masse popolari, e pure questo era un guaio, anche se in
senso diametralmente opposto.
Si optò per ( b ). Ergo: si ebbe
1 ) il “rifiuto
liberale del partito come strumento di intervento politico di parte” e
2 ) la
“conseguente scelta di larghi settori della borghesia italiana di quel potere
indiretto e situazionale rappresentato dallo stato e dalla sua amministrazione
“.
–––– P. 143
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“ Il
parlamentarismo diventa paradossalmente l’ emblema del frazionamento geografico
e dell’ ‘impotenza’ politica della borghesia nazionale.”.
Buona parte del
ceto intellettuale finisce per identificare il parlamento con il regno delle
‘miserie’ particolaristiche.
–––– P. 144
––––
Era profonda
convinzione della classe dirigente liberale “che i partiti avrebbero potuto
causare il deperimento delle istituzioni liberali (…) che il processo di politicizzazione della
nazione avrebbe preso le sembianze di un inarrestabile moto di trasformazione
sociale e di legittimazione della ‘protesta’ se non addirittura delle
pericolose ‘subculture emergenti’ “.
–––– P. 145 / 146
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“Le invocazioni
(…) alla patria, alla scienza, all’ amministrazione, non sono solo speranze di
neutralizzazione della conflittualità politica all’ interno della società ma
indicano le radici di una cultura della borghesia italiana che ha già espunto
l’ istituzionalizzazione della politica dal proprio orizzonte formativo”.
“ Per Nitti gli
stessi ‘ riformisti, di cui i radicali sono la frazione più avanzata, sono
essenzialmente conservatori ‘ “.
–––– P. 147
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Per i liberali di
allora la sfera del politico coincide con lo Stato quale meccanismo di gestione
del diritto positivo vigente per la comunità nazionale.
I nostri liberali
non avevano affatto un approccio giusnaturalistico ( né di tipo
contrattualistico né individualistico ) alla fondazione dello stato di diritto
o dei diritti sociali. Pertanto era loro estranea ogni spinta
costituzionalistica.
Volevano
sterilizzare ogni radicalismo e superare le divergenze di interessi degli
individui e dei gruppi sociali ‘fondendo il popolo’ nella ‘chimica’ dello
stato-nazione.
Quello che dovrebbe
essere il compito della mediazione politica viene surrogato dalla gestione
amministrativa. In un certo senso i liberali pensavano che lo stato avrebbe
‘fatto la nazione’.
–––– P. 148 / 149
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Nelle ossa della
borghesia italiana di quel tempo abitava un timore paralizzante nei confronti
dell’ autorità e autorevolezza, della presa sul paese, del papato. Non
solo. Anche le tendenze garibaldine e mazziniane erano fortemente
temute.
Le conseguenze:
a ) il trasformismo,
b ) il tentativo
di recepire le istanze dal basso in modo particolaristico e clientelare.
–––– P. 150
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“ Il sistema
elettorale emerso con la riforma del 1882 (…) sembra indirizzato alla
cooptazione di nuovi e ben individuati spezzoni di elettorato, espressioni di
una società civile in movimento “.
–––– P. 151 / 153
––––
Il modello liberale
post-risorgimentale non prevede l’ istituzionalizzazione dei conflitti sociali
e considera partiti che dovessero sorgere dalla società civile come entità extralegali.
Con l’ emergere della associazioni socialiste e la fondazione del PSI ( 1992 ) il
liberalismo si vede persino costretto ad agire ‘contro natura’, a dover
accentuare “ il peso dell’ intervento
statale in campo sociale e dunque quello della normativa amministrativa “.
“ La
politicizzazione del paese viene a tutti gli effetti considerata un problema da
risolvere, sintomo di crisi…”
–––– P. 154 / 155
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Crispi non vedrà nessuna alternativa ad
accentuare l’ interventismo statale, non entrando nel suo ordine mentale l’
idea di un allargamento della base politica del paese, né una rifondazione
costituzionale della nazione. Per di più non poteva usare i classici intrumenta
regni della ‘religione’ e della ‘patria’ ( quest’ ultimo occupato dalla
‘pericolose’ tendenze mazziniane ).
Ma lo statalismo
crispino creò malumore soprattutto nella borghesia settentrionale, favorendo un
suo distacco dalla classe di governo.
Del resto il
sistema politico di quel tempo non brillava di certo per i fermenti innovatori.
Era un “ sistema in cui ‘ pochi amano apparire oppositori al Governo’ e ‘pressoché tutti’ sono eletti ‘per le
aderenze personali nei collegi‘ “.
Ai ceti dirigenti
liberali era estranea l’ idea della politica come conflittualità. Infatti
“ se per moderati
e conservatori la politica assume
significato razionale solo in quanto riflesso dell’ unico vero ordine esistente
(…) per la sinistra liberale e il radicalismo ‘giacobino’ la politica è
statualità nelle sue varie declinazioni, decisionalità per rispondere alla
sfida della disgregazione proveniente dalle pieghe di una società ‘arretrata’ e
come tale bisognosa di una guida forte “.
“ La domanda di
‘rigenerazione’ che alla fine del secolo serpeggia in numerosi ambienti dell’
intellighenzia liberale italiana, pone l’accento sulla necessità di rafforzare
le componenti non elettive del sistema politico in risposta alla degenerazione
delle istituzioni rappresentative. “.
–––– P. 157 / 160
––––
Con la riforma
dell’ amministrazione comunale del 1889 l’ elemento locale diventa “un
imprescindibile fattore di politica nazionale”.
Con Giolitti
si accentuerà il carattere tecnocratico della politica liberale in Italia. Si
cerca di rispondere alle istanze sociali rendendo più efficiente la macchina
dello stato e dando più spazio alle municipalità, luogo di risoluzione dei
problemi, di mediazione tra il particolare ed il generale, di incontro tra
lobby locali, amministratori locali ed eletti nel Parlamento.
“ Dietro la
stanchezza per la politica e l’ elogio della ‘sana amministrazione’, così
tipici di quegli anni, non troviamo in realtà un ritorno al particolarismo ma
la trasfigurazione in senso nazionale dei problemi locali e il bisogno di
partecipare alla modernità con una forte identità municipale (…) ”.
Il giolittismo
cerca di relegare l’ istituzionalizzazione del conflitto sociale nella
dimensione locale, laddove vengono distribuite risorse alle forze più
organizzate, affinché la loro carica politica risulti ‘sterilizzata’. Proprio
questo approccio e questa diffusa pratica allontanerà sempre di più importanti
ambienti della borghesia italiana del sapere (soprattutto di formazione
umanistica ) dal sistema politico. Radicali, irredentisti e nazionalisti vogliono,
pretendono che si metta fine al conflittuale e ‘basso’ groviglio di interessi
di parte.
Le strade che
intendono percorrere sono però divergenti. Se un Salvemini vuole che una
rigenerazione del paese e del sistema politico parta dalla società civile, i
nazionalisti puntano invece a integrare dall’ alto ed in modo autoritario la
nazione nella su interezza, intendono completare la nazionalizzazione della
politica e della masse anche al di fuori dello stato di diritto. Vedono la
nazione come un tutto. Per loro “ non è dalla difesa del diritto individuale (
ora magari divenuto diritto sociale ) che il sistema politico trae
legittimazione “. Primaria è l’ identificazione comunitaria delle masse nella
nazione.
Del resto i
nazionalisti sono in un certo senso ‘all’ altezza dei tempi’, visto che anche
per i socialisti come per i cattolici solo “ attraverso l’ appartenenza ad una
comunità forte ( la classe o la Chiesa ) si diventa cittadini “.
Fino allo scoppio
della Prima Guerra Mondiale le tensioni sociali saliranno senza che sia
veramente posto, e men che meno risolto, il problema della politicizzazione
della nazione, della trasformazione del sistema politico su basi allargate,
quale recettore e mediatore a livello nazionale della istanze della società
civile.
–––– P. 162
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“ Chiusa l’
esperienza bellica l’ unità politica della nazione diviene realmente un
patrimonio condiviso. Il tradizionale sistema del notabilato locale è affiancato
da quello del ‘notabilato collettivo’, il partito, ormai indispensabile nella
difesa degli interessi di gruppo e di conseguenza nella creazione di un
immaginario nazionale di massa. “
“Con l’
introduzione del suffragio universale maschile, la proporzionale e il libero
sviluppo delle organizzazioni politiche di massa, il liberalismo italiano può
affermare di aver avviato a soluzione il problema storico della nazionalizzazione
della politica senza tuttavia aver mai voluto prendere in considerazione quello
della politicizzazione della nazione (…).
“ In questo senso
sono emblematici gli interventi di Nitti e M. Ferraris, rappresentativi dell’
intero liberalismo post-bellico, che tra il 1919 e il 1920, di fronte alle
irreversibili trasformazioni del tessuto socio-politico del paese, negano l’
opportunità di una rifondazione del sistema mediante l’ intervento politico per
eccellenza, quello della costituente (…) appellandosi ancora una volta alla
forza neutralizzatrice della ‘buona amministrazione’. “.
Heidelberg 4 luglio 2013
Beppe Vandai
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